The Rose of no-man’s Land

Otto giorni sotto minaccia sulla parete est del Mount Edgar, nel Sichuan, regalano una via quasi troppo pericolosa per esserne orgogliosi.

La rosa della terra di nessuno
di Bruce Normand
(pubblicato su The American Alpine Journal, 2011)

Non c’è niente di neutrale sul Mount Edgar. È sorprendente e selvaggio. È bello e mortale. È un’arrampicata incredibile con pericoli incredibili. Kyle Dempster ed io siamo entrati al gran Casinò Edgar nel novembre del 2010. Non ci abbiamo rimesso la camicia, ma il vecchio adagio è sempre vero: nessuno batte La Casa (inteso come il “banco” del Casinò, NdR).

La catena del Minya Konka nella provincia del Sichuan, nella Cina sud-occidentale, è poco più grande del massiccio del Monte Bianco. Tuttavia, nasconde più di dieci cime di 6000 metri, ciascuna con una sola salita o meno. Il luogo offre un serio potenziale per nuove vie in stile alpino su cime poco conosciute e molto impegnative.

Il Mount Edgar visto da Yanzi Gou, da est-sud-est. Il tracciato è quello di The Rose of no-man’s Land, salita da Kyle Dempster e Bruce Normand. La parete che si vede a sinistra, più piccola, è stata il teatro della tragedia di Johnny Copp, Micah Dash e Wade Johnson. Foto: Tamotsu Nakamura.

Questo tipo di avventura è esattamente ciò che Kyle Dempster e io stavamo cercando quando abbiamo pianificato un’altra sortita nelle remote vette della Cina occidentale. Ne avevamo trovate in abbondanza sulle cime Xuelian nel 2009, ma come risultato non molto di più che tante discussioni sull’alpinismo. Nel 2010 cercavamo più o meno la stessa cosa, meno le chiacchiere.

Non è facile pensare all’arrampicata dura in stile alpino intorno al Minya Konka senza imbattersi nello spettro dell’Edgar. Sebbene la vetta sia stata scalata dai coreani nel 2002, il mondo alpinistico non se ne è accorto fino al 2008, quando Tamotsu Nakamura ha pubblicato la sua immagine iconica della splendida parete est dell’Edgar. Due cordate hanno provato a scalarla la primavera successiva. I primi, Alexander Ruchkin e Mikhail Mikhailov, non sono riusciti nemmeno a trovarla a causa del tempo. I secondi, Johnny Copp, Micah Dash e Wade Johnson, sono stati uccisi da una valanga dopo aver deciso che la parete era troppo pericolosa per essere scalata.

Il Mount Grosvenor (Riwuqie Feng) 6376m da ovest. Kyle Dempster e Bruce Normand hanno salito l’ovvia linea centrale della parete, facendo così la seconda ascensione della montagna. Dalla cima sono scesi un po’ per la skyline di sinistra prima di scendere in doppia sulla parete nord (parte della quale è visibile in ombra). Julie-Ann Clyma e Roger Payne avevano scalato la cresta di destra nel 2003 (prima ascensione della montagna, 2003, vedi The American Alpine Journal, 2004, pp. 418–420). Foto: Bruce Normand.

Kyle e io ci completiamo a vicenda. Io sono lo scienziato e lui è l’artista. Io ho tutti i dettagli sotto controllo; lui ha il quadro generale. Io faccio le cose; lui si diverte a farle. Io sono quello del lavoro faticoso; lui è quello che alla fine risolve. Detto questo, entrambi provavamo esattamente le stesse sensazioni riguardo alla parete est dell’Edgar: attrazione e repulsione in parti uguali. Le emozioni di Kyle erano persino più forti delle mie, anche perché sentiva un legame più profondo con gli scomparsi Johnny e Micah, che conosceva per aver frequentato gli stessi club di alpinismo americani. Dopo aver parlato a lungo, abbiamo deciso che dovevamo andare. Abbiamo aperto la porta e, con quel suo modo tutto o niente, l’Edgar ci ha risucchiati.

