The wall

The wall
(viaggio tra gli arrampicatori inglesi)
di Paola Mazzarelli
(pubblicato su Rivista della Montagna n. 56 del maggio 1983)

«Brava, piccola» diceva invariabilmente l’amico che mi aveva iniziato alla montagna quando arrivavamo in vetta. Arrampicavo con l’entusiasmo riflesso di chi segue e deve imparare. Il modo giusto, mi sarebbe stato insegnato. E di modo giusto ce n’era uno solo. La montagna, me lo sentivo ripetere da sempre, è austera, difficile, faticosa. Arrampicare, o meglio, andare in montagna (e allora erano la stessa cosa), è apprendistato, iniziazione, una forma della conoscenza che si raggiunge nel rispetto delle gerarchie. È la scuola, l’istruttore, l’amico più bravo, l’accademico del CAI. Se sei una donna, ad arrampicare è l’uomo che tira da primo.

Curber, una magnifica via nel Derbyshire. Foto: Paola Mazzarelli.

Non era errore, né fatica. Ma in Inghilterra fu un’altra cosa.

Ci arrivai per caso, vincendo la timidezza di affrontare l’indifferenza inglese, quella proverbiale freddezza cortese che, l’avrei imparato più tardi, per gli inglesi è l’incapacità di comunicare elevata a regola di comportamento civile. O forse, era stata la curiosità delle corde appese in fondo alla palestra, apparentemente inutilizzate e un po’ assurde in quello spazio riservato, secondo le ore, agli allenamenti del tappeto elastico, alle partite di volano, al corso di «tecniche di difesa personale per le donne» (imperversavano in quei giorni, sui giornali e alla televisione, i racconti raccapriccianti delle imprese del Bruto dello Yorkshire, una di quelle storie che periodicamente sconvolgono e appassionano morbosamente l’opinione pubblica anglosassone).

The wall, il muro, è la parete di fondo della palestra di W., una quindicina di metri di lunghezza, con buchi, appigli, un paio di tetti e le immancabili fessure. Ce ne sono, di simili, dovunque in Inghilterra, nelle Università e nei centri sportivi cittadini, un centinaio, mi dichiarava con orgoglio un giorno uno del membri dell’Alpine Club che si vantava di essere stato uno dei promotori di questa furia costruttiva degli ultimi quindici anni. Ora ne stavano progettando uno all’aperto, innovazione stupefacente, dato il clima locale, ma dettata dalla logica ferrea dell’allenamento. Lungo non so quanto, il muro sarebbe stato costruito in modo che i passaggi difficili fossero accessibili solo ai più bravi e che la gente non si rompesse la testa anche se abbandonata a se stessa. Magari sarebbero riusciti a farci fiorire sopra uno strato di ghiaccio negli inverni inclementi, e allora sì che la palestra sarebbe stata utile! Cemento e verglas. Suonava raccapricciante, ma a quell’epoca avevo già imparato molto sulla determinazione dei climber e non mi stupivo più che tanto. E del muro di W. conoscevo anche le scalfitture.

La scogliera, uno dei tipici campi di attività dei climber inglesi, che spesso sfruttano persino il deflusso delle maree per tracciare vie di qualche metro più lunghe. Foto: Paola Mazzarelli.

Ma quando ci andai per la prima volta, forte dei miei rari passaggi di quarto sulle palestre di casa, non riuscii a sollevarmi oltre la metà del percorso più facile. È che un buon muro è fatto apposta per allenarti e se riesci a salire al primo colpo e senza allenamento, a che serve? Per difendermi da questa logica ineccepibile, ma a me estranea, io parlavo di neve e ghiacciai.

Poi imparai che arrampicare in Inghilterra non ha nulla in comune con l’andare in montagna. Comprensibilmente. Nata nella seconda metà dell’Ottocento come esercizio di allenamento per il ristretto gruppo di gentlemen vittoriani che si sarebbero poi cimentati sulle grandi vie delle Alpi, l’arrampicata inglese divenne, a partire dal periodo tra le due guerre e poi ancora di più dopo la seconda guerra mondiale, un’attività totalmente indipendente e anzi spesso in polemica con gli alpinisti dell’Alpine Club (1), ancora oggi circolo chiuso e fondamentalmente di élite, a cui sono estranei, di fatto e nello spirito, i giovani e giovanissimi climber che affollano gli innumerevoli club locali. Irrimediabilmente conservatrice sul piano sociale, l’Inghilterra mantiene tradizioni di casta anche negli sport. Del resto, s’è mai visto un principe su una parete senza vetta da conquistare?

