Il 12 giugno 2021 se ne è andato Antonio Tom Balmamion. Più vecchio di me di un paio di anni (1937), ci siamo conosciuti a metà degli anni ’60. Allora lavorava con il padre in una azienda artigianale famigliare a San Maurizio Canavese. Era stato però contagiato da una irresistibile passione per i monti che in seguito lo portò ad intraprendere la vita del professionista della montagna. Iniziammo a scalare qualche volta assieme ed io lo portai alla Sottosezione GEAT del CAI Torino e lo convinsi ad entrare come istruttore nella Scuola di Alpinismo Giusto Gervasutti. Per la sua rilevante attività alpinistica fu accolto nel Club Alpino Accademico ma in seguitò divenne Guida Alpina quando decise di vivere di montagna. In questa veste condusse per le montagne del mondo molti “clienti” infiammando sempre il suo gruppo di infinito entusiasmo. Gestì per molti anni il rifugio Città di Ciriè al Pian della Mussa nella Valle di Ala delle Valli di Lanzo. Sua è la prima invernale, con Giuseppe Castelli ed Ennio Cristiano, della celebre via Cavalieri-Mellano-Perego al Becco di Valsoera.
Nel corso del suo periodo di scalatore dilettante abbiamo compiuto insieme alcune belle scalate tra le quali la via Tissi alla Torre Trieste e lo spigolo Vinci al Pizzo Céngalo. Sfogliando le antiche riviste ho trovato il racconto della prima volta di Antonio nelle Dolomiti. Avevo pubblicato il racconto di quella salita sul Bollettino GEAT n° 5 settembre-ottobre 1967. Voglio riproporre il “vecchio” racconto come ultimo saluto a Tom Balmamion (Ugo Manera).
Una Grande Course in Dolomiti
di Ugo Manera
(pubblicato su Bollettino GEAT n. 5, set-ott 1967)
Molti alpinisti “occidentali” sono convinti che le Dolomiti siano montagne piccole se confrontate alle grandi montagne dell’Ovest. E’ una tradizione nostrana antica che viene confermata quando qualcheduno di noi, intraprendente, si reca a visitare, ed a fare qualche salitella, nelle stranote e comode Torri del Vajolet o Torri del Sella. Quando ritorna ai patri “ciaplè” dichiara che sì le Dolomiti sono belle ma che in fondo sono dei “paracarri” verticali alla base dei quali si arriva senza fatica e dove pare che tutti i “cannibali” del mondo si diano convegno per fare da platea sotto le strapiombanti pareti o per fare ressa negli affollati rifugi.
Le Dolomiti invece non sono affatto piccole, hanno pareti immense, degli spigoli altissimi e delle valli selvagge e grandiose. Tutto ciò insomma che caratterizza le grandi montagne. Questo mondo però è riservato a chi ha voglia di allontanarsi dai luoghi arcinoti e comodi e dalle celebri vie di 200 metri che si salgono partendo alle 10 del mattino dal rifugio e dove spesso è necessario mettersi in coda dato il gran numero di salitori.
Per sfatare il luogo comune di: “Dolomiti montagne piccole”, basta leggere i dislivelli delle pareti. Da noi non si trovano spesso pareti di roccia che arrivino o superino i 1000 metri di dislivello, quelle che arrivano a 600 metri sono già notevoli. Nelle Dolomiti le pareti di 1000 metri sono numerose e quelle di 6 o 700 metri di ordinaria amministrazione. Naturalmente i più sono pigri e si rivolgono alle pareti di 150-200 metri belle e difficili tipo Cinque Torri.
Debbo confessare che anch’io guardavo alle Dolomiti con una certa superiorità e disdegnavo di scomodarmi per andare a conoscerle da vicino. Poi, per varie circostanze, in alternativa ai progetti originali, mi trovai una volta nel gruppo delle Dolomiti del Brenta, diretto al Campanile Basso. Al cospetto delle pareti delle Cime di Campiglio, della Tosa e del Crozzon di Brenta, mi sentii io molto piccolo, non le montagne che mi circondavano. Che differenza c’era tra quelle pareti verticali e tante nostre montagne piuttosto crollanti che avevo salito.
Io rimango comunque un “occidentalista”, innamorato più delle montagne ove ho iniziato, dei grandi ghiacciai, delle bianche pareti e dei complessi itinerari di “misto” che delle verticali pareti dolomitiche. Sono convinto però che dovremmo andare, almeno una volta ogni stagione, a scalare su quelle pareti così belle e diverse dalle “nostre” montagne.
Voglio descrivere una specie di Grande Course che ho avuto occasione di effettuare nelle Pale di San Martino: la traversata completa della Cresta di Val di Roda.