Sapevamo che durante l’avvicinamento all’Edgar non ci sarebbe stato un posto dove fermarsi, quindi abbiamo deciso di salire in una sola spinta dalla base. Ciò significava acclimatarsi da qualche altra parte, e per questo abbiamo scelto le alte valli sul lato occidentale del Minya Konka Range. Siamo stati accompagnati dagli affermati alpinisti francesi Jean Annequin e Christian Trommsdorff, che hanno arrampicato per conto loro, e dal principale alpinista ed esperto di logistica cinese Yan Dongdong.

Ancora la parete ovest del Mount Grosvenor, con il tracciato della via Dempster-Normand. Foto: Bruce Normand.

Abbiamo fatto tutti i nostri preparativi a Chengdu e Kangding, e poi abbiamo camminato due giorni molto brevi fino al campo base di Shang Riwuqie 4300 m. Dongdong e io eravamo stati lì l’inverno precedente e sapevamo che sarebbe stato un buon posto per trascorrere due settimane facendo escursioni, scalate, ma anche mangiando e riposando. Le vette locali, tra cui Little Konka 5924 m, Jiazi Feng 6540 m, Mt. Grosvenor (Riwuqie Feng) 6376 m e Leduomanyin 6112 m, offrono numerose sfide alpinistiche, condite da pungenti venti occidentali che soffiano dall’altopiano tibetano.

Oltre all’escursionismo e ai pranzi, abbiamo fatto anche un po’ di scalate: il canale centrale della parete ovest del Grosvenor, che si ergeva direttamente sopra il nostro campo. Questa via era stata provata due volte prima, anche da Andy Cave e Mick Fowler nel 2003, ma le cordate erano state respinte dalle condizioni troppo secche. Quando Roger Payne e Julie-Ann Clyma hanno effettuato la prima e unica salita del Grosvenor nel novembre 2003, hanno scelto un canale più breve che porta alla cresta sud-ovest.

La parete est del Mount Edgar con il tracciato di The Rose of no-man’s Land come lo si vede da circa 4200 m durante il pericoloso approccio in canalone. Foto: Bruce Normand.

Nel Sichuan la maggior parte della neve cade in estate, il che rende l’autunno, quando eravamo lì, la stagione per trovare il ghiaccio. Kyle ed io abbiamo optato per una strategia single-push e abbiamo lasciato il campo base alle 3 del mattino. Abbiamo viaggiato slegati fino al passaggio chiave (a 5800 m), e a mezzogiorno avevamo salito i suoi due tiri delicati. A differenza di tutti i nostri giorni di preparazione, questa giornata si è rivelata fredda, con nuvole, vento forte e neve occasionale. Abbiamo scalato in simultanea il canale superiore per tutto il pomeriggio fino a qualche bel movimento di uscita. Un po’ di sole attraverso le nuvole squarciate dal vento ci ha accolti sulla vetta alle 18.00. A est, il Mount Edgar sembrava minaccioso.

La discesa non è stata una sorpresa: come quelli della prima salita, abbiamo fatto un po’ di cresta nord-est (sempre più incorniciata) fino al buio. Poi ci siamo lanciati in 15 calate lungo la ripida parete nord, arrivando nel bacino del ghiacciaio superiore alle 2 del mattino, dove un breve trasferimento ci ha portato camminando a una cascata di ghiaccio. Eravamo in ballo da 24 ore al freddo e al vento, quindi ci siamo fermati a bivaccare, tornando al campo base il giorno successivo.

Dempster più rilassato su un bel tiro di buon ghiaccio. Foto: Bruce Normand.

Il Mt. Edgar era una storia completamente diversa. Sul lato est della catena l’avvicinamento inizia su fondovalle verdeggiante a soli 1500 metri. Il tempo nebbioso e piovoso è la norma per circa 300 giorni all’anno. Con oltre 2000 metri di ripidi pendii boscosi e gole fluviali tra i campi e le montagne, questa regione avvolge le sue vette in una speciale atmosfera di mistero.

