Tracce di storia dello sci
di Ledo Stefanini
(pubblicato su Le Alpi Venete, Autunno-inverno 2023-2024)
La diffusione dello sci come pratica esclusivamente ludica ebbe inizio negli anni che seguirono la Grande Guerra, pur avendo radici negli ultimi anni del secolo precedente. Tuttavia, per secoli l’uso di queste due protesi meccaniche, strumento di sopravvivenza nei Paesi nordici, rimase affatto ignoto in gran parte d’Europa. Il primo a parlarne fu Olof Mansson, arcivescovo di Uppsala, in un saggio sugli abitanti della Scricfinnia, l’attuale Norvegia, pubblicato nel 1565 (1).
L’opera ebbe un ruolo decisivo per la conoscenza dei costumi dei popoli settentrionali, tanto che nel 1590 Cesare Vecellio, fratello di Tiziano, rappresentò gli sci, anche se in maniera fantasiosa, in alcune stampe di grande successo (2).
L’uomo che per primo ne diede una descrizione precisa e ne diffuse il nome, fu il sacerdote ravennate Francesco Negri che, fra il 1663 a il 1666 compì un avventuroso viaggio che lo portò fino a Capo Nord e di cui diede una minuziosa relazione uscita postuma nel 1700 (3).
Per la verità, era stata preceduta da un resoconto dello svedese Johannes Schefferus che descriveva forma e uso di strane protesi di legno che consentono di muoversi velocemente sulla neve. Tali strumenti venivano chiamati Skider dai popoli nordici, contratto in Skier; ma che venivano anche indicati come Andrer oppure Ondrur (4).
Scopo di questa breve storia delle origini dello sci è mostrare come il contatto tra due culture radicalmente diverse come quella dei Paesi nordici e quelli dell’Europa continentale portasse a fraintendimenti e creazioni di fantasie motivate dallo sforzo di comprendere l’uso di strumenti (quali erano gli sci) progettati per muoversi in ambienti difficili principalmente per scopo venatorio, e affatto nuovi per i primi viaggiatori che avevano avuto l’audacia di spingersi a latitudini tanto alte.
I tempi di Francesco Negri
Il 14 dicembre 1664 nei cieli d’Europa comparve una grande cometa che mise in allarme i filosofi e li sollecitò a interrogarsi sulla sua natura. Gli astronomi ne studiarono con cura la traiettoria, la cui rappresentazione più accurata si trova in una carta celeste di Hevelius (5).
Del fatto che fosse ben visibile anche nei cieli norvegesi venne data testimonianza da un prete italiano che in pieno inverno nordico si trovava in quei luoghi inospitali: Francesco Negri da Ravenna, dov’era nato nel 1623.
Su Negri ebbe una forte influenza la lettura del ricordato saggio di geografia dedicato al Nord Europa Historia de gentibus septentrionalibus di Olof Mansson, che lo indusse a intraprendere un lungo viaggio verso il Circolo Polare. Raggiunta Danzica nel giugno del 1663, Negri proseguì per Stoccolma e Tornio da dove arrivò fino alla miniera di Svappavaara, in Lapponia. Avrebbe proseguito in direzione di Capo Nord se le difficoltà frapposte dal clima e l’inadeguatezza dell’equipaggiamento non l’avessero persuaso a ritornare a Stoccolma. In città di fermò per un anno rivestendo la carica di cappellano presso il console francese.
Ritornato a Copenaghen, il fortuito incontro con l’anatomista danese Thomas Bartholin che «con un discorso di meno di un quarto d’hora, lo fece risolvere di ritornar indietro per un viaggio di due mila miglia, e d’altrettante per ritornar di nuovo in Copenaghen» (6).