La Val di Roda inizia nelle pinete sopra San Martino di Castrozza, attraverso una strozzatura tra pareti grigie passa dal verde scuro delle pinete al verde chiaro punteggiato di fiori dei prati di alta quota. Piega verso sud e il fondo rimane nevoso fino a stagione inoltrata poi si unisce all’alta Valle Pradidali attraverso il passo di Ball. Sulla destra orografica si ergono, dai pochi detriti, le verticali pareti della Cima Immink, della Pala di San Martino e della Cima Roda. Gialle e grigie offrono un quadro irregolare ma bello ed invitante per gli scalatori.
La sponda sinistra orografica della valle è formata dalla lunga Cresta di Val di Roda che scende dalla Cima di Roda fino a morire nelle pinete che fanno cerchia su San Martino. E’ formata da sette cime, tra Torri e Campanili, divisi da profondi intagli sui quali precipitano con pareti e spigoli verticali. Il versante est della lunga cresta cade sulla Val di Roda con pareti irregolari cosparse di ardite torri; il versante ovest precipita su San Martino con una lunga parete uniforme, variamente colorata di grigio, giallo, rossastro. E’ la parete che più impressiona chi, da San Martino, fa scorrere lo sguardo dal Cimon della Pala alla Cima della Madonna.
La traversata delle Creste di Val di Roda si compie nel senso da nord a sud, ossia dalla Pala di S. Bartolomeo alla Cima di Val di Roda salendo le pareti nord delle sette punte, con un dislivello complessivo di arrampicata di un migliaio di metri; sono necessarie alcune “doppie” per scendere agli intagli. Le difficoltà stanno tra il IV ed il V con l’ultimo tratto facile per raggiungere la Cima Val di Roda. Nel lungo percorso si incontra ogni tipo di arrampicata, sempre su roccia ottima.
Mercoledì 10 agosto, alle prime luci del giorno scendiamo a passo svelto dal rifugio Rosetta diretti alle Creste di Val di Roda. Siamo in due, il mio compagno è Antonio Balmamion, un classico alpinista di stampo occidentale, amante delle pareti ghiacciate e dei grandi itinerari di misto, convinto dal sottoscritto a visitare per la prima volta le Dolomiti; le pareti verticali che ci circondano lo impressionano un po’.
Finita la discesa proseguiamo lungo il pianeggiante sentiero che va al Passo di Ball con lo sguardo rivolto alla nostra cresta che appare imponente. Lasciamo poi il sentiero, attraversiamo i nevai che ancora persistono e tagliamo ripidi pendii erbosi per raggiungere l’inizio della cresta.
Decidiamo di evitare la Pala di S. Bartolomeo di scarso interesse e ci dirigiamo all’attacco del Corno Smith. Per il ripido canale di rocce ci portiamo al colletto tra la Pala e il Corno Smith. La via per salire il Corno inizia con una repulsiva parete grigia: il mio compagno, non abituato alla verticalità della roccia, lascia volentieri che cominci io. Inizio salendo verso sinistra ma presto mi fermo a cercare un passaggio lungo la grigia parete che strapiomba sopra di me; pianto un chiodo, attraverso un po’ a destra e trovo un vecchio chiodo che mi dà la certezza di essere sulla giusta via. Proseguo lungo una fessura faticosa fino a quando un altro chiodo mi consente di fermarmi ad osservare quello che mi sovrasta. Continuo per il tratto strapiombante della fessura e raggiungo un ampio terrazzo al termine della corda da 40 metri. L’inizio è stato più difficile di quanto ci aspettavamo. Un diedro coricato molto “occidentale” convince Antonio a continuare da primo e con una lunghezza raggiunge la vetta del Corno.
Senza difficoltà scendiamo alla forcella con la Torre Bettega. Lo spigolo che porta sulla sua vetta è bello ed esposto, ne salgo i primi 40 metri, Antonio mi raggiunge poi riparte in testa. Dopo pochi metri però si ferma, mi dice che non si trova a suo agio su quella roccia e preferisce che continui io da primo. Riprendo a salire e con arrampicata entusiasmante raggiungiamo la vetta della Torre. Un baratro di cui non si indovina il fondo ci separa dalla Torre Adele che, vista da dove ci troviamo ci appare poco praticabile. Scendiamo un tratto in arrampicata poi una aerea corda doppia ci deposita alla forcella tra le due torri. Superiamo uno spallone facile poi la via ci appare evidente; Antonio, che comincia a prendere confidenza con la dolomia, parte in testa e si ferma al termine della corda. Lo raggiungo e riparto lungo bellissime fessure di roccia compatta fino ad una nicchia ove inizia un lungo camino il cui primo tratto rappresenta il passaggio più difficile di tutta la cresta. Affronto io lo stretto e scivoloso camino ove sono costretto a fare opposizione anche con le ginocchia. Trovo un vecchio chiodo arrugginito e sempre strisciando supero il difficile passaggio. Il camino diviene meno difficile e molto bello, saliamo alternandoci al comando, un piede su una parete del camino e uno sull’altra; liberi da preoccupazioni diamo rumoroso sfogo alla nostra allegria. Fino ad ora abbiamo scalato all’ombra ma sulla cima siamo finalmente raggiunti dai raggi del sole.
