Riproponiamo, rivisto e ampliato dallo stesso autore, un articolo che solo quindici anni fa passò quasi inosservato, quando non osteggiato. Un articolo fondamentale, nel tema del quale è la madre di tutte le nostre battaglie odierne e venture (NdR).
Tofeelnottoknow (sentire, non sapere)
(dove sta la sicurezza?)
di Lorenzo Merlo (24 luglio 2017)
Lettura: spessore-weight*****, impegno-effort****, disimpegno-entertainment**
Poche righe per proporre una prospettiva stile uovo di Colombo.
Nessun consiglio.
Nessun esperto.
Nessuna verità definitiva.
Nessuna tecnica, né sapere, nessuna scoperta, né nuova idea.
Solo una precisazione: capire non basta.
Ri-creare è necessario.
Nota storica
Tofeelnottoknow ovvero dove sta la sicurezza? è stato un articolo dove per la prima volta puntualizzavo (AlpWall, aprile 2002, qui in pdf) come siamo indotti a concepire la sicurezza un fatto esterno a noi, acquisibile con saperi e tecniche, con materiali ed equipaggiamento. Ma anche dove, per la prima volta accennavo che la miglior sicurezza dipende dall’interno di noi stessi.
Quell’articolo è stato per me l’incipit di una ricerca che ne prese il nome, Tofeelnottoknow (tfntk). Ricerca che aveva l’intenzione di rispondere a una sola domanda. Esiste una conoscenza non cognitiva, un sapere non razionale, una intelligenza non analitica?
Quella domanda ha trovato conforto da più parti. Oltre agli inconsapevoli riscontri rintracciabili in molta letteratura di alpinismo e in altri settori della letteratura narrativa, anche la filosofia, la scienza, la psicologia, la pedagogia, la teologia, la tradizione nelle sue antiche e attuali considerazioni hanno fornito esaustivi argomenti per confermare che oltre a quanto possiamo misurare, c’è un universo incomprimibile nelle categorie che l’uomo materialista ha adottato. Quelle dentro le quali ha messo il mondo; oltre le quali si ritiene in diritto di screditare chi non ne condivide l’impiego.
Nietzsche, Friedrich, Divieni ciò che sei: «L’improvviso arricchimento materiale di un popolo nasconde gli stessi pericoli di un improvviso aumento delle conoscenze scientifiche. Si rischia di smarrire il sentiero che dal sapere porta alla vita, dalla conoscenza all’abilità pratica, dall’erudizione all’arte…».
L’articolo originario è stato più volte maneggiato, implementato e modificato. Da quel testo ne sono scaturiti diversi altri sostanzialmente simili. Ma, ciò che più conta, dall’ambito prettamente alpinistico nel quale era nato e al quale si limitava, è divenuto presto chiaro che le medesime dinamiche che esso considerava per la sicurezza in montagna, erano le medesime per tutti i contesti della vita. Le formule la realtà nella relazione o la cultura della relazione, tentano di sintetizzare l’intera ricerca. Affardellati di saperi, dimentichi della loro fallacia autoreferenziale, tendiamo a ripercorrere tracce note e quindi a segregare la dimensione creativa; a seguire modelli a noi estranei e a dimenticare la nostra misura; ad affermare invece che ascoltare, cioè a imporci piuttosto che a metterci in relazione.
“Ma come? ma chi fa tanto caso d’un miracolo? In quanto a me, non conosco nient’altro che miracoli (Walt Whitman, Foglie d’erba)”.
A scuola dal vecchio andersen (1)
«La seconda grande illusione sulla quale si fonda il sistema scolastico è che la maggior parte dell’apprendimento derivi dall’insegnamento (Ivan Illich, Descolarizzare la società)».
Quando andersen, il primo uomo che si mise due legni sotto i piedi per muoversi meglio nella neve, a un certo punto incontrò un pendio eccessivo, si cavò i legni e proseguì a piedi. L’idea d’aver rischiato di rompersi un femore non la conobbe mai.
Non aveva bisogno di conoscenze tecniche per adattare il suo comportamento allo scopo della sicurezza. Osservando il pendio non si era atteggiato a misurarne l’inclinazione, lo spessore del manto, non si era messo a misurarlo, ne aveva solo sentito l’eccesso. Quel sentire passa attraverso le orecchie della Relazione con l’ambiente e con il proprio sé. Una dimensione che non è nutrita da scienza, saperi, idee ed esperienza – tutti tenuti in considerazione come utili strumenti, non di più – perché è lei, la relazione, che li anima nel modo più opportuno all’uopo, più soddisfacentemente, più creativamente.
Nella modalità della relazione l’ascolto, l’empatia, sono liberi di cogliere le più sottili informazioni che ogni corpo e situazione emette. Una premessa necessaria per poter essere ciò che si fa. Uno stato di comunione nel quale il rischio di compiere sempre le scelte più opportune si eleva al massimo.
Il modo di comportamento del vecchio andersen non è qualcosa che possiamo imitare, né imparare o studiare. Possiamo, e forse dobbiamo, solo prendere coscienza che è già nostro patrimonio, per poi coltivarlo ad infinitum.
von Foerster, Heinz e von Glasersfeld, Ernst, Come ci si inventa: «… penso che la scuola debba aprire anche altre possibilità. Tutti i miei studenti avevano un’idea sbagliata della scienza. Si aspettavano che in collegio avrebbero imparato come va veramente il mondo. Era questa la loro preoccupazione principale. E ancora oggi è esattamente così».
Quel modo di comportarsi, non è neppure proponibile quale alternativa ai modelli più standard, quelli che prediligono ed eleggono il criterio fornito dalle tecniche, dalle regole, dai decaloghi, dai professori e dagli esperti, dall’analisi: e a dispetto di quanto creduto da molti, dall’esperienza, sommo campione dell’autoreferenzialità. A sua volta, gabbia della creatività, del qui e ora, del rispetto del diverso e dell’incompreso. Modi burocrati d’intendere la vita, inetti a vedere l’uomo oltre la norma, capaci di ucciderlo per rispettarla.