Francesco Negri si può ritenere il primo turista dell’Europa del Sud ad aver raggiunto Capo Nord. Il 3 ottobre 1665 si imbarcò a Helsingør e il 20 arrivò a Bergen. Dopo una breve sosta a Østraat, proseguì il viaggio dapprima per mare, lungo le coste della Norvegia, poi via terra attraverso la regione di Finnmark, per raggiungere finalmente Capo Nord. Dopo il ritorno a Copenaghen, fu ricevuto da Re Federico III di Danimarca e nel 1666 era di nuovo a Ravenna. Il viaggio si rivelò l’evento decisivo della sua vita anche dal punto di vista religioso, in quanto, avendo conosciuto la morigeratezza dei costumi della chiesa protestante, cercò di trasferirla in quella cattolica.
Nei tre anni che dedicò alla visita della Svezia, Negri si spinse anche nelle regioni più inospitali del Nord, toccando perfino le ultime terre europee abitate, oltre il settantaduesimo parallelo, nel Nord della Norvegia, nella terra del popolo Sami (detto Lappone), e con rispetto, da etnologo, ne studiò i costumi.
Il Viaggio settentrionale uscì a Padova nel 1700 a cura degli eredi, illustrato con tavole incise da Carlo Antonio Buffagnotti, insieme con le Annotazioni sopra l’opera di Olao Magno e la Relazione delle qualità dell’autore di Giovanni Francesco Vistoli. L’opera è costituita da otto lettere dirette a diversi destinatari. Le note su Olao Magno erano giustificate dal fatto che questi era l’indiscussa autorità cinquecentesca in materia di Paesi Nordici. Nell’appendice con Annotazioni sopra l’opera di Olao Magno, Negri presenta una serie di esempi per mostrare come i fatti riferiti da Magnus non siano veritieri, ma spesso dovuti al gusto per il favoloso tipico dei resoconti di viaggio del tempo.
Quella che interessa lo sci è la prima lettera, che consiste in un’accurata descrizione del territorio e dei costumi degli abitanti, limitatamente a un aspetto che qualcuno potrà considerare di secondaria importanza ma che è, invece, una testimonianza della capacità di adattamento dell’uomo alle condizioni ambientali: forma e uso degli sci come strumento di sopravvivenza in territori fortemente innevati per gran parte dell’anno. Negri è tra i primi a descriverne la forma e la tecnica di utilizzo e, soprattutto, a portarne il nome in Italia:
«Il mezzo che tengono per rendersi veloci al corso, sarebbe opportuno per fare uno straniero inetto a mover un passo; che così intravvenne a me la prima volta, benché non qui, ma altrove. Hanno due tavolette sottili, che non eccedono in larghezza il piede, ma lunghe otto o nove palmi, con la punta alquanto rilevata per non intaccar nella neve. Nel mezzo di esse sono alcune funicelle, con le quali se le assettano bene una ad un piede e l’altra a l’altro, tenendo poi un bastone alla mano, conficcato in una rotella di legno all’estremità, perché non fóri la neve; ovvero anche senza tal bastone camminano sopra la neve, in tempo che non è agghiacciata, né atta a sostentar un uomo. Non averebbero però a temere, senza di questi instromenti, di sprofondarsi sotto l’alta neve e rimaner ivi sepolti, perché è intravvenuto a me, che avendola in simil caso penetrata con ambedue le gambe in un intervallo tra due gran sassi, che non si poteva conoscere, ci restai come a cavallo.
Ben è vero che io stentai a districarmene, perché alzando il piede e cacciandolo dentro la neve per farmene gradino ed uscire, non si sosteneva, ma la neve cedeva ed io ritornava come prima. Mi bisognò pertanto andar col piede a poco a poco premendo quel gradino, e così di nuovo replicai, facendoli cascar sopra altra neve ed assodandogliela sopra col piede, fintante che lo trovai atto a sostentarmi; e così feci con l’altro piede con la medesima flemma. Uscii da quell’intrico, e ritornai dentro la capanna ivi vicina, dalla quale era uscito per poco d’ora, perché non andava mai solo viaggiando; né altrimenti si può fare, per esser il paese senza strade.
