Tomasz Mackiewicz dialoga davanti al fuoco

Tomasz Mackiewicz dialoga davanti al fuoco
di Davide Bubani

Lettura: spessore-weight(2), impegno-effort(2), disimpegno-entertainment(2)

Ha combattuto per liberarsi dalla paura, e così lottando, così solo, è diventato libero. La solitudine crescente e l’impazienza di coloro che non riuscivano a capire sono state la sua vera tragedia. Il suo desiderio è finito nel baratro, ma è proprio il suo fallimento che ha superato qualunque successo ottenuto dagli altri.

Capigliatura da leone, colore dei capelli e barba chiara come quella del pelo della criniera del re della savana, occhi azzurri, pelle piena di rughe, secca, mani dure, da lavoro, da comunità di recupero, mani arroganti ma che sanno tenere delicatamente un neonato. Fin dalla notte dei tempi chi si spinse ai confini dell’India arrivando ad appoggiare lo sguardo nella catena montuosa più alta del pianeta Terra, il tetto del mondo, non ha visto solo un muro invalicabile, ma bensì rampe di lancio per decollare.

Tomasz Mackiewicz

Tomasz Mackiewicz è l’alpinista antieroe, destinato a essere criticato ed escluso, ma perché tutti non hanno saputo pazientare e leggere il colore dei suoi capelli. Non è da sponsor, non è gradevole, non è comodo, non è diplomatico, ma è vivo. Rifiuta il compromesso e sceglie il latte cagliato delle capre pakistane come cibo, aiuta i bambini a giocare lungo un sentiero di montagna non curandosi delle ore di avvicinamento al campo base. Un pazzo.

E’ il 2016 e siamo al suo sesto tentativo di salire la vetta del Nanga Parbat in inverno. Tomasz si trova solo a riscaldarsi davanti a un fuoco acceso in un piccolo e freddo ricovero in sassi fatto dagli abitanti della valle del Diamir. Accende la sua telecamera portatile e scrive in diretta a parole i suoi pensieri. Dopo una notte piena di riflessioni e profondi pensieri, gli sono venute in mente alcune conclusioni. Dopo queste, decide di rinunciare alla salita verso la vetta. Si rende conto di essere all’interno di un grande circo di himalaysmo. Tenta in qualche modo di uscirne. Gli attriti burocratici con gli altri membri delle spedizioni e probabilmente il carattere di Tomasz portano l’alpinista polacco a ritirarsi dal suo sesto tentativo. Lui stesso afferma: ”questa montagna è molto strana, qualcosa vive dentro di lei che cambia l’anima delle persone. Vedo anch’io che le persone cambiano, sono sottoposte ad alterazioni, io stesso mi sono trovato in diverse alterazioni psichiche.
Parlando di himalaysmo, non voglio avere nulla a che fare con gli himalaysti. Le persone che frequentano le alte quote, tutte hanno problemi mentali. Ho pensato che in alto qualcosa succede con il cervello, qualche alterazione fisica irreversibile che agisce negativamente per noi. Io nelle mie salite in montagna punto allo sviluppo interiore; osservo, analizzo, sviluppo e curo il mio stato d’animo. Non si può distruggere.
Un’altra cosa volevo dire, ieri il tempo sulla Nanga è stato bello, solare, oggi la montagna è coperta dalle nuvole e soffia un forte vento, allora oggi scendo giù”.

 

https://youtu.be/fv113Gxxkk0

 

Questo è Tomasz, un uomo con una personalità sicuramente non facile, ma con una profondità di animo e di riflessione notevole, capace di andare in antitesi con i compromessi all’istante.