Il comportamento del vecchio andersen è un modo di fare che rischia di essere messo in atto ogni volta che avvertiamo di muoverci su un terreno che ci è fornito senza regole e tecniche per essere frequentato. È un tipo di terreno metaforico, che soddisfa tanto il contesto fisico quanto quello concettuale. È un tipo di terreno dove la nostra libertà espressiva non avverte ostacoli, cioè dove ci muoviamo nella sicurezza di una rotta, dove ci accorgiamo di muoverci adeguatamente alla nostra misura, dove vediamo lontano, dove siamo in grado di strutturare strategie senza paura perché idonei a crearne continui aggiornamenti, alzando così l’idoneità a gestire l‘imprevisto, a raggiungere il successo. Ma non necessariamente quello pubblico, della gloria, certamente quello privato, personale.
Scalare lo sappiamo già
«I sensi come modo di conoscere alternativo, che può bilanciare il conoscere analitico, razionale, categorizzante (Gherardo Amadei, Mindfulness-Essere consapevoli)».
Imparare a camminare è forse una delle cose più difficili nella vita di una persona. Come possiamo esserci riusciti TUTTI, da soli? Ogni tentativo che mettiamo in atto nelle fantastiche settimane di quel periodo pieno di noi. Ogni spinta genetica, esperienziale, emozionale, energetica fa sinergia. Ne risulta un fare personale, creativo, atto a realizzare lo scopo, capace di raccogliere i frammenti d’informazione che ogni tentativo produce. Uno stato in cui non sussiste lo sbaglio, né la frustrazione. Uno stato concentrato sul percorso non sul successo. Le piccole persone che eravamo non erano prevaricate dalla propria personalità e dalle proprie ambizioni. Erano solo in condizioni di muoversi attraverso la modalità della relazione, cioè accettando sé stessi e la realtà.
Watzlawick, Paul, La realtà inventata: «… la maggior parte degli scienziati si sentono ancora oggi “scopritori”, coloro che rivelano i segreti della natura e allargano lentamente ma con sicurezza il campo del sapere umano; e innumerevoli filosofi si dedicano al compito di assicurare a questa conoscenza faticosamente acquisita l’inconfutabilità che tutti si aspettano dalla verità “autentica”. Come nel passato, vige la concezione che la conoscenza è conoscenza soltanto se conosce il mondo come esso è».
Consumata l’infanzia (2) – periodo psicomotorio, nel quale non v’è differenza tra quanto esprimiamo e ciò che sentiamo – la dimensione razionale trova spazio per affermarsi in noi. Diveniamo un’identità separata, indipendente, capaci ora di dare significato alla parola io, finalmente perfetti modellini della cultura che ci ha educati. Prima si apparteneva alla realtà che vivevamo e su ciò che vivevamo esercitavamo pieno, inconsapevole dominio. Inseguivamo inconsapevoli progetti, pieni di determinazione (Nel suo Homo ludens, Huizinga ha ben argomentato quella dimensione). Ma è solo con la cultura, la nostra cultura, che quel filtro razionale prevaricherà radicalmente la condizione psicomotoria, fino a farcela dimenticare quando non denigrare, fino ad escluderla dal regno della conoscenza e della realizzazione individuale. Una cultura che non ci fa più sentire parte di un solo organismo. Ma era lei, la condizione psicomotoria, che ci assisteva per abbandonare i gattoni, ed è lei che ci fa saltare sulla sedia quando l’emozione non è trattenuta, quando segna la nostra squadra, quando il thriller ci prende, quando ridiamo di soddisfazione, quando siamo in relazione profonda con qualcosa o qualcuno, fino ad essere in grado di riconoscere e ricreare la sua natura e il suo stato del momento. È seguendo lei che troviamo noi; che sentiamo il respiro del tutto e dell’ambiente; che possiamo toccare come materia i confini del nostro io e la sostanza della nostra condizione. Andersen lo sapeva.
Se su quel terreno che non necessiterebbe di regole e saperi riteniamo invece sia necessario sapere tecniche, conoscere regole o avere equipaggiamento specifico, per ridurre i rischi d’inconvenienti e incolumità, stiamo abdicando all’intelligenza profonda, alle potenzialità creative; ci stiamo predisponendo a subire una spinta verso la mortificazione di noi stessi.
Tuttavia, è proprio emancipandosi dai dogmi che apriamo alla possibilità di inventare le modalità per frequentarlo con la migliore sicurezza. Naturalmente in funzione di quanto sappiamo e di quanto abbiamo. Senza alcun dubbio, con la dovuta motivazione, potremmo imparare a scalare, come abbiamo fatto per camminare, semplicemente rispettando la nostra misura. La materia più importante di tutte. Peccato che la nostra cultura abbia tralasciato di coltivarla.
Figli di un dio parziale
«… la scienza non ha rapporti con la verità, perché ciò che essa produce sono solo proposizioni esatte, cioè “ottenute da” (ex actu) le premesse che sono state anticipate, per cui accostare l’inconscio “scientificamente” non significa trovare la verità dell’inconscio, ma semplicemente quel risultato che il metodo ha prodotto (Umberto Galimberti, Gli equivoci dell’anima)».
Una rappresentazione della cultura che ci ha forgiato convinzioni e criteri, prospettive e concezioni è che per molti di noi, sentire e capire sono sinonimi. Molti di noi non sanno sentire, l’empatia è aliena e l’ascolto non ha significato se non è sonoro. Ritengono che il capire esaurisca le possibilità di conoscenza. Per molti di noi, concentrarsi significa pensare intensamente a qualche cosa. Lontana è la consapevolezza che concentrarsi vuol dire essere uno con quel qualcosa, non esserne separato.
Wittgenstein, Ludwig, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916: «Ogni possibile proposizione è formata legittimamente, e, se non ha un senso, è solo perché noi non abbiamo dato un significato ad alcune delle sue parti costitutive».
Spesso non siamo in grado di compiere scelte se non dopo valutazioni esclusivamente razionalistiche. È tipico il foglietto a due colonne, pro e contro. Pro e contro sarebbero apprezzati e utili se non fossero considerati l’unico criterio valido, il più scientifico. Spesso occultamente domina l’intelligenza, più raramente si mette a disposizione e si sottrae al monopolio della cosiddetta intelligenza.
Finché l’ambito è quello dell’amministrazione, nel quale i dati da considerare sono limitati, è necessario riconoscere la sua efficacia. Ma quando viene applicato anche in contesto relazionale, dove i dati si moltiplicano tanto da esondare dal regno dell’intelligenza razionale, la sua efficacia cala e in modo direttamente proporzionale si alza il rischio di tralasciare aspetti sostanziali.
Il foglietto con le due colonnine non è idoneo alla saggezza, cancella le percezioni sottili. Quanto sentiamo affoga nel viscoso mare delle paure. Impedisce di coniugare il sentimento alle intenzioni.