Per camminar dunque con gli skie, che così chiamano gli Svezzesi quelle tavolette, non le sollevano mai dalla neve alzando il piede, ma leggermente strisciando vanno avanzando con l’istessa agilità, che camminando liberi a piedi sopra terra; e non fanno nella neve maggior impressione, che la grossezza di un dito. E perché per tal causa alle salite de’ monti non si avanzerebbero mai un sol passo, perché gli skie tanto ritornano indietro per causa del peso dell’uomo, quanto esso gli aveva spinto di sopra, però li foderano tutti di sotto di pelle di rangifero, in modo che il pelo riguarda all’indietro; e così alle salite venendo compresso si caccia nella neve, e rabbuffandosi trattiene gli skie, che non possono sdrucciolar giù; poi giunti alla sommità, e volendo calar dall’altra parte, lo istesso pelo, per esser posto come dissi, non fa opposizione alcuna, anzi facilita il cammino. Ma perché non si può andare adagio, perché gli skie dopo di aver cominciato a calcare non si fermano mai, però bisogna al punto della calata accommodarsi sodo, come statua, sopra di essi, e in un sol tratto scorrere tutto il monte sino alla pianura; nella quale giunti pur si seguita per qualche poco a scorrere per cagione dell’impulso, con che si è disceso, il qual moto non è tanto precipitoso, quanto si crederebbe senza provarlo, perché i più erti monti non si praticano in tal forma.
Sul principio, quando io apprendeva il pericolo, cascava; poi dall’esercizio ammaestrato, e preso coraggio, mi reggeva. Bisogna osservare di tener dritti e paralleli gli skie, perché, se alquanto si riguardano le punte d’avanti, vengono a formare i vestigi nella neve a triangolo, che però urtandosi tra di loro fanno cadere; se alquanto si slargano le punte davanti, viene a formarsi l’istesso triangolo da quelle di dietro, le quali pur cozzando insieme fanno cadere, il che però segue senza pericolo, massimamente se si cade a uno de’ lati, conforme per lo più intravviene.
Accorre però il Lappone con carità a sollevare il passeggiero caduto, perché vi è il modo di poter fermar il corso alla metà del monte, o dove gli pare; il che si fa non arrestandolo a retta linea, ma col piegar il corso destramente verso uno dei lati, formando una linea curva: quando poi si ritrova voltato affatto in fianco del monte, benché col primiero impeto seguiti a scorrer alquanto, nondimeno presto si ferma, ed allora vien il Lappone a sollevar il caduto» (7).
Olao Magno
Olof Mansson (latinizzato in Olao Magno), che compì il suo viaggio nei paesi nordici cent’anni prima di Negri, era di origini svedesi, essendo nato a Linköping nel 1490. Dopo avere portato a termine gli studi superiori in Germania, nel 1518 compì un lungo viaggio nel Nord della Svezia come Legato pontificio in visita alle comunità cristiane, all’epoca ancora immerse in un ambiente essenzialmente pagano. Successivamente fu segretario del fratello maggiore Giovanni, arcivescovo di Uppsala e ambasciatore di Svezia. Nel 1523 il principe svedese Vasa lo mandò in missione in Italia e da allora non fece più ritorno nel Paese natale, anche a motivo della diffusione che vi aveva avuto la Riforma Luterana. Fino al 1539 visse con il fratello a Danzica e poi si trasferì a Roma, dove, nel 1554, pubblicò la sua opera più importante: Historia de gentibus septentrionalibus.
Come arcivescovo di Uppsala Olao Magno ebbe un ruolo importante nel Concilio di Trento. Morì a Roma nel 1557. L’opera, la prima a diffondere la conoscenza dei Paesi nordici, uscì lo stesso anno anche a Venezia in traduzione italiana (8).