Quel giorno gli amici che mi introducevano alla futura ossessione dell’allenamento sul muro, mi fecero notare che la maggior parte dei ragazzi che in tuta e scarpette si arrampicava su e giù, in traverso e in obliquo, era impegnata a fare i passaggi usando il minor numero possibile di appigli, oppure con un peso da cinque chili appeso all’imbragatura, oppure solo sulle braccia. lo, naturalmente, avrei usato mani e piedi e tutti gli appigli, compresi quelli dei percorsi vicini, se mi fossero tornati utili. Ciò nonostante rimasi a metà di una Dülfer e mi feci calare vergognosamente a terra. È vero che avevo le scarpe da ginnastica. Poi comprai le scarpette. Ma mi dissero subito che era questione di tecnica e di muscoli, non di scarpe. Infatti, nonostante le EB, non riportai all’inizio successi degni di nota. Mi ci vollero varie sere per arrivare in cima. E cosi diventai una fanatica frequentatrice del muro, passata anch’io alla convinzione inglese che l’allenamento è essenziale e che arrampicare non è improvvisazione. Non me ne accorsi subito, ma questo era l’inizio di una rivoluzione.

Gianni Battimelli in arrampicata su Cenotaph Corner, in Galles, una classica via in diedro aperta dal grande Joe Brown. Foto: P. Revell.

Dopo due ore sul muro i climber di W. passavano alla ginnastica: trazioni alla sbarra, piegamenti, pesi. In attesa dell’ora del pub. Il vero climber infatti conosce tutte le raffinatezze della tecnica a incastro e tutti i tipi di bitter, la birra rossa, esistenti sul mercato.

Quando viene la bella stagione (espressione che immediatamente rivela la mia origine mediterranea, perché, quando viene la bella stagione in Inghilterra?), ovvero, quando non piove, i climber di W. vanno ad allenarsi sulle mura del castello di Kenilworth, di elisabettiana memoria. Il castello è l’equivalente, in quella sconfinata campagna di colline appena accennate, dei nostri massi. Ci si va la sera, nelle interminabili ore del tramonto nordico, fantasmi che lasciano tracce di magnesite lungo le infinite variazioni di un unico, lunghissimo traverso. Neppure il muro di W., nonostante le tacche che generazioni di climber ci hanno scalpellato di straforo, dopo lunghi studi sulle posizioni e sui movimenti più inverosimili, ha appigli così minuti e perfetti per sviluppare i muscoli delle dita.

Questo tuttavia non è buildering (arrampicata sui buildings, edifici) l’ultima invenzione, tra gioco e provocazione, dei climber americani, figli ribelli, più certo degli inglesi, della civiltà del cemento. Arrampicare sul castello non ha significati dissacranti. Vecchie di secoli, queste mura rossastre corrose dal tempo, hanno l’aspetto, la consistenza, l’anima stessa delle rocce e appartengono al paesaggio quanto le querce che le circondano e la linea dolce ondulata dei campi dove pascolano i cavalli. Il guardiano fa finta dì non vedere. Se c’è una sezione del muro particolarmente pericolante, mette un cartello di pericolo. Scrupolosamente, per non infrangere il proibito, i climber stanno alla larga.

Passaggio su una via di gritstone (arenaria) nel Derbyshire. Foto: P. Revell.

Così convivono con le strutture e le norme della società. Come si rispettano i cartelli del guardiano e il patrimonio artistico nazionale, così si accettano di buon grado le limitazioni imposte dalla RSPB (Royal Society for the Protection of Birds) sui tempi e i luoghi in cui si può arrampicare. Le poche pareti inglesi appartengono al climber tanto quanto agli uccelli che le abitavano già prima che arrampicare diventasse di moda e dunque hanno il diritto di fare il nido senza essere disturbati. Ci sono posti, soprattutto lungo le coste, dove, in certi periodi dell’anno, i climber sono, gentilmente, pregati di stare alla larga. I soliti cartelli, le solite belle maniere. Pulcinella di mare, cormorani e gabbiani procedono a moltiplicarsi. Il falco pellegrino, un tempo raro ma incontrastato padrone delle pareti migliori, oggi tuttavia più numeroso, ha più diritti: nessuno ne rivela i luoghi di nidificazione. Incontrarlo è rara allegria.

