Toccare con mano
di Giuseppe Penotti
“Ma j’é chi a dis ch’a lé vita Ma c’è chi dice che è una vita
sta vitassa da can, questa vitaccia da cani,
j’é chi a seugna na vigna c’è chi sogna una vigna
l’aria pura dij camp, l’aria pulita dei campi,
ma sti quatr falabrach, ma questi quattro stupidi,
sta campagna ‘mpëstà questa maledetta campagna
lor la vëddo ‘n cartolin-a, la vedono in cartolina,
’s la gòdo për na sman-a, se la godono una settimana,
ma peui lor a torno a cà, ma poi tornano a casa.
’s na torno a la sità, tornano in città
con la vita asicurà. con la vita garantita (Gipo Farassino)”.
Nel 1976, avevo quattordici anni, mio padre mi spedì a lavorare nei mesi estivi in un rifugio in Val Pellice. Il suo scopo apertamente dichiarato era far comprendere e accettare il valore della fatica e del lavoro a un ragazzino di città, abituato agli agi e alle comodità di una famiglia benestante.
Nel 1978, a causa di una brutta pagella e di un carattere sempre più turbolento, mi rispedì nello stesso rifugio, dando chiare indicazioni al gestore di allora e al pastore che abitava nella “bergeria” adiacente di non lasciarmi mai inoperoso.
Il rifugio era servito da una strada malagevole, allora sterrata, che portava fino ai 1700 metri della conca ove sorgono il rifugio e le bergerie, già allora parzialmente abbandonate. Rammento che nelle domeniche di bel tempo il maggior afflusso era costituito da una decina di vetture, venti o trenta persone al massimo. Escursionisti, prevalentemente francesi o protestanti che arrivavano da paesi del nord per seguire le orme e i luoghi dei valdesi. Qualche cacciatore valligiano che veniva in osservazione per la vicina stagione venatoria e poco altro. La parte più faticosa, sia fisicamente che mentalmente, fu aiutare il pastore nella gestione delle vacche, farle uscire e rientrare dalla stalla, aiutare alla mungitura (lavoro estenuante). Il pastore, come il gestore del rifugio, era un amico di mio padre. Scoprii dopo qualche tempo che quel volto invecchiato dalla fatica, dal sole e dal freddo, non apparteneva a un settantenne come immaginavo ma a un cinquantenne che morì prematuramente poco tempo dopo.
Queste esperienze, unite ad altre successive, mi fecero avere la contezza che la dicotomia di visione della montagna fra cittadino e montanaro era ed è un solco profondo difficilmente colmabile. Da un lato il cittadino che nella montagna vede il luogo ove i suoi desideri, sogni, aspettative e prestazioni alpinistiche trovano una meta e uno scopo ma che a fine gita torna agli agi e alle comodità della pianura, dall’altro il montanaro che nelle valli, nelle vette, nei boschi non vede bellezza ma fatica, generalmente pagata anche male.
Da quei tempi sono passati quasi cinquanta anni. L’antropizzazione della montagna è cambiata radicalmente, il turismo sia estivo che invernale e il miglioramento delle infrastrutture hanno portato sì maggior benessere ai residenti delle terre alte, ma spesso e volentieri anche storture causate dall’affollamento e dal numero sempre crescente di persone che frequentano la montagna. Gli esempi sono innumerevoli ed è inutile citarli, ma uno in particolare è sempre più dibattuto anche a causa dei cambiamenti climatici ed è la presenza di infrastrutture sciistiche, impianti di risalita e piste sempre più estesi e spesso invasivi.
Questo ha causato come contraltare un movimento sempre più generalizzato di persone, generalmente alpinisti, scialpinisti e movimenti ambientalisti come Mountain Wilderness che censurano questa visione invocando un “ritorno alle origini” e auspicando, nella frange più intransigenti, il completo smantellamento di queste infrastrutture.
Ammetto che a titolo personale ho sempre avuto un’opinione abbastanza laica e non estrema in merito agli impianti sciistici. Non potrebbe essere altrimenti, sia per le esperienza citate all’inizio sia perché io per primo, scialpinista da decenni, poi mia moglie e mia figlia, abbiamo imparato a sciare in pista. Una contrarietà tout court agli impianti, avendoci sciato, sarebbe un bell’esercizio di ipocrisia… Come molti, ho avuto modo di godere durante la recente pandemia a impianti chiusi la risalita con le pelli su piste generalmente intonse, ma non ho mai dimenticato per un momento che questa bellezza mi era permessa perché le piste, benché chiuse, erano state preparate e manutenute sia d’estate che di inverno.
Ed allora, complice un momento della mia vita professionale dove potevo permettermi un parziale distacco, sono ritornato al ”rifugio e alla stalla” e sono andato a lavorare in uno dei centri sciistici più grandi e complessi del nord ovest: la Via Lattea. Comprensorio sciistico che si estende sui comuni di Sestrière, Pragelato, Sauze d’Oulx, Cesana, Clavière e Monginevro. Circa 70 impianti di risalita con oltre 400 km di piste. Insomma un colosso, oggettivamente “ingombrante” e recentemente acquisito dal fondo inglese ICON.