Abbiamo dovuto iniziare il nostro avvicinamento alla cieca, trascorrendo il primo giorno in un paesaggio di foreste pluviali e pareti di canyon simili a morene. Avevamo chiesto a un portatore di aiutarci a portare il materiale, e la sua ignoranza sul dove fossimo acuì il mistero. Il secondo giorno, col portatore un po’ alleggerito, stavamo ancora vagando nella nebbia in solchi fluviali instabili e verticali. Occasionali rocce cadevano e rimbalzavano verso di noi. Questo posto dev’essere un inferno sotto la pioggia. Una leggera nevicata ha iniziato a cadere mentre ci accampavamo sul bordo di un piccolo ghiacciaio a 4100 metri. Le pareti sopra di noi erano velate di nuvole.

Dempster da capocorda sul M6, per lo più secco, del dry-tooling dell’Edgar. Foto: Bruce Normand.

Il terzo giorno tutto è diventato chiaro. Luccicante al sole di un mattino senza nuvole, un’imponente parete rocciosa svettava proprio sopra di noi. La parete est è leggermente incavata con un lato asciutto, verticale, rivolto a sud-est sotto la vera vetta; un lato ombreggiato, rivolto a nord-est, solcato da diverse sottili linee di ghiaccio; e un canale centrale di drenaggio che raccoglie tutto ciò che cade dalle cornici sommitali verso il basso. Una scarica si è frantumata nello stretto canalone di accesso dal ghiacciaio proprio mentre guardavamo, un’ondata di polvere che si gonfiava al di sotto e sopra di noi.

Abbiamo aspettato due ore finché il sole non battesse più sul ghiacciaio e poi abbiamo continuato l’approccio, dall’aria ancora minacciosa. Abbiamo individuato un’enorme linea di scarico, che ha reso per lo meno facile capire dove fossero i pericoli. Il mio cuore martellava non solo per la nostra velocità. Più tardi abbiamo visto il seracco che ha causato lo smottamento, e a 5.000 metri ci siamo trovati oltre, sprofondando nella neve alta fino al ginocchio. Il sollievo valeva lo sforzo extra. Risalimmo a fatica il canalone sempre più ripido, avvicinandoci sempre di più alla parete. Ci accampammo scavando una semigrotta ai piedi della prima rampa di ghiaccio, stupiti di trovarci già a 5500 metri.

Dempster sul M6 accanto alle scariche del tipico terreno dell’Edgar. Foto: Bruce Normand.

Due tiri suggestivi sulla rampa di ghiaccio al sole del mattino, seguiti da neve più ripida, ci hanno portato a 5800 metri. Il seracco dietro di noi partì di nuovo, inviando un’altra ondata di blocchi lungo il ghiacciaio. Non avevamo bisogno di un suggerimento. Dovevamo stare fuori dai guai attaccandoci alla muraglia di sinistra. Kyle ha scelto di iniziare l’arrampicata seria in un vago diedro, che si è trasformato in un dry-tooling da M6. L’arrampicata era delicata e punitivamente ripida, con le movenze di uscita ancora di più, ma almeno la roccia era solida e ci si proteggeva molto meglio di quanto avessimo temuto. Mentre Kyle lavorava costantemente al comando, vedevamo l’opzione più facile nel canale di scolo principale essere travolta da cornicioni che cadevano. Avevamo sicuramente fatto la scelta giusta e un rapido lampo di sollievo ha moderato la mia trepidazione per la scalata che ancora ci attendeva.

Nonostante lo zaino più pesante, seguire è stato divertente: tacche piccole ma sicure e buoni appoggi delle punte. Seguirono tre tiri di ghiaccio sottile e ripido. Kyle è rimasto al comando, arrampicando delicatamente per lasciare almeno un po’ di ghiaccio ancora incollato alle placche sottostanti. Più divertente per me, risolvere un diverso problema di equilibrio nelle sue tracce. Al calar della notte ci siamo fermati nel nevaio a cui puntavamo, ma era ripido e ghiacciato. L’unica possibilità era un bivacco seduti su due terrazzini ricavati con le piccozze. La notte era calma e limpida mentre ci preparavamo guardando le stelle, ma al mattino i venti si alzarono leggermente e ci trovammo seduti in un imbuto di spindrift.