Nel capitolo dedicato alla Scricfinnia, Olao Magno dedica spazio agli sci come mezzo di trasporto e di caccia, scendendo anche nei particolari:
«La Scriscinnia, è una regione posta da la Biarmia, e la Finmarcha, ma ella distende un cantone assai più lungo, che per gli altri versi, da la parte del’Austro, e verso il mare Bothnico, è detta così, come se volessemo dire, chefusse una coda. Perché gli habitatori di quel paese, con maravigliosa prestezza, usano certi legni, lisci, e piani, piegati, e ritorti da la parte davanti a guisa di archi, e quelli accomodati, e ben fermati a li piedi, con un bastone poi, che portano in mano per dirizzarli, secondo che più gli piace, o in su, o in giù, o per traverso li girano, e trasportano sopra li alti monti de le nevi, con maravigliosa destrezza: ma per ciò fare, servano questo modo, che uno de li legni, è più lungo de l’altro la misura d’un piede, secondo la grandezza de gli huomini, o de le donne, che li portano; come dire, se l’uomo, o la donna, fusse di alta otto piedi, il legno posto in uno dei suoi piedi, sarà giustamente de la medesima lunghezza; l’altro poi sarà lungo nove piedi.
Appresso questi legni sono la parte di sotto, che calca le nevi coperti, e foderati di una pelle tenerissima, e morbida, del vitello detto Rangifero, la cui forma, e colore si assomiglia al colore, e a la forma di quella del Cervo, ma l’animale è assai più alto, e maggiore, de la cui natura di tratterà più di sotto, nel libro che scriveremo de gli animali. Hora, perché cagione questi legni si cuoprino di queste si tenere pelli, varie sono le cause, che si adducono, e prima, acciochè con maggior prestezza trapassino, e trascorgano per le alte nevi, e acciochè più leggermente, e più destramente schifino molte voragini di altissime rupi, e precipizi profondissimi, col gettarli a traverso, e per traverso movendosi quando faccia di bisogno, e acciochè quando si indirizzano a correre in su, non trabocchino indietro a rovescio, perché allora li peli di quelle pelli si drizzano a guisa che fanno le pelli de li ricci, e come acute punte, e con maravigliosa potenza de la natura, ritengono l’huomo che non sdruscioli, e si riversi indietro. Da tali, e si fatti istrumenti, istrutti adunque questi popoli, con l’ingegno, e arte, che hanno nel correre, penetrano li più inaccessibili luoghi de gli horridi monti, e ne le più riposte profondità de le valli, e massime nel tempo de l’Inverno, il che non fanno così agevolmente la State, quantunque allhora habbiano pure le nevi»(9).
In questo brano Olao Magno specifica che la lunghezza degli sci è proporzionata all’altezza dello sciatore, anzi, che per l’esigenza di curvare e di fermarsi durante la caccia, la lunghezza degli sci differisce di un piede. Fornisce anche un’altra importante informazione, cioè che sul piatto inferiore degli sci i Finnici applicavano strisce di pelle di renna che avevano il compito d’impedire l’arretramento dell’arnese, specie in salita, in quanto la disposizione dei peli bloccava il passo all’indietro pur non ostacolando la scivolata in avanti, cosa che si ottiene attualmente con l’applicazione delle sintetiche “pelli di foca” per lo scialpinismo. L’argomento viene ripreso nel saggio di Magno nel cap. XII, dedicato alle tecniche di caccia:
«Havendo noi nel primo libro ragionato de gli Scricfinnij, de’ Biarmesi e de’ Finmarchi, e de’ costumi e vita loro, qui si potrà aggiungere, come in alcuni larghi travi, overo in certe tavole morbide e lubrìche, le quali si congegnano, e legano a li piedi, seguitano le fiere sopra le valli, e sopra li nevosi monti, e sopra le più alte cime de le balze, con prestissimo corso, e con precipite impeto, e le vanno cacciando con gli archi, e con le saette. Si vede ancora in questa figura una femina che con li capelli sciolti, e sparsi, scocca una saetta da l’arco» (10).
Cesare Vecellio
Si trova traccia degli sci anche ne Gli habiti antichi e moderni, opera data alle stampe da Cesare Vecellio nel 1590 (11)”.