Tomasz nei sette anni in cui si è avvicinato alla montagna più grande del pianeta, il Nanga Parbat, è riuscito a trovare la spina dorsale di questa montagna e a succhiarne il midollo, facendo quello che tutti non hanno mai fatto, ovvero vivere il tempo del Nanga, un tempo che non è misurabile come grandezza fisica. Siamo in grado di immaginare quanto possa essere grande la massa volumetrica del Nanga Parbat quando dentro in essa ci sta quaranta volte il volume del Monte Bianco? No, non siamo in grado e non possiamo quindi avere la certezza che le dimensioni fisiche all’interno di questa montagna rispecchiano gli standard fisici cui l’uomo è abituato nel quotidiano. Ed ecco che l’antieroe per trovare la soluzione all’equazione esce dagli schemi logici. Parte a scalare il Nanga dalla valle vivendola, scegliendo di confondersi con il popolo attorno, calandosi e diventando lui stesso abitante del Nanga Parbat e della valle del Diamir. Quando il processo è stato completato il Nanga Parbat ha riconosciuto l’alpinista e gli ha aperto la strada fino alla vetta. Il dazio da pagare è stato immane, ma è diventato libero. Non si può tornare a casa dal Nanga se si è assimilato il segreto della montagna. Non leggete questo come un racconto mistico, bensì provate a pensare al primo alpinista che riuscirà ad avvinarsi al luogo dove giace il corpo dei Tomasz, lassù sotto il trapezio terminale della vetta del Nanga Parbat. Che cosa troverà? La presenza del segreto di Tomasz e del Nanga. Quando Tomasz arrivò in vetta al Nanga Parbat, dopo 11 giorni di assedio in quota assieme alla sua compagna di scalata Élisabeth Revol, lungo una via mai completata quindi nuova, Tomasz era con la sua famiglia e grazie al tempo del Nanga è riuscito a spiegare tutto a casa, alla sua moglie ai suoi figli, e a far capire che lui è un eroe, non per aver scalato il Nanga Parbat, ma per essere stato in grado di vivere in pieno ogni giorno della sua vita prima della vetta del Nanga Parbat. Ecco che poi è decollato per poter essere in grado di fare ancora tanto altro… e ci sta riuscendo. Gloria e memoria apparteranno per sempre a coloro che seguiranno la propria grande vision

Élisabeth Revol e Tomasz Mackiewicz

Tomasz Mackiewicz (da Wikipedia, l’enciclopedia libera).
Tomasz Tomek Mackiewicz, soprannominato Czapkins (Działoszyn, Polonia , 13 Gennaio 1975 – Nanga Parbat, probabilmente 28 gennaio 2018), è stato un alpinista polacco. È stato il primo scalatore, assieme all’alpinista francese Élisabeth Revol, a completare la via Messner-Eisendle sul Nanga Parbat 8126 m (26 660 ft), nota anche come la “Montagna Assassina”, in Pakistan. Tale primato gli è costato la vita poiché non è riuscito a rientrare al campo base. Ha compiuto questa impressionante impresa in pieno inverno ed in puro stile alpino, quando nemmeno lo stesso Reinhold Messner e successivi scalatori sono riusciti a completarla durante la stagione estiva.

Tomek Mackiewicz si è sposato due volte. Da ciascun matrimonio sono nati due figli. Dopo un passato piuttosto tormentato, con vissuti e problemi connessi al consumo di sostanze psicotropo-stupefacenti, trascorre un periodo in India e si appassiona per la montagna e l’alpinismo. Nel 2008, Tomasz vinse il premio Colossi per aver realizzato assieme a Mark Klonowskim l’attraversata integrale del Mount Logan. Nel 2009 giunse in vetta al Khan Tengri 7010 m (23000 ft) in solitaria. Tentò varie volte (sette in totale) di conquistare il Nanga Parbat in inverno. Dopo diversi tentativi infruttuosi ha raggiunto finalmente la vetta il 25 gennaio 2018 assieme alla compagna di cordata Élisabeth Revol. I due alpinisti si sono aggiudicati così la prima salita invernale (la seconda in assoluto su questa montagna) lungo una nuova via, quella indicata da Reinhold Messner e Hanspeter Eisendle, ma mai portata a termine da nessuno, nemmeno in estate. Tale impressionante impresa alpinistica è stata realizzata con uno stile minimale e leggero, trattandosi della prima volta che un Ottomila è stato conquistato in tale maniera in inverno. È inoltre la seconda volta in assoluto che è stata aperta una nuova via su un Ottomila durante la stagione fredda, dopo la storica prima ascensione invernale del Cho Oyu nel 1985. Durante la discesa, però, Tomasz ha mostrato presto evidenti segni di spossatezza accompagnata da cecità da neve, che lo hanno costretto a fermarsi poco al di sotto della vetta, ove, a tutt’oggi, risulta disperso. Una squadra di soccorso, chiamata dal campo base del K2 al Nanga Parbat, è riuscita a portare in salvo Élisabeth Revol, la quale, ormai sfinita, è riuscita a scendere fino all’altitudine di 6026 m (19770 ft), mentre le pessime condizioni meteorologiche hanno impedito ai soccorritori di raggiungere anche la posizione di Mackiewicz.