Anche il curving lo sappiamo già
«Tutti i concetti e le affermazioni sui quali non abbiamo riflettuto e che accettiamo come se significassero qualcosa per il semplice fatto che tutti li capiscono, sono paraocchi. Sostenere che la ragione caratterizza l’essere umano è un paraocchi, e lo è perché ci lascia ciechi di fronte all’emozione, che viene sminuita come qualcosa di animalesco o come qualcosa che nega il razionale. Vale a dire che, se ci dichiariamo esseri razionali, viviamo una cultura che sminuisce le emozioni, e non vediamo il reciproco e quotidiano legame tra ragione ed emozione che costituisce la nostra umana esistenza, e non ci rendiamo conto che ogni sistema razionale ha un fondamento emozionale (Humberto Maturana e Ximena Davila, Emozioni e linguaggio in educazione e politica)».
È capitato a tutti, sciando, di fare una curva cercando di eseguire le indicazioni di qualcuno? Perdendo perciò le indicazioni emesse dal corpo, tralasciando le sostanziali informazioni propricettive, lasciando alle fauci delle emozionali il via libera per divorarci? Restando in relazione con le idee analitiche (devo prendere lo spigolo), con quelle morali (devo riuscirci), con quelle narcise (ne va dell’autostima), quelle gerarchiche (vale solo una buona valutazione), immobilizziamo il libero flusso circuitario degli automatismi motori.
von Foerster, Heinz, Sistemi che osservano: «Lascia perdere le spiegazioni, e vedrai (dall’introduzione di Mauro Ceruti)».
In modalità razionale e in contesto eccessivo per le nostre capacità, il campo dell’intelligenza si stringe. Oltre a non vedere più noi stessi, viene a mancare anche l’osservazione del terreno e quindi lo spazio di consapevolezza non ha modo di verificarsi. Eppure, per sfruttare e apprendere anche dalle esecuzioni inefficaci, che qualcuno chiama errori, il regno dell’ascolto deve sostituire quello dell’orgoglio.
Tutto ciò ha valore anche in merito al concetto di metodo. Ogni metodo se accreditato al punto di potersi sostituire alla nostra creatività è solo addestrativo.
Senza metodo, ma con motivazione e terreno idoneo realizziamo nel minor tempo possibile la curva di progressione che il nostro gradiente di talento ci concede. Non rispettando uno o più di quegli elementi, la curva si allunga, l’autonomia è incompiuta, i rischi di scelte inidonee si alzano, la ricerca in noi delle cause delle nostre imperfezioni giace silente chissà dove dentro di noi, nascosta da qualche slogan del metodo.
Il metodo Munter per esempio, è funzionale alla sicurezza se, da strumento eletto, diviene uno fra gli strumenti e mezzi che si possono impiegare per stimare il contesto che ci apprestiamo a frequentare.
Diverso è considerarlo unico indicatore. Purtroppo è così che l’ho sentito citare spesso, anche da apprezzate guide alpine. Dicevano che la verità era là dentro; che le formule che contiene la dimostravano.
Il metodo Caruso è stato e in gran parte è ancora per molti l’unico modo per insegnare e/o apprendere l’arrampicata. Commissioni tecniche di Collegi di Guide l’hanno adottato tout court. Come per il Munter ho sentito dire che, se non segui il metodo, sbagli… così pure dagli aspiranti, se non lo sai… devi impararlo sennò ti bocciano. Nella formazione di molte guide alpine è stato oggetto di prova d’esame. Dovevano pedestremente ripetere gergo, prassi e gesti come studiato nel libro, ne andava/ne va (non saprei) di una cattiva valutazione.
Fa da contorno e sfondo una concezione meccanicistica dell’uomo. Questa comporta tra l’altro che tutte gli individui recepiscano, apprendano e reagiscano in modo uniforme; che ogni individuo si imbatte nella medesima realtà; che questa non ha nulla a che vedere con chi la descrive o interpreta.
Non basta.
Cambiando di poco il registro si trovano altre sconvenienti formule. Inopportune in quanto tendono a farci adottare modalità e modi spersonalizzati, in quanto alzano un muro tra ciò che sappiamo e la nostra capacità creativa.
Il pacchetto sicurezza, gode di una specie di nomination all’Oscar del disastro culturale. La formula è stata impiegata per anni dalle Guide alpine. Allude a pala, artva, sonda e ferula. Apparentemente era un nome come un altro, di fatto è un’espressione che sottintende ad una concezione della sicurezza limitata al suo momento tecnico. Infatti, chi non dispone del pacchetto o chi non ne condivide l’imprescindibile esigenza è un eretico, se non un incompetente.
Siamo tutti Michieli (3)
«Andare nella natura senza mappa e dover attendere in movimento che un segno ci orienti ridesta la sensibilità per quelle parti dell’esistenza che la ragione non raggiunge. Allora forse – usando noi stessi come strumenti, … dimensioni dimenticate ci torneranno familiari e preziose (Franco Michieli, La vocazione di perdersi) ».
Le formule pacchetto sicurezza nonché montagna in sicurezza, entrambe longeve espressioni delle Guide alpine – dirigenza e base – per molti in vita ancora oggi, sono campioni storici, utili per riconoscere un’idea di sicurezza raggiungibile, garantibile ed esauribile nei suoi aspetti tecnico-cognitivi. Un bel guaio. Per le pretese che genera, per l’assuefazione che implica, per la dipendenza che comporta, per l’educazione alpinistica che getta alle ortiche, per il boomerang d’immagine contro le Guide che, con vanto, lo hanno lanciato.
Vervoordt, Axel, Lo spirito wabi: «L’immaginazione è più importante del sapere. Perché il sapere è limitato a ciò che conosciamo e comprendiamo oggi, mentre la fantasia abbraccia tutto il mondo, e tutto ciò che sempre ci sarà da sapere e da capire».
Montagna in sicurezza è linguaggio che allude alla riduzione a zero del rischio. Anche se razionalmente nessun esperto sarebbe disponibile a sottoscriverlo, in chi si occupa d’altro, in chi non ha occasione di rifletterci, come nei messaggi subliminali, tende a fornire una concezione inopportuna tanto della montagna quanto della sicurezza.