Il Campanile di Castrozza che segue è molto più alto delle torri finora salite. Scendiamo con circospezione all’invisibile colletto e poi continuo salendo verso sinistra per la verticale parete senza capire bene dove passa la via. Raggiungo un terrazzino al termine della corda. Il mio compagno, finalmente rodato, parte in testa e supera un bellissimo tiro assolutamente verticale. Il suo entusiasmo è alle stelle, ad ogni sosta si compiace di essere venuto nelle Dolomiti. E’ la prima volta che arrampico con Antonio e lo sento già come grande amico anche se ci conosciamo da poco tempo. L’arrampicata sulla parete nord del Campanile di Castrozza è stupenda, a differenza che sulla Torre Adele qui si scala su parete aperta, esposta e di roccia ottima.
Dalla vetta dove sostiamo un po’, scorgiamo i nostri amici sul fondo della Val di Roda di ritorno dal Campanile Pradidali. Attiriamo la loro attenzione gridando a squarciagola; essi procedono per il sentiero della Rosetta mentre noi scendiamo al colletto del Campanile Val di Roda. Il luogo ove ci troviamo è molto bello: a sinistra torri contorte contendono la nostra attenzione con la rossa parete della Pala di San Martino; a destra, direttamente sotto di noi, ma separato dall’alta parete ovest della Cresta di Val di Roda, spicca tra le pinete San Martino di Castrozza.
La discesa dal Campanile è laboriosa, ci aiutiamo con due corde doppie. Sulla successiva parete nord del Campanile Val di Roda le difficoltà si mantengono ancora sostenute; una serie di diedri umidi lungo i quali troviamo vecchi chiodi, ci porta in alto sulla parete. Arrampichiamo da molte ore ma la bellezza della scalata cancella la stanchezza che si sta accumulando: quando tocchiamo la vetta del Campanile il sole è già molto basso sull’orizzonte e le pareti delle Pale si stanno arrossando con i colori del tramonto. Senza sostare iniziamo la lunga e non semplice discesa, una corda doppia ci depone direttamente alla forcella.
Le difficoltà sono ormai finite, slegati saliamo la facile ma divertente parete nord della Cima Val di Roda e, al tramonto, dopo 10 ore di arrampicata, ha termine la nostra lunga corsa. La discesa non ha più storia, per tracce di sentiero e facili rocce raggiungiamo il fondo della Val di Roda ed il sentiero che ci porta al Rosetta. Mentre camminiamo lo sguardo ripercorre la lunga cresta: le torri ed i campanili che abbiamo scalato e che, nel buio della notte, si stagliano spettrali nel cielo stellato.
A passi stanchi saliamo verso il rifugio Rosetta che raggiungiamo a notte fonda. Gli amici ci accolgono festosamente e nell’allegria generale “scaliamo” ancora varie bottiglie di vino.
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Sembra non abbia mai considerato le pareti nord dell’Agner..valle Angheraz…Invece san Martino di Castrozza e’ piu’famosa…come la traversata dei campanili.Un amico mi racconto’di averla fatta tutta , compreso poi lo spigolo del Velo discesa camino Winkler e normale al sass Maor.Poi stop, ridiscese disarrampicando quest’ultima. medesima.
Ho conosciuto Antonio non come alpinista ma come viaggiatore. Partecipò con la moglie ad un viaggio di Avventure in Tailandia e Birmania nell’autunno 198o, di cui ero coordinatore, che comprendeva un trekking non proprio facile e sicuro di più giorni nel cosiddetto triangolo dell’oppio. Ho un gran ricordo di lui, della sua apertura a esperienze di ogni tipo, sempre positivo e pieno di energie. Avevo promesso di andarlo a trovare nel loro rifugio ma la mia vita turbolenta di quei tempi purtroppo non me lo ha permesso. Così ci siamo persi ed ora non mi rimane che rifugiarmi in un bel ricordo di tempi felici.