Non so se anche questo rispetto degli uccelli faccia parte dell’etica del climber o se sia semplicemente il cittadino in lui che rispetta le leggi. Non ho conosciuto tra i climber accesi conservazionisti, né naturalisti convinti. Del resto l’Inghilterra è relativamente indifferente ai nostri problemi ecologici: da secoli ormai non esistono zone intatte. I pochi spazi non coltivati, o sono strutturati in riserve e parchi (ma i parchi poco hanno di diverso dalla campagna circostante) o appartengono, quasi sempre, alle pecore che provvedono, con la sensibilità della natura, a lasciare intatti i posti dove crescono piante immangiabili: erica, felci, ginestre. Per il resto l’Inghilterra è un enorme, ordinato, verdissimo giardino dove animali domestici, boy scout, climber, naturalisti, ornitologi, vecchiette con cani, cavalli e cavalieri convivono, ognuno sfruttando a suo modo e civilmente la natura docile e domestica.

In questo giardino coltivato da sempre, percorso da sentieri per le passeggiate domenicali, suddiviso da steccati dove chi passa richiude i cancelli perché le pecore non sconfinino nei campi vicini (dove sono finite le foreste di Shakespeare?) affiorano qui e là, resti un po’ patetici agli occhi di chi è cresciuto con gli orizzonti sempre chiusi da catene di monti, e valli e boschi e ghiacciai, the crags, le rocce, testimoni di altre ere e di altre montagne ormai estinte. Crag: termine generico che vale sia per le scogliere (cliffs) delle coste rocciose (Galles, Cornovaglia, Devon), sia per le pareti dell’interno.

Derbyshire, su Stange Edge. Foto: Paola Mazzarelli.

lo, che avevo imparato nelle elementari che i rilievi si chiamano «colline» fino a 990 metri di altezza, ho dovuto rivedere il mio vocabolario geografico e contemporaneamente la mia visione del mondo: montagne e colline (mountains e hills) esistono entrambe in Inghilterra, ma la differenza non dipende da caratteristiche determinate astrattamente a priori. Come sempre, gli inglesi decidono empiricamente: l’aspetto, la maggiore o minore accessibilità, l’impressione dell’osservatore, fanno di un rilievo una montagna o una collina. Abituata a riferire la realtà a categorie indiscusse, trovavo l’atteggiamento anglosassone decisamente inquietante ed esigevo chiarimenti impossibili. Le montagne vere, mi assicuravano gli amici, sconcertati e un po’ impermaliti dal mio scetticismo alpino, ci sono in Scozia. lo non ci sono mai stata. Leggo tuttavia sulle carte che anche là, per quanto scoscese e impervie possano essere, si arriva al massimo a 1343 metri di altezza.

Montagne o colline, si tratta comunque sempre di rilievi tondeggianti che a tratti strapiombano in salti di roccia. Nello Derbyshire e nello Yorkshire, paesaggi ondulati di campi verdissimi e rossastre brughiere di erica, questi salti rocciosi di poche decine di metri si sviluppano a volte per chilometri. È gritstone, arenaria, pietra di fessure verticali e orizzontali dai bordi tondeggianti, rugosa e povera di appigli, che si presta soprattutto all’arrampicata a incastro, tecnica geniale ed efficacissima perché permette una meravigliosa economia di forze anche dove la parete strapiomba. Incastrata e «gonfiata» dalla contrazione del muscolo, sfruttando opportunamente le variazioni di sezione della fessura, la mano lavora quasi fosse un blocchetto, mentre i muscoli delle braccia e delle dita possono rilassarsi. I piedi, appoggiati alla parete, lavorano in opposizione. All’inizio, a dire il vero, uscivo dagli incastri con le nocche sanguinanti, frutto di innumerevoli frenetici ritocchi della posizione all’ultimo momento. Terrà? Non terrà? Ma teneva sempre.

Galles, Cenotaph Corner. Foto: P. Revell.

Fu sulle pareti di gritstone, roccia inglese per eccellenza, che negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale nacque l’arrampicata libera anglosassone in senso moderno, con il perfezionamento della tecnica di incastro e il miglioramento dei sistemi di protezione dovuto all’uso diffuso dei blocchetti (all’inizio non si trattava che di pietre di varie dimensioni, che i climber incastravano nelle fessure, passandoci poi attorno un cordino). Contemporaneamente l’arrampicata divenne sport indipendente dall’alpinismo, praticata da climber che in numero sempre maggiore provenivano dal proletariato delle tetre città industriali che sorgono appena oltre l’ultima fila di colline, dove la brughiera si perde nelle sterminate periferie di Sheffield e di Manchester. La fame di roccia e la necessità di sfruttare ogni sasso, anche il più irrilevante, hanno inventato sulle pareti di gritstone migliaia di vie parallele (più di diecimila nel solo Derbyshire), catalogate e graduate con cura nelle guide locali.