Cesare (1521-1601), fratello di Tiziano, fu pittore e incisore di fama e in conclusione della sua vita artistica volle cimentarsi in un genere che, pur comportando una raffinata tecnica di stampa, ebbe una vasta produzione in Europa fra la seconda metà del ‘500 e la prima del ‘600. La seconda edizione (per i tipi di Bernardo Sessa) uscì nel 1594, portando in copertina anche il nome di Tiziano. Nel testo compare l’immagine di un guerriero scrifino che imbraccia un arco e porta ai piedi un paio di improbabili sci. Il disegno è chiaramente ispirato al testo di Olao Magno e a proposito di questi sci, Negri osserva che:
«Cose tutte contrarie al fatto, perché il Rangifero non ha altrimenti tre corna, conforme egli rappresenta col discorso, e colla figura, ma due. […} Pone ancora la figura degli Skier, cioè legni posti sotto i piedi per viaggiar sopra la neve, i quali, se fussero tali, quali gli descrive, impedirebbero talmente il viaggiante, che non potrebbe avanzar un passo, perché in vece di premerli co’piedi in mezzo, fa, che li prema il Lappone nell’ultima, ed estrema parte; nel qual sito verebbero cacciati sotto la neve, e si alzerebbero in aria nella parte anteriore» (12).
Johannes Schefferus
Francesco Negri sottopose a puntigliosa analisi le affermazioni di Olao Magno, come fosse l’unico che si fosse espresso sulla materia, trascurando il fatto che un testo scientifico molto esaustivo aveva visto la luce nel 1673, prima in latino, poi tradotto in tedesco, inglese e francese, e lui ne era venuto sicuramente a conoscenza. Si trattava di un saggio sulla Lapponia scritto da Johannes Schefferus, anche lui svedese (13).
Schefferus nacque a Strasburgo, allora parte del Sacro Romano Impero, nel 1621. Dopo gli studi, iniziati nella città natale e poi proseguiti all’Università di Leida, nel 1648 divenne professore di eloquenza e governo all’Università di Uppsala, cattedra che mantenne fino alla sua morte nel 1679.
Nel 1673 pubblicò un saggio sulla Lapponia (Lappland) che divenne famoso in tutta Europa ma che solo nel 1956 venne tradotto anche in svedese; a proposito del quale è necessario sottolineare che ha sicuramente una rigorosa base scientifica e che si tratta di una ricerca finalizzata a far luce sui costumi dei popoli artici. Si tratta di uno studio vasto ed esaustivo, basato su numerose fonti scrupolosamente citate a margine di ogni paragrafo, oltreché sull’esperienza diretta dell’autore, come tiene a precisare nella prefazione: «Si è servito di tutti i mezzi giudicati utili per la scoperta della verità, cosa che ha perseguito con cura e precisione e non ha riferito nulla che non fosse basato su prove attendibili».
Nel capitolo dedicato a De Lapponium Armis ad Venationem ecc, arcubus et sagittis in venatione quarendas, egli conferma la descrizione data da Magno:
«Lunghe travi, e tavole lisce costituiscono le scarpe di cui parliamo, l’utilizzo delle quali non ha piccola parte nella caccia. I popoli nordici sono soliti chiamarli Skjder, contratto in Skier, che corrisponde al Scheitter dei Germani, parola con cui indicano gli stessi legni. Talvolta li chiamano andrer, oppure ondrur. Olao Magno, islandese, dice: «Skydi ovvero ondrur sono assicelle oblunghe. Legati queste ai piedi, i nostri procedono per campi di neve profondissima». Samuel Rheen: «The renna shem upp med skiidh, eller andrar». Hoctest: «Inforcano ai piedi dei legni, detti skiidh oppure andrar». Che forma abbiano le loro calzature il detto islandese cerca di spiegare: «Le assi sono oblunghe, e sollevate nella parte anteriore, con una lunghezza di cinque o sei palmi, mentre la larghezza non supera il palmo». In verità presso di noi a fatica ottiene fiducia, perché abbiamo visto altrove e noi stessi possediamo un paio di queste suole. Infatti, la larghezza è di poco maggiore e la lunghezza molto minore. Di questi parla Wormius: «Si vedono – dice – fra i lapponi di tali suole che hanno una lunghezza di almeno tre piedi». Né vi è nessuno che abbia studiato i Lugduni Batavorum (Leida) come i testi di Frisius nelle sue note a Balduino. «Semplicemente -dice – sono sette piedi di lunghezza e quattro pollici di larghezza». Naturalmente è necessario, per amore di verità, riportare ciò che osserva Olaus Magnus, che indubbiamente è un testo definitivo. Dice infatti nel Libro I, comma 4, le sue osservazioni: «Ma per ciò fare, servano questo modo, che uno de li detti legni, è più lungo de l’altro la misura d’un piede, secondo la grandezza de gli huomini, o de le donne, che li portano; come dire, se l’uomo, o la donna, fusse alta otto piedi, il legno posto in uno de li suoi piedi, sarà giustamente de la medesima lunghezza; l’altro poi sarà lungo nove piedi». Deve dunque una suola dell’uomo essere più lunga dell’altra di un piede, e l’altra essere dello stesso più corta. Pertanto una delle suole è più lunga dell’altra di un piede intero. D’altra parte Frisius li dice di pari lunghezza, né Olao Wormius nota nelle sue carte una qualche differenza; tuttavia sono dell’opinione che quelle suole non siano uguali a quelle corte, ma più lunghe di quelle pari» (14).