E’ nel 2008 che gli austriaci Markus Gschwendt e Clara Kulich raggiungono quota 7760 m (quindi ancora sotto la vetta dell’Anticima della Cima Nord), punto più alto della via (1) iniziata nel 2000 da Reinhold Messner e Hanspeter Eisendle, che non oltrepassarono quota 7500 m. L’itinerario della via Kinshofer è numerato (2): in alto, a sinistra la via originale, a destra l’itinerario seguito da tutti i ripetitori. (3) indica lo Sperone Mummery. NI=Cima Nord 7815 m; NII=Anticima della Cima Nord 7785 m. Foto: Markus Gschwendt/Google Earth, 2017.

Nanga Parbat: così è morto Tomasz Mackiewicz
(da globalist, 1 febbraio 2018)

Dalla sua stanza dell’ospedale di Sallanches, in Alta Savoia, Élisabeth Revol racconta, per la prima volta, la storia del tentativo di conquistare il suo nono trofeo, tra le vette più alte al modo, che si è concluso con un dramma. Una salita da cui la scalatrice francese è tornata salva, mentre il suo compagno, Tomasz Mackiewicz, non ha potuto essere salvato.
A Sallanches, dove viene curata per gravi congelamenti ad entrambe le mani ed al piede sinistro, la scalatrice trentasettenne narra la sua ascesa senza ossigeno o sherpa al Nanga Parbat (8126 m), in Pakistan.

“Era il mio quarto tentativo invernale, il settimo per Tomasz”, ha detto. Hanno cercato l’impresa sfidando il Nanga Parbat, chiamata il killer, senza apprensione, bem consapevoli dei rischi.
Partita dalla Francia, il 15 dicembre 2017, Élisabeth Revol ha cominciato la scalata con Tomasz Mackiewicz, “in comunione con la montagna”.
Poi, quando raggiungono il loro obiettivo, il dramma.

Élisabeth Revol in ospedale

“Tomasz mi dice ‘non vedo niente”’. Lo scalatore polacco non aveva usato la maschera per un piccolo problema e la sera aveva i segni di una forte infiammazione all’occhio. Da lì alla decisione di intraprendere la lunghissima discesa sono passati solo pochi istanti.
Ma, col passare delle ore, Mackiewicz perde le forze e i segni del congelamento sono sempre più evidenti. Allo spuntare della luce dl giorno, la situazione è drammatica: “Il sangue scorreva costantemente dalla sua bocca – racconta Élisabeth Revol – segno di edema, fatale se chi ne è affetto non è evacuato il prima possibile”.
“Ho avvisato tutti – spiega – perché Tomasz non ce la faceva a scendere da solo”. I messaggi che vengono scambiati per organizzare i soccorsi non sempre sono chiari. Anzi, alcuni causano incomprensioni. “Mi è stato detto: se scendi a 6000 m, puoi recuperare e si può recuperare Tomasz a 7200 metri con un elicottero. E’ stato fatto così. Non è una decisione che ho scelto, ma mi è stata imposta”.