Per me, piemontese abituata al granito, roccia sempre impressionante, scostante, terribile, il gritstone fu la rivelazione di una roccia dolce e quasi femminea, senza asprezze di spigoli, difficile da comprendere e ancor più difficile da amare, dove la violenza penetrante dei chiodi non offre sicurezze, che anzi la roccia si sfalda sotto i colpi del martello, mentre si apre generosamente ai più improbabili incastri. Se ne esce con tracce leggere di sabbia sulle dita e negli occhi l’impressione dell’incerto sfavillio della mica. E anche il paesaggio ai piedi delle bastionate di gritstone ha una dolcezza riposante: tra campi appena ondulati, segnati dalla geometria dei muri a secco, si aprono ordinati paesi di pietra grigia, fattorie raccolte tra ciuffi di alberi, la pace sottile di una campagna sempre ugualmente verde su cui le stagioni passano senza quasi lasciare traccia.

Tra la fittissima vegetazione dei fondovalle, se così si possono chiamare le depressioni lievi tra i gruppi di colline, emergono, generalmente più alte ma meno continue, le pareti di calcare, salti verticali di roccia biancastra percorsa dalle striature grigie e nere dei colatoi. Il calcare fu esplorato più tardi dai climber inglesi e fu inizialmente considerato quasi esclusivamente come un’opportuna palestra per l’arrampicata in artificiale necessaria su certe vie dolomitiche. Fu solo negli Anni Sessanta, con il perfezionamento dei mezzi di protezione e l’evoluzione tecnica dovuta all’introduzione delle scarpette di modello francese, che l’arrampicata libera cominciò a interessare le pareti di calcare e molte delle vie vennero ripercorse senza mezzi di progressione. Oggi calcare e gritstone sono ugualmente popolari tra i climber.

Fosche e imponenti le nude pareti del Galles settentrionale, perennemente avvolte nelle nuvole basse che qui scaricano tutta l’umidità dell’Atlantico; più selvagge le scogliere che precipitano a picco nel mare sempre cupo in cui emerge a tratti la testa di una foca e dove i gabbiani irridono agli sforzi dei climber pur sempre terrestri, battute dalle maree che obbligano a strani calcoli di orari per avvicinarle; più solitarie e raffinate le pareti del Lake District, brulle colline in fondo a dolcissime valli tra i laghi incantevoli dei poeti romantici.

Cresciuto tra queste palestre, Kosterlitz si stupiva della grandiosità delle nostre pareti di granito e affermava, e poco importa ormai che sia storia o leggenda, che c’è più roccia in Valle dell’Orco che in tutta l’Inghilterra. Eppure su queste modeste pareti, dall’aspetto spesso ripugnante ma che a tratti offrono condizioni proibitive per la verticalità impressionante e le condizioni atmosferiche, gli inglesi hanno sviluppato una scuola di livello tecnico altissimo, arrampicando con la pioggia e con il vento, esplorando metro per metro ogni sasso, sfruttando le basse maree per tracciare vie di qualche metro più lunghe, facendo spesso tre o quattro ore di macchina per insistere caparbiamente su un’unica, stupenda, maledetta fessura di venticinque metri.

Forse per questa fame di roccia e per la necessità di preservarla intatta, forse perché ogni giardino è tale solo se curato e rispettato (avversione per il disordine e diffidenza puritana per la natura selvaggia?) o perché la serietà è vocazione inglese, nel mondo dei climber le questioni di etica sono altrettanto importanti delle questioni di tecnica. Quando la vetta non esiste, il panorama è sempre lo stesso, il tempo, le stagioni, la temperatura, la velocità di salita sono fattori irrilevanti, l’arrampicata diventa fine a se stessa, l’interesse per la via è puramente tecnico e l’essenziale non è il che cosa ma il come. Non è il fascino dell’imprevisto o l’avventura dell’ignoto ad attirare il climber che, steso ai piedi della parete, ha già mentalmente percorso la via decine di volte e la conosce ancor prima di possederla. Il senso dell’azione, non ritrovato all’esterno, nella conquista di uno spazio che di fatto non esiste, è diretto all’interno, in una dimensione puramente individuale. Nasce così, e certo non vi è estraneo il puritanesimo che permea tutti gli aspetti della vita anglosassone, un’etica precisa che vieta e permette e regola le forme, i modi, gli strumenti dell’arrampicata.