Piccoli – o forse no – esempi, di una cultura figlia di genitori illuministi e positivisti, inconsapevolmente convinti che con la tecnologia tutti i problemi umani trovino la loro soluzione. Ingegneri che hanno esteso quanto appreso a scuola a tutti i contesti della vita. Allora, montagna e natura, figlie di una concezione statica e bidimensionale della realtà, diventano semplici oggetti sui quali poter applicare le nostre conoscenze. Tuttavia, al fine della migliore sicurezza, le montagne e la natura non dovrebbero essere altro da noi.
Quando un tuareg si avvia alla traversata insieme alla sua carovana, non porta con sé il manuale di deserto, di tempesta di sabbia, di sopravvivenza sahariana. La sua sicurezza risiede nella cultura entro la quale è cresciuto, nella quale si identifica. Una cultura coniugata, scaturita ed elaborata da una valorizzata relazione con l’ambiente. Sicurezza il cui cuore è quindi esogeno e tentacolare, affinché possa arraffare all’esterno il necessario per arricchirla.
Per medesime modalità un camoscio sente quando poter attraversare una colata ghiacciata e quando no; le testuggini sono in grado di percorrere migliaia di miglia marine per tornare a deporre le uova sulla spiagge dove erano sgusciate; i polinesiani, senza strumentazione alcuna, conoscevano il territorio dell’oceano Pacifico e ne avevano costruito mappe utilizzando rami e conchiglie. Camoscio e tuareg, testuggini e polinesiani alzano la loro sicurezza muovendo in ascolto, con psicologia esplorativa ovvero creativa, ogni volta, ogni passo. Lasciando all’esperienza lo spazio che è giusto riservarle, ma certamente senza lasciarle il monopolio delle scelte, soprattutto in circostanze che riteniamo simili: addio creatività.
Con le stesse modalità del tuareg, ogni giorno guidiamo la macchina e conduciamo la vita. Il fondo ghiacciato non ci sorprenderà se saremo stati in ascolto. Essere ciò che stiamo facendo eleva le possibilità di successo. Allora l’auto non sbanderà perché quell’ascolto è in grado di tenere conto della sua inerzia, dei battistrada, della nostra abilità.
Dunque, Tecnica, Conoscenza, Esperienza se l’atteggiamento è tarato sull’ascolto, divengono elementi pari agli altri, che produrranno il loro massimo potenziale d’aiuto. Diverso sarebbe se, un sentimento, un’emozione, una telefonata ci distraggono dalla concentrazione necessaria alla sicurezza.
Non è certo ripetendo pedestremente quanto dice il cartello stradale che realizziamo la miglior sicurezza. Come potremmo evitare la sbandata se non usassimo come riferimento il sentire in sostituzione del sapere fornitoci dal cartello? Sennò, perché le scarpate delle strade di montagna, protette da radi paracarri in pietra, non sono colme di carcasse d’auto?
Tsuda, Itsuo, Il dialogo del silenzio: «Assorbiti dal problema, non sentono più nulla di quello che succede in loro… È allora che essi cercano ogni genere di soluzioni all’esterno: consigli, rimedi, miracoli… Si incamminano così verso la disintegrazione dell’essere».
Ognuno di noi può condividere che al cospetto di un incrocio, oltre al verde del semaforo è opportuno dare un’occhiata in giro, ovvero avvalersi delle informazioni scaturite dalla relazione con la situazione piuttosto che quelle preconfezionate del semaforo.
Quando la sicurezza dell’incrocio passa dalla luce verde all’ambiente, cioè dalla tecnica alla relazione, potremmo attraversare con il rosso. Diversamente, lasciando la sicurezza in mano al dispositivo, il rischio d’imprevisto tende ad alzarsi: in quello stesso momento, un’auto distratta, in relazione con whatsapp, potrebbe attraversare con il rosso.
Con pari dinamica, sebbene con un numero moltiplicato di forse in campo, è quando procediamo a testa bassa, presi da un solo punto tra i molti, che il temporale è arrivato all’improvviso; che il buio ci ha sorpresi; che il vento è girato improvvisamente.
La relazione con sé, con il proprio stato intimo e con l’ambiente alimenta il massimo potenziale d’innalzamento della sicurezza, indipendentemente dalle conoscenze tecniche e dall’abilità motoria di cui disponiamo. Così, il naufrago sull’isola deserta, genera le migliori condizioni di sopravvivenza.
Attraverso questo modo, qualche sciatore si preoccupa di fermarsi a bordopista preferendola alle strettoie o alla zona d’ombra di un dosso; riparte dopo aver guardato a monte per prevenire incroci con traiettorie altrui.
Come il naufrago, certi sciatori e molte madri, innumerevoli volte hanno maneggiato pentole piene di rischiosa acqua bollente. Consapevoli che quel rischio era strettamente legato alla perizia del nostro modo, alla dedizione del nostro animo, alla serenità della nostra intimità, all’amore che mettiamo nel fare, sappiamo che una sola distrazione, nonostante la callosa esperienza, può bastare per realizzare il rischio latente. Anche per scolare la pasta, la perizia necessaria non si esaurisce nella sola dimensione tecnica.
Prima di noi
«La quantificazione sarà sempre un espediente per evitare la percezione della struttura. E l’atteggiamento clinico sarà sempre un mezzo per evitare quell’apertura mentale o percezione che metterebbe sotto i nostri occhi la totalità delle circostanze che fanno da contorno a ciò che c’interessa (Gregory Bateson, Una sacra unità)».
«… una prolungata partecipazione al gioco consumistico produce l’incapacità di cercare “soluzioni biografiche a contraddizioni sistemiche” in qualunque altro modo (Zygmunt Bauman, La società sotto assedio)».
«”Lascio inerte il corpo e bandisco l’intelletto. Abbandonando la forma e respingendo la conoscenza, faccio parte del gran Tutto. Questo intendo per sedere e dimenticare” , da Chuang-tzu (Fritjof Capra, Il tao della fisica».
Vercelli, Giuseppe, L’intelligenza agonistica: «… affinché l’interazione persona-ambiente possa essere efficace, l’individuo necessita di un preciso stato mentale che gli permetta di cogliere tutte le informazioni utili a tale scambio. Questo stato mentale è fortemente basato sul “sentire” piuttosto che sul “mentalizzare” l’ambiente». «In una situazione di perfetta sincronia, si perdono i confini, si diventa un tutt’uno in cui pensieri e azioni si confondono nel senso che si uniscono in una cosa sola, l’ambiente è in me e ne percepisco ogni minimo segnale; la racchetta è il mio braccio, il campo è la mia mente, le sensazioni sono sincronizzate con il mio “intorno”; si genera una sorta di “trance naturalistica” in cui il soggetto diventa l’azione che sta svolgendo».