Una delle lunghe e difficili lunghezze di ghiaccio sul Mount Edgar. Foto: Bruce Normand.

Il quinto giorno ha presentato alcune nuove minacce. Il primo è stato il tempo, più nuvoloso con il vento che sferzava la cresta sopra di noi. Il secondo era il ghiaccio, sottile, poi fragile e infine inesistente. Kyle, guidando sul terreno delicato e appena impiastrato di ghiaccio, fu costretto a rimuovere quasi ogni traccia di sostanza bianca per scoprire dove trovare appoggio. È stata una giornata faticosa, sia per la natura dell’arrampicata che per l’onnipresente possibilità di uno scacco matto, seguito da quella discesa orribilmente pericolosa che si apriva sotto di noi. Alla fine ci siamo fatti strada su un diedro poco profondo sotto un tetto e ci siamo fermati su un colle innevato in una tempesta ululante. Avevamo finito. Abbiamo tirato su la tenda e ci siamo tuffati dentro per riposarci e fare rifornimento.

Il vento non si è placato. Il nostro trespolo, a 6200 metri, aveva una vista mozzafiato del Minya Konka che trascinava una nuvola di vento e su per la cresta sommitale dell’Edgar. Raggiungere la cresta sommitale ha richiesto una lunga traversata di ghiaccio su pendii esposti a sud e attraverso una linea di seracchi fino alla cresta sud arrotondata. In quel momento la minaccia era lo sfinimento, che sentivamo assai prossimo. Abbiamo raccolto le nostre riserve e ci siamo spinti verso la vetta, arrivando alle 14.30 su mani e ginocchia per controllare sempre di salire in sicurezza i cornicioni. A questo punto il vento tempestoso aveva portato un completo white-out: né vista né festeggiamenti, solo la foto di due uomini scattata a braccia tese.

Ci lanciammo in una discesa veloce e cieca, mirando a un alto bacino glaciale che avevamo individuato dall’alto. Discese facili ci hanno portato a 5700 metri, al riparo dal vento peggiore, ma la neve si è ispessita man mano che l’inclinazione della pendenza diminuiva. Ci siamo fermati a bivaccare sotto una roccia mentre la neve fresca iniziava a cadere. Il problema di quella notte era che non avevamo idea di dove fossimo.

Un’altra mattinata di sole ha fatto sperare che il ghiacciaio non fosse poi così male. Ore di neve alta, fratture profonde, pinnacoli di ghiaccio in discesa e corde doppie nei crepacci hanno infranto le speranze della mattina. Il tempo si è guastato ancora ed eravamo in una discesa sconosciuta senza visibilità. Crebbe la minaccia di morire di stenti persi in quel labirinto. Per un po’ abbiamo trovato che la via più facile era tra roccia e ghiaccio sulla sinistra, ma al calare della notte ci siamo ritrovati smarriti su placche ripide e sporche con corde ghiacciate e niente per poter attrezzare una corda doppia. Eravamo ancora a 4300 metri.

La scalata continua difficile anche ormai sulla cresta sud. Foto: Bruce Normand.

Il nostro ottavo giorno è spuntato nebbioso come non mai, con una fitta nevicata che ha aggiunto il pericolo di valanghe a tutto il resto. Abbiamo trangugiato il rimasuglio del nostro cibo, tanto in un modo o nell’altro non ne avremmo avuto più bisogno in seguito. Abbiamo trovato modo di creare un ancoraggio, quasi non siamo riusciti a tirare le corde ghiacciate e siamo scesi attraverso infiniti massi e canaloni ripidi e marci. A 3600 metri le cose si sono appiattite, la neve si è fatta più profonda e poi ci siamo ritrovati in un letto di torrente come quelli che avevamo percorso una settimana prima. A 3300 metri il fiume passava improvvisamente accanto a una strada. Eravamo giù. Abbiamo camminato per un po’, poi abbiamo fatto l’autostop a un classico camion Dongfeng cinese guidato da operai edili, che ci ha lasciato un po’ di mal di mare quando finalmente eravamo in cammino sulla strada principale di Moxi.