Volevo di nuovo vivere, per capire e farmi un’opinione precisa, un’esperienza immersiva.
Ho lavorato in due contesti e momenti diversi. Dal 28 novembre e fino al 15 dicembre 2022 inserito nel settore sportivo per le gare del 10/11 dicembre 2022 di Coppa del Mondo femminile e da febbraio 2023 a intermittenza e a chiamata nel settore tecnico come impiantista per circa trenta giorni. Il lavoro? In entrambe le esperienze faticoso, se non spesso estremamente pesante da un punto di vista fisico. La preparazione di una gara di coppa del mondo comporta una complessità e la risoluzione immediata di problematiche impossibili da rendere comprensibili se viste da fuori, il lavoro come impiantista è altrettanto faticoso sia da un punto di vista fisico che mentale, in quanto i parametri di sicurezza da applicare impediscono anche solo per un momento di distrarsi. L’infortunio tuo, o peggio del cliente, è sempre dietro l’angolo. Ho vissuto fianco a fianco con gli addetti stagionali o a tempo pieno, mangiando con loro ed ascoltando i loro discorsi, le loro storie e vicissitudini.
Queste persone sono tutte residenti in alta Val di Susa o alta Val Chisone. Sono generalmente piccoli artigiani che alternano il lavoro invernale sugli impianti con il lavoro estivo come muratori, decoratori, elettricisti, idraulici. Alcuni, non molti, sono pensionati che ancora in buona forma fisica arrotondano una pensione decisamente scarsa. Il lavoro come impiantista o nel settore sportivo (chi si occupa delle gare di sci) è ben retribuito in termini assoluti anche se le somme percepite, trattandosi di lavoro stagionale, sono comprensive dei ratei di 13a e 14a mensilità. Per tutte queste persone la differenza è fra la soglia di povertà e un reddito che non arricchisce ma fa sopravvivere. Pochissimi, se non pressoché assenti, gli studenti universitari. Ne ho incontrato solo uno. E’ un lavoro che assorbe tutti i fine settimana e tutte le festività e che in fase preliminare fa selezione a causa del contratto applicato dei trasporti a fune, assimilato ai contratti di trasporto, che prevede controlli sistematici del sangue e delle urine. Io stesso, oltre all’esame preliminare delle urine, ho avuto un controllo a sorpresa a fine turno.
Nelle conversazioni ho percepito da parte di tutti la consapevolezza che questo potrebbe essere un lavoro senza una reale prospettiva di stabilità futura a causa del cambiamento climatico che rende le precipitazioni nevose sempre più variabili e altalenanti, nonostante il fatto che la Via Lattea goda di un’altitudine rilevante. Sestrière è a duemila metri di quota e gli impianti arrivano fino a 2800 metri. Chi ha un’età fra i 45 e i 60 anni fa il conto alla rovescia in attesa di una pensione che comunque non sarà di certo lussuosa a causa della stagionalità dei contributi previdenziali. Chi è più giovane cerca, se ne ha la possibilità, la fuga in città.
Indicativamente, un centro sciistico come la Via Lattea dà occupazione in maniera diretta e indiretta per ogni stagione ad oltre tremila persone. Dipendenti diretti della Via Lattea sia stagionali che a tempo pieno, “pisteur” addetti alla sicurezza, gattisti, maestri di sci, addetti alla ristorazione o all’accoglienza alberghiera, piccole o medie attività di noleggio attrezzatura sciistica. Nessuna di queste persone si arricchisce o vive in una situazione di benessere. E’ più sopravvivenza, con redditi non certo rilevanti.
Le presenze turistiche in Via Lattea sono eterogenee, equamente divise fra sciatori piemontesi, prevalentemente provenienti dall’area torinese, e turisti stranieri che soggiornano in Via Lattea dai sette ai dieci giorni. Sono in prevalenza inglesi, olandesi, francesi e curiosamente, polacchi. I russi, per ovvie ragioni, sono pressoché scomparsi. Per gli accompagnatori non sciatori vengono organizzate delle piccole escursioni, generalmente a Torino o all’outlet di Settimo Torinese.
Pur vincolato da un patto di riservatezza che ho sottoscritto, posso tranquillamente aggiungere un dato significativo in quanto i bilanci delle società di capitali sono pubblici e non faccio che anticipare quello che sarà liberamente visionabile nel 2024. La Sestrière Spa spunterà per la stagione 2022-2023 un fatturato di circa 27 milioni di euro. Su questo fatturato avrà utili di esercizio significativi che saranno soggetti a tassazione e di conseguenza flusso tributario verso lo Stato e gli Enti Locali. Imposte che vengono poi riversate, nel bene o nel male, in servizi anche per noi “gente di città”.
Chiunque, anche senza una precisa competenza economica, dovrebbe rendersi conto che le interconnessioni economiche, ma anche sociali, di una realtà come questa sono estremamente complesse e che anche solo il pensare di cancellare tutto con “un colpo di spugna”, oltre ad essere irrealistico, espone chi propone una soluzione così draconiana al ridicolo e, come ho avuto modo di ascoltare chiaramente, al livore e al fastidio di chi in montagna ci vive e lavora.