Quindi lascia in parete il suo compagno e riprende la discesa.
La situazione non ha spaventato Élisabeth Revol per sé, ma per il suo compagno di cordata, che stava sempre più male e che, consapevole delle sue condizioni, la spinge a tornare al campo da sola.
L’altitudine provoca a Élisabeth un’allucinazione, una cosa che non le era mai accaduta: immagina che delle persone li raggiugono per portare del tè caldo.
Il racconto di Élisabeth è semplicemente incredibile, ricostruendo quel che lei pensava le stesse accadendo: “Una signora mi ha chiesto: ‘Posso prendere la tua scarpa?’ In quel momento, meccanicamente, mi alzo, tolgo la scarpa e gliela do. Al mattino, quando mi sono svegliata, al piede avevo solo il calzettone”.
Si rende conto che il suo compagno non è in condizione di muoversi e che anzi le fa capire che la sua discesa solitaria è la sola soluzione possibile. Discesa che prosegue per cinque ore, con il piede sinistro congelato, lungo la via Kinshofer. Quando arriva il giorno, conta sempre sui soccorsi. A 6800 m, Élisabeth decide di non muoversi, di “conservare se stessa, immagazzinare calore”. Sente il rumore del motore di un elicottero, ma “ma era già troppo tardi, il vento stava salendo”.
Quando apprende che l’elicottero sarà in grado di venire il giorno dopo e che dovrà trascorrere una terza notte fuori, decide di scendere. “Stava iniziando a essere una questione di sopravvivenza”, ha detto la scalatrice, che non aveva ricevuto il messaggio che le comunicava che due alpinisti polacchi la stavano raggiungendo. Quindi una discesa prudente, ”calma”, nonostante “i guanti bagnati”, il “freddo pungente” che congela le dita e il “dolore”. Verso le 3.30 del mattino, raggiunge il campo 2, a 6300 metri. Poi l’incontro con i suoi soccorritori – Adam Bielecki e Denis Urubko (da lei definito ‘la sua leggenda degli 8.000’) – che lei sapeva essere impegnati nella scalata del K2. Domenica era a Islamabad, martedì già in Francia.
E ora: pochi progetti. Il primo certamente è di recuperare il più possibile, sperando di evitare delle amputazioni. Poi andrà a vedere i bambini di Tomasz.
Tornerà in montagna? Élisabeth (che nella vita privata è insegnante a Drôme) dice serena ”ho bisogno di questo. È così bello”.

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Tomasz Mackiewicz dialoga davanti al fuoco ultima modifica: 2018-04-21T05:05:23+02:00 da GognaBlog

14 pensieri su “Tomasz Mackiewicz dialoga davanti al fuoco”

  1. Ci vuole anche un pizzico di follia anche nell’attraversamento di una strada sulle strisce pedonali poiché si può anche mettere a repentaglio la propria vita.

  2. un pizzico di follia ci vuole in tutte le azioni forti della vita in cui si può anche mettere a repentaglio la propria vita. Se l’uomo non avesse rischiato sulla sua pelle, per vedere cosa c’è oltre le colonne d’Ercole, sicuramente  saremo sempre alle caverne. La follia fine a se stessa porta senza dubbio alla tragedia. Ma se alla base c’è una preparazione: fisica, mentale, tecnica e di studio e di consapevolezza di quello che si va a fare e a rischiare, non si può parlare di – insanità di mente – come ha giudicato GALLY .

    Ad esempio non credo che Messner, nella sua attività alpinistica  si sia dimostrato un  insano di mente giocando alla roulette russa. Anzi ! E’ stato una persona , un alpinista decisamente razionale. Che si è messo in gioco ma che ha saputo anche rinunciare.

    Quindi fare dei commenti così lapidari  a 360 gradi , è del tutto fuori luogo. Magari possono valere per qualcuno in particolare ma non possono essere generalizzati.

    Non credo che un’alpinista come Denis Urubko sia una persona fuori di mente. Se così fosse avrebbe durato poco e  dal suo recente tentativo solitario al K2 non sarebbe tornato.

  3. “catalogazione  scambiata per la realta” e’ sintomo di assenza ( o rifiuto ) di un processo cognitivo . Semmai si cerca di interpretare la realta’. Le superstizioni nascono quando si e’ convinti di avere trovato una chiave interpretativa universale, e la si applica dispensando insegnamenti a destra e a manca.

  4. La catalogazione scambiata per realtà genera mondi artificiosi o superstizioni.

  5. E’ realistico pensare che alcune delle imprese che oltrepassano i limiti correnti  sia condotte da menti non del tutto lucide.  Piu’ e’ alto il rischio e piu’ l’ approccio basato sulla pianificazione razionale tendera’ ad abbassare il livello del traguardo.  Per tenere saldo l’obiettivo e’ probabilmente necessario trascendere ed entrare in una logica particolare, per la quale alla eventualita’ di un soccorso non viene dedicata un analisi appropriata. A maggior ragione sugli aspetti della responsabilita’.