Già Walter Bonatti (4) si era accorto che non era la pistola la fonte della sicurezza per muoversi in ambienti selvaggi. Già Reinhold Messner (5) aveva messo in risalto il significato del ripercorso storico come centro di forza e sicurezza. Già Alessandro Gogna (6) aveva assunto la ri-creazione, a perno della sua prospettiva. Fatto mai massificabile, sinonimo di autenticità, bellezza e creatività. Già Ivan Guerini (7) vide il Gioco su terreni tanto seri. Già Yvon Chouinard (8) aveva sentito che senza rispetto per il prossimo, per l’ambiente, la direzione è suicida. Già Reinhard Karl (9) si era accorto che «… la differenza tra uno sportivo e un alpinista non si può cancellare rincorrendo la competizione» e che «… la totale libertà di scelta rende l’alpinismo più uno stile di vita che non il solo sport». Già Giuliano Giongo (10) per allenarsi alla prima traversata in solitaria e in autonomia dello Hielo Continental, non scelse di percorrere fatiche superiori, ma di sdraiarsi sul letto di casa per immaginare le situazioni nelle quali avrebbe potuto trovarsi. Già Rory Stewart (11), un miscredente occidentale che è riuscito nel 2002 ad attraversare l’Afghanistan tribale e talebano, a piedi, da ovest a est, adottando come esclusivo mezzo di sicurezza la relazione con l’ambiente, le persone, gli animali, le usanze e le leggi non scritte che avrebbe incontrato.
Quindi il mitico turista giapponese – senza offesa per l’inconsapevole e incolpevole icona (mia e forse di altri) dell’inettitudine – che esce dal rifugio Torino in scarpe da tennis, non adotta di per sé un comportamento rischioso. Gli stessi esperti alpinisti potrebbero fare come lui. Entrambi tendono ad alzare il rischio solo se il loro comportamento non tiene conto degli elementi in campo. Ma l’oscillazione del rischio non varia neanche con ramponi e piccozza.
Ralston Saul, John, I bastardi di Voltaire: «Improvvisamente la ragione cominciò a staccarsi e ad allontanarsi da altre caratteristiche umane: dallo spirito, dal desiderio, dalla fede e dall’emotività, ma anche dall’intuizione, dalla volontà e, soprattutto, dall’esperienza. Questa avanzata graduale continua ancora tutt’oggi; e si è raggiunto un livello di squilibrio periferie marginali di dubbia rispettabilità».
Più sottilmente
«L’apprendimento dei contesti della vita è cosa che dev’essere discussa non come fatto interno, ma come una questione di relazione esterna tra due creature (Gregory Bateson, Mente e natura)».
Su un sentiero qualunque basta alzare lo sguardo un momento per inciampare. Se basta l’esempio della radice, dove sono pochi e fisici gli elementi in gioco, per rappresentare che la sicurezza è un fatto esogeno prima che endogeno, avvicinandosi ai piani più effimeri, volatili e metafisici della realtà, le cose non cambiano. Ai livelli sottili che non si fanno misurare, che non hanno un orientamento definitivo, che una volta passati possono ancora ripresentarsi, che dipendono anche da noi, dal nostro sentimento, pregiudizio, aspettativa, consapevolezza, che vivono in una polla volumetrica, ring di tutte le massime e minime forze cosmiche e storiche, che cangiano forma e carattere a seconda di chi è al loro cospetto e di quando è al loro cospetto, il perno è ancora la relazione. Ed è ancora attendibile che la sicurezza ha più a che vedere con l’essere ciò che stiamo facendo piuttosto che da tutto l’armamentario col quale possiamo addobbarci. Attraverso la relazione si possono cogliere informazioni che il rumore dei pensieri non ci lascia mai ascoltare.
Il modo della relazione, fertilizza l’habitat della creatività, la sola energia capace di re-inventare la soluzione appropriata, di scegliere tra tecniche specifiche (se se ne hanno) o di combinarle in modo inusuale, euristico, serendipityco.
Petit, Philippe, Credere nel vuoto: «Ora, di solito si scrive un trattato a ottant’anni, quando si è ormai dei maestri, quando si possiede la conoscenza. Io l’ho scritto a diciassette anni, quando non sapevo nulla di funambolismo. Sapevo di esserne appassionato, sapevo che mi piaceva e che, siccome non ero nato in un circo, avrei dovuto impararlo da solo e reinventarlo »… «Non distinguerei nettamente corpo e spirito. Nel corso della mia vita mi sono reso conto del fatto che ci creiamo ogni sorta di ragioni per non essere creativi, per non correre dei rischi».
Prede di un sortilegio
«Possiamo fidarci dei nostri esperti, dei nostri fisici, dei nostri filosofi, dei nostri educatori? Loro sanno forse di che cosa parlano oppure vogliono solo duplicare la loro squallida esistenza? (Paul K. Feyerabend, Addio alla ragione)».
Ci basta il capire intellettuale, del sentire non sappiamo che farcene, e non dobbiamo tenerne conto dei sentimenti che ci sciamano dentro oppure possiamo nasconderceli.
Razionalistico, materialistico, positivistico, sono prospettive dalle quali potremmo emanciparci, affinché le loro fuorvianti prospettive, se invasivamente applicate in ambito umano, non ci impediscano di accreditare e impiegare dimensioni non misurabili come le emozioni, i sentimenti, la serenità, le caratteristiche del nostro talento, l’armonia, la motivazione, le stagioni, il momento, la loro relazione, il loro equilibrio.
E’ per ordine razionalistico che riteniamo che la sicurezza sia del tutto relativa a ciò che sappiamo e a ciò che abbiamo. Per materialismo saperi e abilità, in molte circostanze, sono nominati quali uniche fonti necessarie alla sicurezza. E’ per ordine positivistico che solo la buona prestazione fa testo, solo in lei viviamo l’autostima da vantare. È un’arma positivistica che compie l’assassinio della rinuncia, eventualità deprecabile, ragione di frustrazione, stress per tutti coloro che si muovono per motti egoici e vanesi.
Una prevaricazione della dimensione razionale e una cultura intellettualistica, qual è la nostra, non favorisce il recupero di una identità corporea, del valore dell’ascolto, della relazione come principio delle cose.