Dopo questa esperienza ho la convinzione che la visione della montagna in ottica ambientale non possa non tenere conto di quanto ho esposto. Penso e ritengo che posizioni estremistiche, oltre ad essere irrealizzabili siano anche controproducenti. Vogliamo tutto e subito è uno slogan che già in tempi passati ha prodotto danni. Chi ha veramente a cuore la montagna comprende anche chi in montagna vive e lavora.
Il mio pensiero è che dobbiamo con la persuasione far comprendere che modelli come quelli della Via Lattea sono nati cento anni fa e non sono più replicabili. Fare capire che ampliamenti di centri sciistici esistenti o la creazione di nuovi non hanno più ragione di essere in un ottica di medio lungo periodo, ma allo stesso tempo accettare serenamente l’esistente perché sostituire l’economia di vallate che si basano su questo è inattuabile nel breve e medio periodo. E’ inutile da questo punto di vista citare come esempi virtuosi realtà come la val Maira in Piemonte o la Valpelline in Val d’Aosta, perché virtuosi non sono. Tutta la Val Maira ha circa 11.700 abitanti e ha visto nel corso degli ultimi 80 anni un calo demografico impressionante che, per quanto rallentato, non si arresta. La Valpelline ha circa 630 abitanti! In entrambe le aree il PIL pro capite è da area depressa. L’alta Val Chisone e l’alta val di Susa superano i 100.000 abitanti e anche solo ipotizzare per pura speculazione l’azzeramento degli impianti sciistici comporterebbe una bella montagna intonsa per i nostri desiderata di cittadini ma anche una bomba sociale devastante. Veramente vogliamo questo? Siamo sicuri che la strada da percorrere per far prendere piena coscienza che è necessario un cambio di paradigma sia il muro contro muro?
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23 Giuseppe Penotti
La qualità della vita non si misura solo con i numeri di un’economia spesso sostenuta con soldi pubblici o peggio con l’accesso a lavori stagionali mal pagati a vantaggio di imprese che fanno utili milionari. Soldi pubblici che dovrebbero servire a mantenere servizi come ospedali, farmacie, trasporti pubblici, scuole, cura del territorio, salvaguardia del patrimonio immobiliare tradizionale… progetti turistici sostenibili e a basso impatto. Se il modello di montagna è l’apres ski con le cubiste, le Audi in mostra sulle cime, l’innevamento artificiale, i movimenti di massa a picchi stagionali, le zip line, i ponti tibetani, i concertoni pop, i parcheggioni a pagamento mi domando perchè costoro semplicemente non si trasferiscono in città dove la loro cultura da centro commerciale è più adeguata ma si ostinino a cercare di trasformare la montagna in scenario per il loro lunapark finanziati.La montagna è un bene comune che deve durare nel tempo, ben dopo che saremo passati noi e tutti gli speculatori della fune e non lo sfondo pittoresco per l’avidità di pochi e l’inconsapevolezza di molti. Chi ha a cuore la montagna per tutto quello che “spiritualmente” rapprensenta, per quegli esseri umani ancora in cerca di un contatto con la natura da cui troppo ci siamo allontanati non scende a patti con chi trasforma e addomestica tutto, tagliando, sbancando, cementificando, appianando, cablando, asfaltando, costruendo.Lo sci alpino è una moda che come è arrivata passerà e lascerà sul terreno edifici, piloni, spianamenti, tombini, cavi e invasi. Curatevi dell’ambiente e del territorio per le qualità che questo ha e imparate a comunicarlo e lasciate la montagna ai montanari e ai sognatori.
“Per quel che riguarda la sua citazione sulla rarefazione della popolazione anche in aree montane sviluppate nel turismo invernale, per quel che riguarda la Val Chisone e la valle di Susa non è così, la popolazione km è stabile e addirittura, per la valle di Susa in aumento. …Le basti s che è lunga apere che ad Avigliana…”
Beh Giuseppe, direi che è come minimo ingenuo riferirsi alla di Val di Susa, che è lunga 80 km e ha più di 90000 abitanti (più o meno come La Spezia o Alessandria) per trarre conclusioni sull’impatto benefico dello sci…
Detto questo concordo assolutamente che tra bianco e nero ci sia un’infinita gamma di grigi e, come già detto, ho apprezzato il tuo approccio.
Ma resto dell’idea che lo sci sopratutto di pista sia ormai uno sport in via di estinzione e sarà meglio iniziare a ragionare su un possibile atterraggio delle economie ad esso legate, grandi o piccole che siano, piuttosto che continuare ad accelerare pompando investimenti per “salvarle”
24. Alberto Casoli.
Per quel che mi riguarda, critichi pure. Quando, come nel suo caso sono critiche argomentate, educate e ragionate, non possono che far bene e, perlomeno nel mio caso, esercitano il principio del dubbio che dovrebbe sempre guidarci.