Ancora l’arenaria del Derbyshire. Il gritstone, roccia inglese per eccellenza, si presta soprattutto all’arrampicata ad incastro. Foto: P. Revell.

Fare una via significa solo farla in libera e l’ossessione del non toccare mezzi di progressione è tale che un climber può arrivare fino all’ultimo passo e scendere pur di non sfiorare un chiodo o un blocchetto. Ed è forse più di fronte a se stessi che agli altri che ci si vergogna di riposare su un’assicurazione, perché arrampicare, come tutto in Inghilterra, è attività essenzialmente privata. Del resto, non è personale e privato ogni rapporto con Dio? C’è qualcosa di caparbio e di stranamente solitario nello spirito con cui i climber affrontano la roccia, un atteggiamento di rigida determinazione individuale e moralistica che sconcertava e stupiva il mio temperamento mediterraneo incline a riconoscere il valore dell’esperienza solo attraverso il confronto con gli altri. Anche arrampicare è espressione dell’ossessione inglese per il privato e non se ne parla. Abituati fin dall’infanzia a non parlare di sé, cresciuti in una cultura che rifiuta ogni intellettualizzazione astratta, i climber non amano verbalizzare le proprie esperienze. Arrampicare non ha in Inghilterra nulla dell’irruente, scanzonato, provocatorio divertimento dei climber americani, non è atteggiamento contestatore né fatto di costume. E non ha nulla neppure della entusiastica, raffinata giocosità francese.

In Inghilterra nulla è mai selvaggio e violento. La natura e l’ambiente, ridotti da secoli di manipolazioni umane a dimensioni familiari e conosciute, non offrono spazi alternativi alla regolare vita quotidiana. L’inevitabile riservatezza non permette esplosioni di allegria, né espressioni di entusiasmo, né liberazioni di sentimenti. È indicativo che in uno dei testi più rappresentativi dell’arrampicata anglosassone moderna (2), la bellezza delle vie venga valutata anche come committment (impegno) e si indichi quale tendenza di punta il rifiuto del «facile» inteso anche nel senso della sicurezza (assicurazioni in loco o facilmente piazzabili).

Chiodi del resto sulle vie in Inghilterra ce ne sono pochi, arrugginiti e spesso poco sicuri, e i climber, a cui è quasi totalmente estraneo l’uso del martello, li considerano spesso con diffidenza. È un’avversione antica, radicata nell’atteggiamento tipicamente insulare e purista della mentalità anglosassone, che risale alle origini dell’arrampicata inglese e ha un curioso antecedente nel clima di sospetto con cui gli alpinisti dell’Alpine Club consideravano l’uso dei ramponi alla fine del secolo scorso. Fu durante la guerra, per l’esigenza di allenare le truppe che avrebbero dovuto combattere in montagna, che i chiodi cominciarono ad essere usati liberamente, ma la diffidenza per le innovazioni e le tecniche d’oltre Manica non venne mai meno e oggi ricompare nell’avversione che i climber manifestano spesso nei confronti dell’artificiale.

Nella Encyclopedia of Mountaineering del 1975 alla voce piton, chiodo, si legge che «i chiodi… vengono ancora oggi usati con parsimonia, poiché si riconosce che piazzare un chiodo ove non sia necessario diminuisce il grado di difficoltà di una via ed equivale a barare (!) (3)». Unica, incongrua concessione all’artificiale, su cui per la verità si sono scatenate roventi polemiche, la magnesite. Ma la magnesite, dicono, non rovina la roccia, non altera la parete, non modifica la struttura della via e pioggia e vento la cancellano presto. La cancellano, bene inteso, se piove di stravento su quegli strapiombi impressionanti.

È pur vero che le pareti inglesi si prestano come forse nessun altra all’arrampicata libera: sulla roccia verticale, tutta buchi e fessure, si può sempre sistemare qualche blocchetto. Con la tecnica di progressione i climber imparano dunque l’altra tecnica, altrettanto raffinata e difficile, del sistemare le assicurazioni velocemente, senza perdere tempo e senza stancarsi, riconoscendo al tatto dimensioni e forme e incastrando i blocchetti e i friend con rapidi movimenti precisi. La possibilità di protezione è uno degli elementi principali nella valutazione delle difficoltà di una via. Così, se da un lato l’impegno tecnico richiesto dai passaggi viene valutato sulla scala numerica (da 1 a 7 con tre suddivisioni intermedie, a, b, c, per ogni grado), dall’altro una scala parallela in lettere (VS, HVS, E1, E2, E3, ecc.) tiene conto della maggiore o minore possibilità di proteggerli.