In quest’epoca nelle espressioni della nostra cultura – giornalismo/media di comunicazione, scuola, istituzioni, legislazione, scienza, pubblicità – si trova l’induzione a pensare/credere che la sicurezza sia acquisibile, come fosse fuori da noi, che rinunciare a ogni possibile ultimo dispositivo sia deprecabile e inaccettabile. La cultura ha ridotto la sicurezza a mera merce, quindi raggiungibile, realizzabile, indipendentemente dalla nostra responsabile presenza.
Parrado, Nando, 72 giorni: «Vedendolo singhiozzare in silenzio nell’ombra, capii all’improvviso che in quel posto terribile una sicurezza eccessiva poteva ucciderci; il comune modo di pensare del mondo civile poteva costarci la vita».
É su questo piano che il Gps sembra indispensabile; che regolamentare la natura diviene conditio irrinunciabile a tutte le amministrazioni pubbliche. Giusto! A patto che si cerchi in sé, e non fuori da sé, il nodo della sicurezza. Sbagliato! Se avvicina inconsapevoli persone incapaci di essere senza identificarsi in qualche quantità, inconsapevoli sottoscrittori della carta carbone dove la loro vita è stata scritta da altro e da altri.
L’incantesimo infranto
«Con questa teoria e metodologia dell’”apprendimento intelligente” degli schemi motori… non si procede a spiegare e mostrare la tecnica… Dalla tecnica non si parte: la si scopre (Ivano Gamelli, Pedagogia del corpo)».
Quando Messner scalava la Seconda Torre del Sella con le scarpe da tennis (poi le ha passate al mitico giapponese), in molti, tutti (?) ridevamo. Lo deridevamo come si farà poi fuori dal rifugio Torino guardando il giapponese in scarpe da tennis. Cioè ritenevamo che quanto sapevamo già corrispondesse a tutto quanto ci sarebbe stato da sapere. Abbiamo preferito luoghi comuni circondati e protetti da cordoni di benpensanti, piuttosto che cogliere il profondo significato della sua ereticità. Se così avessimo fatto, avremmo iniziato a comprendere che la relazione con l’ambiente dà informazioni e contemporaneamente che l’autoreferenzialità resa dogma ci rende ciechi alla verità.
Le relativamente recenti e sempre più numerose rotonde, espediente per il traffico stradale, sono un’espressione che realizza sicurezza attraverso l’assunzione di responsabilità individuale di ogni automobilista.
A Drachten, Olanda, a Bohmte, Germania e in una zona di Londra, è stata tolta la segnaletica stradale. Un modo di fare, procedere e concepire che implicitamente critica il criterio assistenzialista e regolamentarista; che invece di imporre rigide norme con la pretesa di creare sicurezza e distribuire responsabilità, induce ogni automobilista ad assumersi la responsabilità della sicurezza.
Panikkar, Raimon, La porta stretta della conoscenza: «Né la ragione umana né la logica più pura possono offrirci una visione indiscutibile (definitiva) della realtà»… «Le scienze sono saperi specializzati, ma la conoscenza non è una specializzazione, non è scindibile, è una consapevolezza olistica».
Così si fa in molti luoghi, dove l’autorità non ha peso. Istanbul, Kabul, Bangkok vantano forse una quantità di sinistri con feriti considerevolmente minore di quanto non accada più a occidente, nonostante la totale mancanza di segnaletica efficace e del rispetto delle regole della strada.
Ma se il traffico stradale può sembrare argomento già noto, la prigione norvegese di Bastøy torna utile. Su là, i detenuti realizzano il loro stesso reinserimento sociale attraverso l’autonoma, individuale crescita della responsabilità piena del loro comportamento.
In Inghilterra a Leiston, dal 1921, c’è una scuola dove i ragazzi seguono e imparano senza obblighi, rispettando motivazione, sentimento e ritmo personale. Mirano alla realizzazione di persone più che palmares da vantare.
In Italia è esistito l’esempio di relazione con il prossimo offertoci dal dottor Franco Basaglia (12), poi diffusosi nel mondo della psichiatria.
Pochi esempi effettivamente che però danno all’uomo l’intera responsabilità della realtà.
In direzione opposta muove il regolamentarismo. Soluzione necessariamente presente per le caratteristiche culturali già dette e soprattutto per la moltiplicazione delle presenze. Tuttavia, questo è il punto, se diviene l’unica via, la prospettiva cambia. Se un’azione regolamentatrice non è affiancata da una azione culturale c’è da esserne contrari in quanto produce dipendenza, distribuisce responsabilità a priori. Affiancato invece da una permanente azione culturale destinata a creare emancipazione e indipendenza, autonomia e maturità, oltre a divenire più accettabile, nel contempo tenderebbe a svanire di necessità.
Diversamente dalle rotonde per il traffico, in altri contesti si osserva un risultato della filosofia inumana che, presi all’amo del progresso, siamo stati capaci di raggiungere.
Sebbene la tradizione dimostri da secoli quanto inconveniente fosse edificare alla base dei canaloni di montagna o sul margine dei corsi d’acqua, la fiducia e la fede, nella tecnologia delle bonifiche, hanno creduto sfruttabile anche quelle aree di sfogo di neve e acqua.
La messa delle messi
«… il sentimento, che è poi l’organo attraverso il quale si sente, prima ancora di sapere, cos’è bene e cos’è male (Umberto Galimberti, I vizi capitali e i nuovi vizi».
«Non ero in forma, anzi ero un po’ spaventato perché non ero salito bene. Non ero sicuro. Guardai in alto, c’era ancora un muretto e poi la grande placca più facile. Mi avvicinai al muretto, tentai con precauzione di salire ma non mi fidavo delle suole ed ebbi paura. Non era il momento di salire, non era il luogo. Ma non era neppure il momento di esserne dispiaciuti (Alessandro Gogna, La parete)».
Ragioni diverse, come il benessere economico, la facilità di trasporto, il culto del tempo libero, la capillarizzazione della comunicazione, la voracità di consumo delle immagini, il precipizio bio, il presunto diritto al tempo libero, lo sport come culto esteso all’ambiente naturale, la diffusione di una cultura assistenzialistica e relativa deresponsabilizzazione degli individui, l’edonismo come valore e la conseguente facile polarizzazione dell’aspetto ludico, a discapito di quello formativo-educativo di questi ultimi decenni, la mercificazione dell’alpinismo, hanno convogliato in montagna una messe di persone ignare di cosa implichi il muoversi in natura, convinte che avere un equipaggiamento tecnico e un bagaglio motorio fossero sostanzialmente i soli aspetti da soddisfare; lontane dal portare sul campo anche loro stesse, cioè il loro sentimento, lontane da saperlo e volerlo impiegare per fare e compiere scelte, a volte perfino ignare di quale sia il loro sentimento.