Le rispondo, ovviamente per quel che conosco e ho approfondito, ossia la realtà del nord ovest. Non ho frequentato a sufficienza le regioni dolomitiche e nemmeno studiato i dati per poter dare un’opinione qualificata.
Quando scrive che solo una parte del reddito è andata a beneficio dei residenti è parzialmente vero, ma come ho scritto, le interconnessioni economiche sono veramente complesse e due dei dati che ci permettono di capire se una determinata area geografica gode di un minimo di benessere sono il PIL e la stabilità demografica. Questi due dati sono per le vallate che ho citato indubbiamente migliori e di molto rispetto ad altre zone piemontesi.
Sono invece pienamente d’accordo con lei, e l’ho scritto, che programmare una vita con lavori stagionali alternati a piccoli lavori artigianali, non è assolutamente facile. Il punto è che quando anche questo viene a mancare, il benessere delle vallate alpine crolla, porta emigrazione, spopolamento, carenza di servizi che per noi sono scontati ed abbandono della montagna.
Per quel che riguarda la sua citazione sulla rarefazione della popolazione anche in aree montane sviluppate nel turismo invernale, per quel che riguarda la Val Chisone e la valle di Susa non è così, la popolazione è stabile e addirittura, per la valle di Susa in aumento. Ma ribadisco, le interconnessioni sono veramente complesse e dire che l’aumento demografico della valle di Susa sia merito solo ed esclusivamente per la presenza di impianti di risalita è veramente riduttivo e non corretto. Le basti sapere che ad Avigliana, paese all’imbocco della valle di Susa c’è la struttura produttiva del più grande costruttore di barche da diporto di lusso di tutta Europa.
Insomma, non c’è il bianco e il nero, ma un’infinita scala di grigi. Contesto ed anche duramente (ma non è certo il suo caso) chi dice che esiste solo in bianco e che chi dice che forse c’è una scala di colori più complessa è solo una persona che non capisce niente.
Cordialità
Lungi da me l’intenzione di criticare i contenuti dell’articolo del signor Penotti, come pure quelli dei numerosi interventi suscitati da tale articolo, vorrei tuttavia richiamare l’attenzione su un aspetto, quasi sempre ignorato, degli effetti che ha lo sviluppo turistico di una zona alpina sul benessere economico e la qualità della vita dei residenti.
Non essendo un addetto ai lavori e neppure una persona particolarmente interessata a seguire questi problemi, mi esprimerò in termini forse grossolani, ma nel sincero intento di evidenziare concetti che a me appaiono del tutto evidenti, ma che non ritrovo quasi mai negli altrui interventi sull’argomento.
Mi pare di poter affermare che è opinione comune, sia presso i cittadini che presso i montanari, che lo sviluppo del turismo sciatorio rappresenti un indubbio e consistente vantaggio per le condizioni economiche dei residenti.
Tale opinione pare anche confermata dallo sviluppo edificatorio e dalla evidente buona manutenzione e aspetto generale dei paesi che hanno goduto dello sviluppo del turismo invernale sciatorio.
Ebbene, dopo anni di frequentazione come turista, di alcune delle zone più belle delle Dolomiti, ma soprattutto dopo una significativa esperienza lavorativa presso una delle principali stazioni di sport invernali dell’intero arco alpino, mi sono reso conto che i residenti ben poco hanno goduto dell’enorme sviluppo economico delle loro zone.
Buona parte della ricchezza generata è rientrata nelle disponibilità delle grandi società esterne che hanno investito in questo sviluppo.
Soltanto una parte minimale è rientrata a beneficio dei residenti, ma il peggio è che anche questa parte non è andata beneficio di tutti i residenti, ma soltanto ad una minoranza di loro.
Soltanto chi è riuscito a sviluppare una attività imprenditoriale ha potuto vedere crescere il proprio livello economico.
Per la maggior parte dei residenti questo tipo di sviluppo turistico ha portato soltanto scompensi che si sono rivelati deleteri per la maggior parte della popolazione.
Ipotizzando che l’economia ti ha una zona sviluppata con impianti di risalita e grandi alberghi abbia consentito di distribuire stipendi anche di 2000 o 3000 euro al mese, c’è da chiedersi come si faccia a programmare la propria vita, anche con tali stipendi, in una zona dove il minimo appartamento costa non meno di un milione di euro.
Il risultato qual è?
Alla fine, se andiamo a vedere, il calo demografico delle zone più sviluppate nel turismo invernale, appare non inferiore a quello delle zone rimaste escluse da tale sviluppo.
22. Alessandro Lavarra.
Quella che Lei chiama generalizzazione, pur rispettando la Sua opinione, è per l’appunto una sua generalizzazione su uno scritto più articolato ma che vuole essere leggibile senza pesantezza e senza tediare i lettori. Non conosco le sue competenze in materia economica, ma conosco le mie. Se vuole un’approfondimento mi fornisca un indirizzo mail e sono pronto ad inviarle un report articolato con numeri, cifre e dati statistici economici con le relative interconnessioni.
Per quel che riguarda la citazione da Lei fatta su MW le suggerisco di rileggere con più attenzione il passo riportato:
Dove ho scritto che è MW come associazione a invocare il completo smantellamento?