Dalla interdipendenza delle due scale (scale aperte) risulta un criterio relativamente uniforme di valutazione dei due elementi che costituiscono la difficoltà di una via, tecnica e rischio. La ricerca del rischio, su pareti che non conoscono chiodi a espansione, diventa spesso esasperazione dell’elemento individuale. Fare da sé, in questa società dove l’industrializzazione ha irrimediabilmente appiattito l’individuo, è espressione di un’individualità che nelle strutture sociali di fatto non ha più spazi. E tra difficoltà tecnica e rischio le punte dell’arrampicata anglosassone oggi sembrano ricercare piuttosto il secondo. L’arrampicata libera in solitaria è uno degli orizzonti verso cui si muove il mondo dei climber, forma di uno snobismo estremo e solitario dove l’eroe si qualifica non tanto per la sua superiorità nei confronti degli altri, quanto per la sua assoluta indipendenza.

Così, anche se il mito si crea, sempre, attorno a certi personaggi, nel mondo dei climber le capacità individuali non vengono sottoposte a confronti e non vengono riferite a valori esterni. E qui è forse la vera caratteristica della scuola anglosassone, nella mancanza di ogni idea di apprendistato che in Gran Bretagna è scomparsa come sono scomparsi l’artigiano e il contadino, mestieri della tradizione, dove la conoscenza passa dai padri ai figli e dagli anziani ai giovani. In Gran Bretagna ogni esperienza è rigorosamente individuale e si misura su scale di valori private, la verità non è posseduta da nessuno, l’imitazione dell’eroe è fenomeno relativamente scarso. E arrampicare è una varietà di esperienze private.

Note
(1) Fondato nel 1857. Vi si è ammessi su proposta di due membri e parere favorevole del consiglio. Età minima 21 anni. Fino al 1974 erano escluse le donne.
(2) Hard Rock, a cura di Ken Wilson, 1981.
(3) Encyclopedia of Mountaneering, Walt Unsworth, 1975, pag. 291.

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The wall ultima modifica: 2025-01-17T05:15:00+01:00 da GognaBlog

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8 pensieri su “The wall”

  1. Brava Paola e bei ricordi di quando si pensava fosse nell’uomo anzichè nella scarpa la parte più interessante dell’arrampicata.

  2. Bell’articolo.A suo tempo l’avevo letto. Rimanda a distanza di 5 anni all’articolo tradotto e con note di G.P.Motti , a firma Peter Boardman ” Dove sta volando l’arrampicata in Gran Bretagna” apparso sulla RDM  n.33 settembre 1978.L’articolo di Paola Mazzarelli  oltre a riportare personale esperienza diretta è anche “sociologico” e rimane uno scritto anche oggi assai interessante

  3. Bel brano, dove si racconta l’arrampicata britannica con  cuore e occhi mediterranei. Ma le differenze non alzano muri, anzi, stimolano incontri per allargare gli orizzonti.

  4. Una lettura gradevolissima che coniuga pragmatismo britannico con assorta contemplazione,concretezza tecnica con immersione nel bello,profonda conoscenza dei luoghi con capacità  di stupirsene,disincanto attuale con anacronistica e sempre più rara sensibilità. Un’immersione totalizzante  in atmosfere che solo un vero amore radicato per quei luoghi può comunicare con tanta passione BravaPaola,ci hai fatto venire una gran voglia di 

  5. Piacevole sorpresa! Uno apre il blog e si ritrova nella foto di copertina… però non so proprio chi sia questo P. Revell cui viene accreditata la foto; in realtà mi è stata scattata dal mio amico Rys Zaremba, che è quello che si vede nell’altra foto su Cenotaph Corner, fattagli da me mentre saliva il tiro (con le Superga…). Era il maggio 1975.
    Bei tempi, quelli della Rivista dei primi anni ’80. E leggere Paola è sempre un piacere, anche a più di quaranta anni di distanza.

  6. Bell’articolo , brava !.Non mi sento troppo attratto da quel clima , ma chi scrive mostra di conoscere molto delle caratteristiche degli inglesi , un popolo strano che ha inventato gran parte dei giochi con cui ci trastulliamo oggi.

  7. Brano splendido che racconta un incontro tra modi, mondi e mentalità differenti con una precisione e una leggerezza che parlano di una fascinazione che è quasi amore.

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