Kelkel, Lothar e Schérer, René, Husserl: «Si deve smettere, una buona volta, di lasciarsi accecare dalle idee e dai metodi ideali e regolativi delle scienze “esatte”, e in particolare nella filosofia e nella logica, come se il loro in sé fosse realmente norma assoluta, tanto per quanto riguarda l’essere oggettuale come per quanto riguarda la verità».
Chi ha voluto quella spinta al bieco consumo di natura e valori, ora dovrebbe assumersi l’onere karmico di rivedere le proprie posizioni e adoperarsi affinché altro, oltre al dislivello/ora, neve fresca/gridolini e vanità varie, entrino in scena a fare presente che una montagna non è il campo sportivo di niente, che non ci sono regole da rispettare per garantirsi alcunché, che se qualcosa va storto la responsabilità è solo da considerare nostra.
Pare eccessivo precisarlo, ma per molti è un’informazione. La neve non è come il tartan, è un essere cangiante a ogni momento e passo, esposizione, quota, periodo dell’anno, della giornata, latitudine e stagione. E se alpinisti e scialpinisti lo sanno, il resto della messe che la frequenta, ne è spesso ignaro. L’auto-iniziazione necessaria per re-interpretare la montagna, se stessi, ciò che si fa e come lo si fa non ha dunque bisogno di affermare abilità sportive ma piuttosto di ascolto. Una materia poco presente anche nei programmi didattici degli esperti, professionisti e non. Questi non dovrebbero portare su la corda, piuttosto cercare il terreno idoneo ai loro discenti.
La logica della sicurezza-nella-relazione non vuole essere alternativa a quella della sicurezza-nella-conoscenza. Vuole solo puntualizzare che quando parliamo di sicurezza, esperti inclusi, frequentemente utilizziamo un linguaggio che non contiene o valorizza la dimensione relazionale della sicurezza.
Considerazioni pratiche
«… Spero che i nostri giovani continuino a cercare la verità: la verità che la natura regala a tutti quelli che, con sincerità, vi aspirano. Molti uomini colti comprendono assai poco dell’opera del Grande Spirito e dei suoi miracoli, eppure questa conoscenza è posseduta da tanti uomini che non sono andati a scuola. Io non ho frequentato le vostre scuole superiori. Ho frequentato la migliore università che ci sia, quella che è ovunque là fuori, la natura (Tatanga Mani, in Delia Guasco, Una storia degli Indiani del Nord America) ».
Se il Ministero della Pubblica Istruzione così come una sola maestra di paese volessero operare per diffondere la cultura della relazione, a che risultato dovremmo aspirare? Ad uno e semplice. Se ad un gruppo di studenti venisse chiesto in cosa consiste la sicurezza, e questi, oltre agli aspetti tecnico-analitici, dovessero anche segnalare che molto dipende dall’atteggiamento e dal modo che adottiamo, avremmo raggiunto un aggiornamento culturale.
Jung, Carl Gustav, Psicologia e alchimia: «Per questa ragione lo psicoterapeuta dirige la sua attenzione non al “cosa”, bensì al “come” dell’azione, perché in esso è compresa tutta l’essenza della persona che agisce».
Se nei programmi ministeriali, analiticamente concepiti e positivisticamente implementati, fosse magicamente introdotto il tempo per far esperire ai bimbi cosa sia l’empatia, in un solo momento otterremmo persone capaci di riconoscere i propri e gli altrui sentimenti, soprattutto capaci di riconoscere che i propri non hanno maggior dignità degli altrui, capaci di relazioni oggi considerate improduttive, capaci di rivoluzionare tutto.
Che morale dunque? Parlare di sicurezza nei termini della relazione finora esposti è maggiormente efficace che limitarsi a citare il noto rispetto per la montagna. Una formula che nonostante possa rappresentare quanto finora detto, è esaustiva soltanto per coloro che la pronunciano. Per coloro verso i quali è pronunciata, non funziona, l’esperienza non è trasmissibile. È necessario un percorso personale e questo sta nell’ascolto, nella relazione. Un cammino che sempre più facilmente ed evidentemente ci permetterà di riconoscere quanto la miglior sicurezza sia in mano nostra. Accedere a se stessi prima che alle tecniche, permette di riconoscere la sede del problema, permette di riconoscere quale percorso di avvicinamento più si addice alla nostra crescita, quali preconcetti stiamo impiegando, di aggiornare il linguaggio, di scoprire energie e potenzialità inattese, di svezzarsi dalle dipendenze, senza più cercare di ricordare cosa ha detto di fare l’istruttore in questi casi?.
Eventualmente non uscendo, nessuno più dal rifugio Torino scivolerà in un crepaccio.
Che fare dunque? A causa della cultura maschilista che ci ha nati e cresciuti, recuperare l’eterno femminino, non è cosa alla mano, ma è la via. La ricerca del sentire è una condizione di profonda fertilità per tutte le attività umane, un’intelligenza disponibile a tutti.
Essere attraverso il sentire, riconoscere che si era sempre stati, attraverso finte identità di noi stessi, preda di emozioni e inconsapevoli di quanto i sentimenti non mollassero il timone delle nostre scelte.
Horkheimer, Max, Eclisse della ragione: «Nelle discussioni profane come in quelle scientifiche, la ragione ha finito per essere comunemente considerata come una facoltà intellettuale di coordinazione la cui efficienza può essere aumentata con l’uso metodico e con la rimozione di tutti i fattori non intellettuali, come le emozioni consce o inconsce».
Riconoscere e rispettare i sentimenti e il corpo è un modo di conoscenza di noi e del prossimo, ma anche antidoto alla cultura intellettualistica e moralistica, non per contrastarla, ma per integrarla. In pedagogia si chiama maturità o autonomia.
Quale senso critico può scaturire da colui incapace di eleggere a valore il proprio sentimento e la propria sensazione se non ha la possibilità culturale per farlo, se non ha l’educazione per sentirlo, il diritto e la forza per esprimerlo?
Infine
«Il senso di interdipendenza era assoluto, il legame metafisico tra di noi due e con la montagna costituiva una potente miscela sinergica (Mark Twight, Confessioni di un serial climber)».