In apparenza, abbiamo ottenuto ciò per cui eravamo venuti: una linea dura su una montagna dura, che abbiamo scalato in puro stile alpino (abbiamo lasciato solo alcuni cordini per doppie e abbandonato due oggetti sulla montagna). Sia per Kyle che per me, tuttavia, il risultato è stato nella migliore delle ipotesi un pareggio: un’avventura al limite dell’epica in un’atmosfera permanentemente minacciosa. Potremmo aver fatto l’arrampicata tecnica più dura mai tentata nella Minya Konka Range, ma il risultato non è stato una sensazione di successo, o addirittura di soddisfazione, ma piuttosto un sollievo per essere saliti e scesi da questa montagna tutti interi.

Cerco di immaginare come ci saremmo sentiti per l’Edgar se non avesse causato la morte di Johnny, Micah e Wade. Le nostre teste sarebbero state più leggere. Avremmo fatto più battute. Avremmo potuto prendere più alla leggera le rocce che rimbalzavano e le cornici che si staccavano, ogni nevicata e ogni raffica di vento, solo parti di un pacchetto che sentivamo di poter affrontare se non avessimo già saputo che questa montagna era cattiva. O forse saremmo rimasti scioccati e spaventati, completamente sopraffatti dalla ferocia del luogo, se non avessimo avuto un’idea di cosa aspettarci. Non lo saprò mai. Mentre scrivo questo, quattro mesi dopo, posso ancora sentire la scalata, il lavoro di squadra e l’atmosfera selvaggia di quella parete. Non sento più gli stessi pericoli immediati, ma sento ancora la minaccia.

Sebbene non sia una linea molto diretta, la nostra via, The Rose of No-Man’s Land, potrebbe essere l’unica sicura sulla parete est dell’Edgar. Kyle ed io vorremmo dedicare questo percorso alla memoria di Johnny Copp, Micah Dash e Wade Johnson. Lo dedichiamo non al lato oscuro del Monte Edgar – le esperienze che loro hanno affrontato lì – ma al suo lato chiaro: lo spirito di avventura, la ricerca della bellezza e l’entusiasmo contagioso per le montagne che hanno portato ai loro amici e all’intera comunità di scalatori.

Kyle Dempster (a sinistra)e Bruce Normand nel white-out della cima del Mount Edgar. Foto: Bruce Normand.

Sommario
Area: Cina, Sichuan, catena Minya Konka
Ascensioni: Prima salita della parete est del Mt. Edgar 6618 m. The Rose of No-Man’s Land (WI5 M6) è stata scalata da Kyle Dempster e Bruce Normand durante una spinta di andata e ritorno di otto giorni dall’abitato più vicino, raggiungendo la vetta il 12 novembre 2010. La parete est e la cresta sud superiore dell’Edgar, precedentemente inviolate, si innalzano per 2500 metri e presentano un canale di avvicinamento oggettivamente minacciato. La parete sud-est più piccola a sinistra era il punto in cui Jonny Copp, Micah Dash e Wade Johnson sono stati uccisi da una valanga nel 2009. Dempster e Normand hanno effettuato una difficile discesa della cresta sud e del complesso ghiacciaio sud in condizioni meteorologiche generalmente avverse. Il Mount Edgar era stato scalato solo una volta prima, nel 2001, da una squadra coreana che aveva salito la parete ovest. Prima dell’Edgar, Dempster e Normand hanno effettuato la seconda salita del Monte Grosvenor (Riwuqie Feng) 6376 m.

Informazioni sull’autore
Bruce Normand, 44 anni, è scozzese ma vive in Cina, dove lavora come professore di fisica alla Renmin University (People’s University) di Pechino. Autore di oltre 20 prime salite e nuove vie sui 6000 metri del Trans-Himalaya, ha anche scalato il K2.

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The Rose of no-man’s Land ultima modifica: 2023-08-17T05:33:00+02:00 da GognaBlog

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