Cordialità.
una lunga premessa per arrivare a questa generalizzazione:
“Chiunque, anche senza una precisa competenza economica, dovrebbe rendersi conto che le interconnessioni economiche, ma anche sociali, di una realtà come questa sono estremamente complesse e che anche solo il pensare di cancellare tutto con “un colpo di spugna”, oltre ad essere irrealistico, espone chi propone una soluzione così draconiana al ridicolo.
Associazioni come Mountain Wilderness si occupano dei nuovi impianti non dell’esistente o del mancato smantellamento di quelli abbandonati.
Inutile soffiare sul fuoco della contrapposizione quando contrapposizione non c’è.
Alex, ma che articolo hai letto?
Montanaro cinquantenne col volto di un settantenne? Avrà avuto pero i polmoni di un ventenne, a vivere in montagna.Già, la famosa “vita in città”, molto comoda, soprattutto se riuscite a non ammalarvi alle vie respiratorie, se riuscite a non farvi ammazzare in un incidente, per non parlare della criminalità. Magnifica anche la prospettiva di alzarsi alla mattina quando è buio, infilarsi in una metropolitana o fare code nel traffico, lavorare otto ore in un luogo chiuso con le luci al neon, uscire che è buio e poi, ma guarda che pretese, voler fare un qualche giorno in montagna e non voler però trovare il solito gran puttanaio di parcheggi di automobili, “impianti di risalita”, “fast food” travestiti da “rifugio” contornati da strade inutili e costose fatte con soldi di chi lavora in città, nelle suddette condizioni.
Magari, anche, voler trovare una montagna vera e la possibilità di tornare a capire quali siano i reali valori della vita, quelli che ci fanno apprezzare il fatto di essere al mondo.Questo è uno dei tanti articoli, che vogliono contrabbandare una presunta autenticità del “montanaro” contrapposto al “cittadino” sognatore e come tutti manca della necessaria onestà intellettuale: ovvero, è come quando si vuole giustificare una guerra o più in generale una qualsiasi cosa sbagliata: pretendere che ci siano chiare ragioni economiche, propugnate da “persone serie” e concrete contrapposte agli idealisti: è con questa falsa logica che l’ umanità ha compiuto le peggiori scelte politiche nel ventesimo secolo, compresa la distruzione ambientale. Si tratta sempre e solo di interessi economici, concreti sì, ma per pochi, che, guarda un po’ sono soprattutto quelli di città, illusori e brevi per molti.
Carlo te lo scrivo sperando di non offenderti ma ti chiedo: è il peyote che ti fa quest’effetto o quale altra sostanza psicotropa?
Quando ero giovane andavo qualche volta a sciare all’Aquila di Giaveno. Poi qualche inverno senza neve e la necessità di mantenere gli impianti a norma hanno prodotto la chiusura della stazione. Adesso ci vado un paio di volte ogni inverno con le pelli. Analogo destino è toccato ad altre stazioni collocate a quote troppo basse. Non mi risulta che queste chiusure siano state determinate dai movimenti ambientalisti. Semplicemente non è più risultato economicamente conveniente mantenere gli impianti in esercizio e sono stati chiusi (andrebbero anche smantellati, ma questo è un altro discorso …).
Credo che analogo destino possa toccare ad altre stazioni se continueranno a diminuire le precipitazioni nevose e ad aumentare le temperature, ma è molto difficile fare previsioni sul “dove” e “quando”.
Il rude montanaro ignorante in braghe alla zuava e scarponi sporchi di letame se mai è esistito ora di sicuro non più. Si è arricchito con la pesante industria turistica che ha irrimediabilmente un territorio. Poi leggi che con la tecnologia si potrà far neve a 1000 metri in definitivamente, che costruire alcove di super lusso è obiettivi lecito e da perseguire, che per chi vive in montagna la cura dell’ambiente è pari a quella dei parchi cittadini …..francamente mi chiedo se anche l’ignoranza se ne sia andata con il montanaro del tabernacolo. Più che imbracciare il fucile per tornare a sterminare orsi e lupi, voi montanari dovreste imbracciarli per sparare a quegli amministratori che non sanno vedere uno sviluppo diverso da quello attuale, per sparare a quegli imprenditori che si arricchiscono sulle vostre spalle, sui vostri monti, dandovi in cambio 2500 euro al mese, il suv Audi, le vacanze alle maldive. Il vostro futuro non sarà più nello sfruttare la natura che vi circonda, ma nel proteggerla e custodirla e nel farcela scoprire per come è