    Ovviamente non sempre si ricade in questa ‘modalita’. Per me vale per le solitarie a certi livelli ( nell’arrampicata sportiva, di Alex Honnold e della sua ‘particolarita’ mentale si e’ detto molto ), ma probabilmente anche per alcune imprese alpinisitiche, himalayane o alpine. Credo che Gally non abbia tutti i torti a catalogare questa salita invernale del Nanga  in questo tipo di ‘imprese trascendenti’. Ad ogni modo, il confine tra ‘lucida follia’ e ‘delirio di onnipotenza’ alle volte si rivela sfumato… Giudicare non mi pare per nulla scontato.

     

  6. “Dico e ribadisco che l’alpinismo invernale sugli ottomila non é cosa per sani di mente. Revol per quanto ho capito non é sana di mente. Se si ha intenzione di suicidarsi, non bisogna coinvolgere gli altri nelle proprie decisioni.”

    Secondo questo tuo ragionamento, per altro decisamente poco rispettoso, sopratutto nei confronti di chi è rimasto sul Nanga Parbat per inseguire un suo sogno, (drogato a no , ha diritto di essere rispettato, lui e i suoi parenti) tutto l’alpinismo in genere non è da sani di mente. Visto che si rischia la vita dato che l’alpinismo è un’attività pericolosa sempre e comunque (quanto inutile).

    C’è poi chi decide di alzare l’asticella, vedi l’alpinismo solitario e magari anche invernale. Sono fatti e scelte  personali.

    Nessuno ha obbligato i polacchi a tentare il salvataggio. E’ stata una libera scelta consapevole dei rischi.

  7. Proprio perché so e conosco che dico questo. Di Tomasz é stato detto che ha passato un periodo della sua esistenza ad assumere droghe. Di Revol ricordo l’intervista mandata in onda in Francia, dove alla luce dei suoi congelamenti alle mani e ai piedi diceva di ritornare presto in attività. Allora si dovrebbe dichiarare prima di partire: non mettete a repentaglio la vostra vita per portarmi soccorso. Dico e ribadisco che l’alpinismo invernale sugli ottomila non é cosa per sani di mente. Revol per quanto ho capito non é sana di mente. Se si ha intenzione di suicidarsi, non bisogna coinvolgere gli altri nelle proprie decisioni.

    Troppo spesso si parte sapendo che in caso di bisogno ci sarà un soccorso.

  8. “Credo che l’alpinismo invernale sugli ottomila metri non  sia cosa per sani di mente.”

    Giudizio lapidario di chi si mette sul trono a sentenziare quello che fanno gli altri, di cui non sa nulla.

    “Comunque, siamo liberi di fare cio’ che vogliamo della nostra esistenza,”

    Perchè lo vuoi decidere te, quello che devo fare della mia di  vita?

     

  9. A me di recente han detto che sono uno snob del cai, perché privilegio l’alpinismo. Dato che finchè riuscirò scalerò penso che il cai farà a meno del mio pagamento del bollino. Così non sarò più di suo nocumento.

  10. Credo che l’alpinismo invernale sugli ottomila metri non  sia cosa per sani di mente.

    Ho sentito l’intervista di Revol in ospedale, non mi sembra del tutto normale.

    Comunque, siamo liberi di fare cio’ che vogliamo della nostra esistenza, l’importante che le nostre azioni non siano di nocumento agli altri.

    G. LUIGI

     

  11. Provo a spiegare ciò che “sento”.

    Per me si era convinto di poter salire il Nanga, però si era illuso perchè il suo fisico non poteva farcela, ma ha raggiunto la vetta, la sua illusione era talmente forte che è arrivato sulla cima! Per me di sicuro era molto felice! Talvolta l’uomo cerca di superare se stesso, ma è solo una illusione e bisogna perseguirla con grandissima convinzione. Forse questa è la felicità, tutto il resto scompare nel nulla.

  12. Non so se ci si illude delle proprie convinzioni, o ci si convince delle proprie illusioni. In entrambi i casi si seguono le vie dei fallimenti. Ma si è sempre molto felici!

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