Jean-François Regnard
Un personaggio estremamente singolare fu Jean-Francois Regnard, passato alla storia come dissoluto autore di commedie brillanti e amico di Molière. Regnard ebbe una vita molto avventurosa. Nato a Parigi nel 1655, disponendo di larghe risorse familiari, viaggiò molto per suo piacere. Mentre navigava nelle acque di Nizza venne catturato da una nave corsara e condotto schiavo ad Algeri, dove rimase dall’ottobre del 1678 all’aprile del 1681. L’anno stesso della sua liberazione partì per un lungo viaggio che lo portò nelle Fiandre, in Danimarca e in Svezia, dalla quale si spinse fino in Lapponia. Quindici anni dopo, seguì l’itinerario di Negri verso il Nord e trovò traccia del passaggio del ravennate. Tornato in Francia, si stabilì a Parigi dove si dedicò alla produzione letteraria per il teatro, divenendo amico di Molière, attraverso il quale raggiunse grande celebrità. Rifiutò sempre di pubblicare il suo diario di viaggio, che vide la luce solo vent’anni dopo la sua morte avvenuta nel suo castello di Dourdan nel 1709 (15).
Anche Regnard diede una vivace immagine dell’utilizzo degli sci per scopi venatori:
«Fummo assai felici di cacciare la domenica: prendemmo una quantità di selvaggina, ma non vedemmo niente che meriti di essere scritto, se non un paio di quelle lunghe assi di legno di abete con le quali i lapponi corrono con una straordinaria velocità, tanto che non c’è animale, per quanto veloce possa essere, che non raggiungano facilmente purché la neve sia dura a sufficienza per sostenerli. Queste assi, estremamente spesse, hanno una lunghezza di due braccia e una larghezza di mezzo piede; sono sollevate in punta sul davanti e forati nel mezzo per tutto lo spessore che è considerevole, per potervi passare una striscia di pelle che mantiene i piedi fermi e immobili. Il Lappone che vi è su tiene in mano un lungo bastone, a un’estremità del quale è attaccato una rondella di legno, in modo che non possa affondare nella neve, e all’altra una punta di ferro. Egli si serve di questo bastone per darsi il primo movimento, per sostenersi mentre corre, per indirizzare la corsa, e per fermarsi quando vuole; si serve di questo strumento anche per colpire gli animali che insegue, quando gli è molto vicino.
È molto difficile immaginare la velocità di questi uomini, che con questi strumenti possono superare in corsa gli animali più veloci; ma è impossibile comprendere come possano reggere scendendo per i pendii più ripidi e come possano salire le montagne più scoscese. È impossibile immaginare la destrezza con cui fanno queste cose e che è così naturale agli abitanti di questo paese, poiché le donne non sono meno abili degli uomini nell’utilizzare queste assi. Fanno visita ai propri parenti intraprendono in questo modo i viaggi più difficili e più lunghi» (16).