Per quanto può valere anch’io ho una esperienza diretta di lavoro in una piccola stazione sciistica del Trentino.In qualità di tecnico del CNSAS ho fatto parte per anni della squadra addetta al soccorso in pista,spesso coadiuvata da personale dei CC.Ho vissuto la logistica,i problemi, le storie degli stagionali lì impiegati e concordo sul fatto che strutture di questo tipo comprendono storie di persone,intrecci economici con la valle e la città come esposto nell’articolo.Resta il fatto che i segnali di declino di questo modello di impresa in montagna erano chiari a tutti ben prima dell’evidenza del climate change ed è altrettanto vero che tutti hanno preferito chiuder gli occhi,tener duro e proseguire caparbiamente su una strada senza sbocco.Ora si va allo scontro radicale,di solito infruttuoso,ma anche così ci si focalizza su una nuova crisi senza che vengano prodotte proposte concrete per un futuro ormai….presente.Da una parte l’azzeramento improbabile di attività che,come un volano,andranno ancora avanti per un certo tempo,alimentate da occasionali stagioni meno asciutte e da politici “sovvenzionatori” in cerca solo di voti.Dall’altra il calo massiccio di frequentatori che ormai guardano ad altri modelli di consumismo e sempre meno avranno denaro da spendere per abbonamenti,noleggi e soggiorni;un calo sia chiaro a macchia di leopardo perchè il fenomeno è disomogeneo neinumeri e nelle aree montane.In mezzo chi protesta tirando la coperta da una parte all’altra,ma ciò che manca è una visione capace di garantire ancora un decente benessere ai montanari (io vivo in montagna,pratico lo scialpinismo,non amo le piste e sono abbastanza disgustato dal turismo di massa invernale ed estivo,tanto per chiarire) trovando nuovi modelli per il godimento della montagna,sottraendola a speculazioni devastanti ed anche all’agonia di una economia dello sci tenuta a galla con l’ossigeno
Giuseppe, hai scritto esattamente la verità, se poi tutto questo lo trasferiamo nelle “vallate appenniniche” (si può dire o suona sacrilego?), e ci aggiungiamo la devastazione, la solitudine e la precarietà già presenti e amplificate a causa del terremoto, o meglio dei terremoti, ne esce un quadro devastante per i montanari del sud, sconosciuto ai più che solo a parole hanno idea del “problema”…
Condivido pienamente questo articolo e mi ci ritrovo, infatti pur vivendo in città da 25 anni, ho fatto la mia esperienza da impiantista da giovane e sono originario di un paesino dell’Appennino tosco emiliano. Li la crisi si sente e gli ultimi abitanti sono perlopiù anziani; smantellare gli impianti di risalita significherebbe ulteriori miseria e abbandono di borghi secolari. Ad oggi stanno nascendo nuove forme di turismo sostenibile, ben vengano!!! Possono affiancarsi allo sci tradizionale, ma non possono essere sostitutive. Quindi per concludere: no a nuove megastrutture ma non ammazziamo la povera economia montanara con crociate anti sci ( soluzioni talebane non hanno mai portato nulla di buono)
Appunto: tornare al modello precedente, anche sul piano giuridico.
Posso portare milioni di testimonianze contro lo sci da “polli in batteria”. A volte sono state pubblicate anche su questo Blog, per esempio (una fra le tantissime):
https://gognablog.sherpa-gate.com/lo-sciatore-della-domenica/
10. Crovella. Un conto è un auspicio, basato su un concetto astratto, un altro è l’applicazione pratica.
Da quando gli impianti di risalita sono stati equiparati per legge a mezzi di trasporto di persone, la responsabilità civile di chi gestisce impianti di risalita è estesa anche alle piste. Ne consegue fra le varie problematiche che le piste devono essere battute al meglio e con la massima attenzione proprio per limitare lecause di risarcimento civile in caso di infortunio che già abbondano.
Quindi le piste “old syle” con gobbe, gobbette,scanalature e saltini nessun gestore sano di mente le mantiene.
Questo articolo è un vero antidoto alle bambinate irricevibili alla
Bouvard e Pécuchet dei vari Crovella.
Solo per amor di precisione ricordo che io NON auspico la chiusura totale delle stazioni sciistiche, ma un diverso modello turistico, incentrato su stazioni “leggere”, old style (piste non battute come biliardi ecc), certamente con meno frequentatori rispetto ad oggi e minor volume di business.
Ancora ai giorni nostri sono abbastanza numerosi gli esempi di questo approccio nelle Alpi, sia ad occidente che nelle Dolomiti.
D’altra parte l’alternativa è molto semplice: o si governa il ridimensionamento verso un modello più virtuoso, accettando minor attività economica dell’attuale, oppure si tira la corda finché dura e quando la corda si spezza, si spezzerà per tutti e buona notte ai suonatori.
Siamo d’accordo che il modello monoculturale dello sci sia anacronistico.
Siamo d’accordo che l’espansione delle stazioni sciistiche non sia opportuno ma TUTTI dovrebbero rendersene conto e mantenere semmai quello che già c’è, perché esiste una cosa chiamata concorrenza che fa si che le stazioni piùmoderne siano preferite a quelle con impianti lenti, solo per fare un esempio.
Se lo Stato finanzia le stazioni sciistiche è per tenere in vita tutto il sistema che queste ultime hanno generato nei decenni, ovvero un indotto che da lavoro a chi vive in quelle valli (anch’io sono uno di quelli ma non prendo gli impianti nè ho mire espansionistiche). Qui nelle Dolomiti l’industria dello sci tira come in nessun altro luogo al mondo. Le società degli impianti sono in attivo e l’indotto è imponente. Forse l’errore è quello di pensare che potrà crescere a dismisura.