Non si è trattato di precisare che in montagna o altrove la sicurezza totale non è realizzabile, è lapalissiano a tutti. Si è provato a precisare che per alzarla è necessario essere in relazione con ciò che si sta facendo, con il dove lo si sta facendo, con il chi lo si sta facendo, con la condizione intima con la quale lo stiamo facendo. La relazione con altro dal nostro fare comporta una riduzione di successo. Per questo dedicarsi al telefono guidando alza il rischio d’accidente. Si tratta di far presente che la relazione col nostro fare alza il rischio di armonia, dunque della propria appartenenza alla natura, al cosmo, a tutto. Disturbi di pensieri, sentimenti, pretese, fatti esterni richiedono attenzione e bruciano armonia. Si tratta di non limitare le proprie potenzialità a quelle confinate entro quanto si crede e si sa, entro l’io. Si tratta di sentire altro da quanto i sensi ordinariamente permettano, perché l’armonia implica essere disintossicati dalle idee, dai sentimenti, implica essere emancipati nei confronti delle emozioni, di essere in ascolto con dimensioni altrimenti impedite dalla corazza di quanto crediamo di essere.
Note
(1) Secondo tradizione e luoghi comuni, nell’immaginario collettivo di molti di noi i primi uomini ad usare gli sci furono i nordici, cioè della penisola scandinava. Andersen è un modo per alludere a un ipotetico primo sciatore. È scritto minuscolo perché si riferisce a un tempo più che a una persona.
(2) Secondo i ricercatori, tra i 6 e i 10 anni. Prima per le femmine, poi per i maschi.
(3) Franco Michieli ha compiuto attraversate e percorsi lunghi migliaia di chilometri, in territori a lui sconosciuti, senza strumenti di navigazione, né analogici, né digitali.
(4) Bonatti è qui citato per le sue affermazioni relative ai viaggi da lui realizzati in terre e territori totalmente naturali, non solo montani.
(5) Messner non ha mai tralasciato l’opportunità di dare alla storia parte della forza che ci spinge avanti. Non solo, la sua precisazione è ulteriormente consistente. Ritiene che la nostra biografia acquisisce una dimensione piena – meno vulnerabile – proprio quando nel nostro individuale fare ripercorriamo a nostra misura il percorso compiuto dalla storia.
(6) Fu tra i primi a prendere coscienza della forza e dell’ineluttabilità del cambiamento generazionale che proveniva dal free climbing, che coniugava interessi alpinistici slegati dal mito della prestazione e dell’ideale, ma legato a quello individuale ed ecologico della ri-creazione. Fu uno dei consacratori e valorizzatori delle prospettive che si affacciavano allora all’orizzonte (Nuovo Mattino), sottolineandone i principi e l’energia. Un fatto non da poco se si considera l’estraneità di quei principi dal tradizionale e patriarcale modello dell’alpinismo classico nel quale era cresciuto.
(7) Per molti, una delle figure emblematiche del Nuovo Mattino, movimento alpinistico-culturale che raccoglieva esigenze di cambiamento sociale e guizzi ecologici dei movimenti giovanili, dalla beat generation, al ‘68, al clean climbing.
(8) Alpinista, surfer, pescatore alla mosca, fabbro e imprenditore. In tutte le sue attività ha avuto modo di muoversi secondo un modello che rifiutava del tutto la meccanizzazione dei processi e delle relazioni. Nonostante si muovesse controcorrente, anche il successo imprenditoriale ha dato ragione alla sua fede.
(9) Riuscì a pronunciare e definire dimensioni umane che una tradizionale prospettiva storica voleva come contraddittorie. La sua voce poco ortodossa è stata raccolta anche da chi ancora non aveva messo a fuoco che le nostre diverse espressioni sono solo aspetti di noi stessi che gli altri ci mostrano.
(10) Il suo libro Tekenica, ormai introvabile, racconta i 70 giorni da solo, nel mare di Capo Horn, con una canoa, sopravvivendo soltanto con ciò che sarebbe riuscito a procurarsi in navigazione. Anche alpinista, anche esploratore, ma soprattutto consapevole delle dimensioni umane che il consumismo, l’opulenza e il fideismo tecnologico hanno mortificato. La sua azione è l’urlo colmo d’arte, di bellezza, di libertà che quasi nessuno ha avuto orecchio per amare, raccoglierne la forza e il progetto.
(11) La sua traversata, per immaginazione, determinazione e arte, vale la prima all’Everest senza ossigeno. Purtroppo soltanto chi ha idea delle dinamiche delle culture etniche, religiose, tribali e di clan dell’Afghanistan, può misurare la dimensione dell’impresa compiuta dal giovane diplomatico inglese. Il valore escursionistico-sportivo è notevole, ma resta l’ultimo tra quelli implicati nel suo trekking afghano.
(12) 1924-1980. Psichiatra italiano noto al mondo accademico e sociale per essersi adoperato affinché venisse riconosciuta al malato mentale tutta la dignità dovuta ad ogni essere umano. La sua battaglia si concretizzò nonostante l’arretrato contesto nel quale dovette muoversi. Una legge nazionale, la 180, sanciva definitivamente l’apporto medico e culturale della sua visione, riuscendo nell’intento di eliminare i manicomi-carcere.
Qui potete consultare il documento originale di Lorenzo Merlo, comprensivo della Bibliografia, Videografia e ulteriori significative Citazioni.
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Che fatica…
Lo dico e lo ripeto. Meglio le novene ed il rosario. Dal punto di vista sia culturale che estetico.
Bello.
Grazie.
Se hai occasione segnalami qui: ascent@victoryproject.net
Grazie Lorenzo Merlo, per la sensibilità e per gli spunti.
Un giorno (chissà quando…) mi piacerebbe discutere di fronte a un buon vino delle citazioni a supporto delle tue argomentazioni. Spesso mi paiono molto deboli; ce ne sarebbero di molto più forti e attuali, che potrebbero portarti numerosi insight (anche e soprattutto a livello emotivo). Ma il fulcro del discorso rimane comunque affascinante…
Supersintesi.
Tutto sbagliato!
Solo il nodo a otto è quello giusto per legarsi !
Qui da noi (in Italia) almeno questa è una verità assoluta che non richiede intelligenza, cultura, sensibilità, attenzione e toglie ogni responsabilità a chiunque.
Sentire prima di sapere.
Grazie Lorenzo.