Perché occuparsi della preistoria degli sci
L’idea degli sci è associata all’uso a cui sono attualmente destinati, quasi esclusivamente ludico; ma tale divenne sono negli ultimi anni del 1800 e alla loro diffusione diede un importante contributo l’inventore di Sherlock Holmes (17).
Nel 1894 Arthur Conan Doyle – non ancora “Sir” – fece un lungo soggiorno sulle Alpi svizzere, nella speranza che il clima giovasse alla moglie, malata di tisi. Lo scrittore ne approfittò per lavorare e, da atleta qual era, per dedicarsi agli sport invernali, vale a dire allo slittino e al pattinaggio. Conan Doyle si fece pure arrivare un paio di “ski” dalla Norvegia, dove aveva soggiornato, e insieme a due amici svizzeri fece quella che oggi si chiamerebbe una “scialpinistica”, descrivendo una strana tecnica: legare insieme gli sci in modo da formare una sorta di slitta da utilizzare in discesa. È questa la prima testimonianza per la quale tali arnesi venivano utilizzati per puro divertimento. Gli attrezzi descritti dagli autori secenteschi, pur assimilabili agli attuali, sono ovviamente molto diversi: anche uno sguardo superficiale rimanda a un’evoluzione da quei primi legni antichi.
Del resto, era ampio e ben diverso dall’aspetto ludico lo spettro di impieghi che derivavano esclusivamente dagli spostamenti connessi a guerra e caccia, con un utilizzo su neve profonda e di consistenza estremamente variabile, e non certo in piste compresse e preparate per rispondere ad attuali finalità estremamente specialistiche (18).
L’evoluzione moderna degli sci è stata principalmente determinata dalla diffusione del benessere e da un rapido sviluppo della tecnologia, che hanno consentito di salire in quota senza dispendio energetico e di battere ampi spazi nevosi per destinarli a piste da sci. Incomparabilmente diverse erano le necessità dei popoli nordici, per i quali gli itinerari erano determinati dalla conformazione del terreno e dalla necessità di inseguire le prede.
La storia della struttura degli sci e del loro utilizzo non è diversa da quella di altri strumenti nella cui varietà un particolare modello finisce per prevalere e viene assunto a eponimo. Uno strumento che inizialmente può rispondere a una varietà di esigenze, evolve restringendo progressivamente lo spettro delle sue applicazioni fino a raggiungere una specializzazione estrema, tanto da ammettere uno specifico utilizzo in condizioni e in ambienti ben determinati.
Una particolarità, messa in evidenza da Johannes Schefferus, è la differente lunghezza degli sci che fa pensare a un’asimmetria anche nel loro utilizzo. In particolare, che lo sci più lungo avesse la funzione portante e il più corto quella di appoggio, specialmente nell’esecuzione di una curva. Ma niente fa pensare che si trattasse di attrezzi progettati appositamente per la discesa, se non per brevi tratti. Il lungo bastone che figura impugnato dal proto-sciatore passò quasi inalterato nell’utilizzo dei primi sciatori dell’epoca vittoriana, che se ne servivano tanto per spingere nella progressione quanto (posto tra le gambe) per controllare la velocità in discesa. Nel moderno sci di fondo trova ancora qualche applicazione in quella particolare applicazione che va sotto il nome di sci-escursionismo.
Note
1 – Magno, Olao, Gotho, Historia de gentibus septentrionalibus, earumque diversi!
statibus conditionibus, moribus, ritibus, superstitio, Cautum est privilegio lulii III Pont. Max., Romae, 1565.
2 – Vecellio, Cesare, De gli habiti antichi, et moderni di diverse parti del mondo, Damiano Zenaro, Venezia, 1590.
3 – Negri, Francesco, Viaggio settentrionale, fatto e descritto dal molto rev.do Sig. D. Francesco Negri da Ravenna, Opera postuma, Stamperia del Seminario, Padova, 1700.
4 – Joannis Schefferi Argentoratensis, Lapponia id est, Regionis Lapponum et Gentis nova et verissima descriptio, ex officina Ch. Wolffii, Francofurti, 1673.
5 – Hevelius, Johannes, Prodromus Cometicus, qua Historia Cometae Anno 1664 exorti, Simon Reiniger, Gedani, 1665.