Non metto lingua sul tema del cambiamento climatico perchè non sono un esperto ma vedo che la tecnologia dell’innevamento artificiale è così efficace che fino a pochi giorni fa si sciava dal Plan de Corones a Brunico fino alla quota di 850m.
Quando leggo quelle relazioni sul clima e lo sci sento dopo poche righe che chi le scrive ha solo in parte presente cosa sia la realtà e lascio perdere. Qui sul Gognablog ne sono apparse a decine.
Come giustamente dice Pinotti, l’ambientalismo comunica con un linguaggio che nuoce a lui stesso, anche quando difende principi giusti e reali.
Anche dalla maggior parte dei commenti apparsi qui si capisce, per chi vive iin montagna, che c’è un’ignoranza di fondo che vorrebbe sempre trovare le montagne come dei giardini immacolati e puri possibilmente disabitati. Non è così! Le montagne sono luoghi dove la gente vive e lavora esattamente come in ogni altro posto e semmai con più problemi logistici rispetto alle città.
La montagna-tabernacolo, come l’ho sentita chiamare da un amico di Sambuco in Valle Stura (CN) tanti anni fa, esiste solo nell’immaginario cittadino che la frequenta per le vacanze.
La salvaguardia della natura in montagna ha la stessa importanza dell’istituzione del verde pubblico in città, fatte le dovute proporzioni, e se la Val Susa chiudesse tutti gli impianti di risalita come Crovella auspica avvenga in tempi brevi, vorrei vedere cosa succederebbe a Torino, che è la città dove si riverserebbe la gente in cerca di lavoro.
Per capire cosa serve alla montagna e cosa invece la impoverisce, occorre viverci. Non basta andarci in vacanza.
E ve lo dice uno che in città c’è nato e che vive da 40 anni in montagna. Quindi conosco i due ambienti.
Almeno Pinotti l’ha fatto e l’ha provato sulla sua pelle, come recita il titolo dell’articolo equilibrato che poi ha scritto.
Distruggiamo il tabernacolo e poi parliamone.
Complimenti per esserti immerso nella realtà di chi vive e ama la montagna. E grazie per aver descritto in poche righe la realtà e fatti concreti.Il resto sono solo Bla Bla. Personalmente faccio la guida alpina dal 1981 e anche nella mia valle non vedo un futuro troppo roseo, non perché non nevica. Qui neve c’è n’è ancora, meno ma sempre neve. Non ci sono più le valanghe di 50/60 fa e la strada è sempre percorribile. Il problema è il lavoro per i giovani e i bambini (6/7) quando avranno la mia età vivranno da eremiti?
5. Matteo.
Ti ringrazio per i complimenti. Confermo che a 61 anni, l’esperienza è stata faticosa. Quello che non ho scritto, per motivi di spazio, è l’incredibile esperienza umana che ho vissuto con queste persone. Sarà sempre nel mio cuore e nella mia mente. Un altro tassello di arricchimento personale.
Per il resto che rimarchi, come diceva ogni tanto mia suocera a mia moglie: “tu vuoi abbracciare il mondo”. Io vorrei restare nell’ambito della montagna su questo blog, perché alcune cose che scrivi, in parte condivisibili, in parte no da parte mia, rivestono tematiche veramente molto complesse e forse, per un blog di montagna e ambiente montano, un po’ fuori tema.
Il punto sostanziale è quello che ho scritto. Ritengo che posizioni oltranziste o aggressive (alla Crovella per capirci) non portino alcun giovamento, soprattutto quando, per l’appunto, non si “tocca con mano”. Come ho scritto che il primo che non vede bene nuovi impianti o collegamenti invasivi come ipotizzati da altre parti sono io.
La differenza sostanziale è data dal modo di contrastare questo. Mi sono convinto che questo possa solo avvenire con il dialogo e con una “moral suasion” e non con arroccamenti. Ti cito come esempio l’ipotizzato collegamento nel vallone delle cime bianche. Io sono contrario, ma se leggo poi il polpettone pesante e indigeribile come il comunicato di Mountain Wilderness mi vien voglia di andare a posare la prima colata di cemento dei piloni. Ecco, questo è il linguaggio che NON dobbiamo usare.
Il cambiamento climatico è indiscutibile, così come l’aumento medio delle temperature nel breve periodo. Attenzione però che gli stessi climatologi non hanno opinioni condivise sugli effetti a medio periodo. Il rallentamento della corrente del golfo pone poi diversi interrogativi e diverse interpretazioni. Una parte consistenze degli scienziati ipotizza un ulteriore e brusco innalzamento delle temperature, un’altra parte ipotizza una progressiva tropicalizzazione del clima in Europa con fenomeni sempre più drastici, violenti e improvvisi nelle temperature con precipitazioni, sia di acqua che di neve che perderanno la stagionalità tipica.
Insomma, oltre a toccare con mano, bisogna anche andare un po’ a fondo leggendo qualche testo per capire come la climatologia non è ancora una scienza capace di fare previsioni a medio termine pienamente attendibili.
Personalmente, dopo essermi un po’ documentato, sono abbastanza dell’idea che assisteremo a fenomeni metereologici sempre più estremi che faranno saltare il banco delle stagioni come le conoscevamo.
Sui sussidi o trasferimenti che citi non sono d’accordo, sia da un punto di vista economico che sociale e lo dicono le cifre dei trasferimenti e dell’impatto economico sulle due vallate. Qui sarebbe necessario un altro articolo specifico al riguardo, ma il timore di scrivere un polpettone indigeribile è veramente alto….
P.s. In questo momento al Sestrière sono caduti 20 cm di neve. 😉 ma in montagna le nevicate tardive ci sono sempre state.
Da ex stagionale dico ;
Dio stramaledica i Fondi inglesi …
semi cit.
Buon 1° maggio a tutti.
Bell’articolo Payns e complimenti per la volontà e il coraggio di mettersi in gioco per capire alla tua tenera età!
Personalmente, quello che contesto, e duramente, e la pervicace volontà di continuare e ampliare il modello di “sviluppo”, evidentemente decotto e totalmente insostenibile, al di là di ogni ragionevolezza.
Questo è vero non solo e non tanto in montagna, ma in montagna, mi pare, è forse l’idiozia è più lampante.
Perché è indubitabile che nevichi sempre meno e che la copertura sia sempre più aleatoria e difficilmente prevedibile, quindi impianti e strutture nuove, a quote maggiori e potenziamenti di quelle vecchie, inevitabilmente non si ripagheranno mai, come non si ripagano ora.
Nel computo economico (se non vuole essere ideologico e di parte) occorre tenere conto dei sussidi, incentivi e trasferimenti statali o fondo agevolato o perduto. Penso che dei 100000 abitanti della val di Susa, solo una minima parte viva della via lattea e che se avessero avuto quei soldi direttamente, avrebbero preso di più!
Il problema è che il modello è sbagliato e insostenibile e va cambiato. Non è un problema solo montano, anzi coinvolge proprio tutti noi, in montagna e in pianura, e tutti gli aspetti della nostra vita.
E’ comprare auto da 150 Hp quando 50 avanzerebbero (ma non ne esistono), è non poter comprare un kg di cibo senza ricevere 1 hg di plastica (ma lo imballano così), è comprare cose, vestiti o oggetti nuovi perché costano meno che riparare (perché costruite apposta per durare poco e/o difficili da riparare).
E’ Amazon che ti consegna a casa delle stronzate che non usciresti mai di casa per avere e che hai visto sullo schermo di un I-phone, che potrebbe aprirti il mondo e che ti serve solo a guardare minorenni che sculettano e cinesi che schiacciano brufoli…ma adesso c’è il nuovo modello!
La deturpazione ambientale dei grandi comprensori è sotto gli occhi di tutti. Da anni, ormai. Se non si interviene, anche senza arrivare alla loro estinzione totale, ma riducendoli, saranno queste forme di turismo anni ’70-80 che distruggeranno la montagna. Nessuno è contro alle stazioni i sciistiche in quanto tali: proponiamo una loro evoluzione (che, poi, è un “ritorno”) verso modelli “leggeri”. Certo il concetto implica: poco afflusso, poco business, poco impatto. Se non ci si convince a questa inevitabilità, il modello attuale andrà avanti finché sbatterà contro un muro oggettivo: sarà l’irreversibile mancanza di neve naturale, sarà l’eccesso di rialzo delle temperature che non permetterà più di sparare neve artificiale, sarà il contesto sempre meno accattivante (per cui i turisti, che oggi affollano le piste, si dedicheranno ad altro)… sarà qualsiasi cosa, c’è solo l’imbarazzo della scelta, ma alla fine il castello crollerà miseramente. Lascerà tutti col sedere per terra, sia società con mega bilanci (attuali) sia singoli piccoli lavoratori (anche dell’indotto: bar. alberghi, maestri di sci). Anche nell’interesse di questi soggetti, è più intelligente “governare” l’evoluzione verso un ridimensionamento delle stazioni, mantenendo un minimo di business. Se non si fa nulla, il business collasserà, è solo questione di tempo. Non lo volete accettare? E non accettatelo, l’evoluzione dimostrerà che sbatterete contro un muro insuperabile.
Il fatto è che ai teorici della montagna sacra non importa nulla di tutto ciò.
Sono espressione di élite antidocratiche, antipopolari e maneggiano l’ambientalismo a loro scopo e interesse personalissimo.
Bel contributo all’abbattimento del tabernacolo-montagna!
Complimenti.
Non credo che sostituire l’economia che si basa sugli impianti sia inattuabile, visto che fra non molto la neve diverrà talmente esigua da non permetterne l’apertura. E a quel punto, forse, si capirà che non è un’economia sostenibile.
Per di più nell’articolo si scende nel dettaglio descrivendo come il personale coinvolto non sia appagato, né materialmente né spiritualmente.
Perché, allora, continuare ad alimentare questi sistemi fallimentari?