6 – Negri, Francesco, Lettera ad Antonio Magliabechi, 16 settembre 1691.
7 – Negri, Francesco, Viaggio settentrionale, pp. 65-67.
8 – Magno, Olao, Historia delle genti et della natura delle cose settentrionali da Olao Magno Gotho arcivescovo di Vpsala nel regno di Suezia e Gozia, descritta in 22 libri. Nuouamente tradotta in lingua toscana. Con una tauola copiosissima delle cose più notabili, in quella contenute, Venezia, 1565.
9 – Magno, Olao, Historia, Cap. IIII, p. 3.
10 – Magno, Olao, Op. cit., Cap. XII, p. 53.
11 – Vecellio, Cesare, De gli habiti antichi, et moderni di diverse parti del mondo, Damiano Zenaro, Venezia, 1590.
12 – Negri, Francesco, Op. cit., Annotazioni sopra l’Opera di Olao Magno, pp. XXIII – XXIV.
13 – Joannis Schefferi Argentoratensis, Lapponia id est, Regionis Lapponum et Gentis nova et verissima descriptio, ex officina Ch. Wolffii, Francofurti, 1673.
14 – Schefferi, Joannis, Op. cit., p. 247.
15 Regnard, Jean-François, Voyages de Flandres, Hollande, Suède, Danemark, Laponie et Allemagne, Voyages de Normandie et de Chaumont (postumo 1731 ), in Les Oeuvres de M. Regnard, Paris, V.ve de P. Ribou, 5 vol., in-12, vol. I et II, Parigi, 1731.
16 – Regnard, Jean-François, Op. cit., pp. 21 -22.
17 – Conan Doyle, Arthur, Sulle Alpi svizzere, Nuova Editrice Berti, Parma, 2019.
18 – Si veda la voce Tecnologia dello sci in Enciclopedia della montagna, Istituto Geografico De Agostini, vol. VIII, pp. 48-52.
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Bella la tavola con la prima reppresentazione tecnica di un paio di ski, sembrano dei “fattoni” twin tips.
Bello l’articolo, non capisco il parallelismo del commento di Telleschi con i ciclisti, mi ricorda le recenti sortite di un giornalista Lombardo nonché politico di maggioranza.
Per rispetto dei ciclisti e pedoni morti a causa delle auto sarei molto cauto nell’esprimere i soliti luoghi comuni sui comportamenti dei ciclisti.
Di certo non ci tengo ad essere ghettizzato in un velodromo per non dare fastidio.
Lunga vita agli ski e alle 2 ruote.
Anche in questo caso, come è sempre stato nella storia dell’uomo, la necessità di risolvere problemi ha portato all’ideazione di mezzi utili alla vita quotidiana, come sono gli sci per spostarsi agevolmente sulla neve.
Peccato che anche questa invenzione sia finita nell’ingranaggio della macchina che vuole trasformare tutto in affare.
Per chi è interessato ci sono due bei libri di Yves Ballu (Ski retro e l’epopee du ski) che trattano estesamente l’argomento.
La storia dello sci riassume in breve e in modo emblematico la storia della bicicletta. In genere tra il ciclismo e l’ecologia non esiste alcuna correlazione. Come lo sci si è trasformato subito in gioco, così la bicicletta è diventata uno sport sebbene abbia avuto l’ambizione di essere un mezzo di trasporto e tuttora abbia l’illusione di contribuire al progresso. Come ci sono sportivi che giocano a pallone o a tennis, altri pretendono di giocare sulle pubbliche strade a spese di tutti i contribuenti. Ma se i ciclisti corressero rinchiusi in appositi velodromi darebbero meno fastidio. Mi riferisco ovviamente all’arroganza diffusa nella maggior parte dei ciclisti sportivi che infrangono deliberatamente ogni regola prevista dal codice della strada a cominciare dal rispetto dei semafori rossi, il divieto di sorpasso a destra e la formazione di bande superiori al numero due eccetera.
Bella la pelle di”rangifero” attaccata sotto lo sci.