Eccesso di zootecnia, consumo di acqua, monocolture a mais, sversamento di liquami, agrofarmaci, pesticidi, emissioni climalteranti, taglio di alberi, consumo di suolo e terre svendute alle grandi aziende dell’energia. Paolo Pileri mette in fila i temi schiacciati da chi non vuol cambiare rotta. Ma una luce (e un’alternativa) si vede. Segue un articolo di Giovanni Cominelli che denuncia come e perché la politica degli aiuti al reddito e gli sconti IRPEF non porteranno lontano. L’armonia sociale ottenuta dando “a ciascuno il suo” non coincide affatto con il Bene comune, ma con la palude del Paese.
L’agricoltura industriale difesa dai trattori è il problema
(non la soluzione)
di Paolo Pileri
(pubblicato su altreconomia.it l’8 febbraio 2024)
È un ritornello: lo abbiamo già visto. Appena qualcuno tenta una riforma della agricoltura di poco diversa dal solco del peggior consumismo, una fetta dell’agricoltura monta sui giganteschi trattori (comprati inutilmente e in parte con finanziamenti pubblici) e cerca di spaventare opinione pubblica e politica. Questa volta la prima non si sta per nulla spaventando e non sta offrendo solidarietà a prescindere, la seconda al solito ci casca.
Credo che gli agricoltori che protestano stiano clamorosamente sbagliando indirizzo: non devono prendersela con l’Unione europea che li finanzia da decenni né con gli Stati che pure li finanziano da decenni e pure quando ci sono calamità e stati di emergenza (non dimentichiamolo). Devono andare a protestare dalle loro associazioni di categoria che non li hanno aiutati quanto occorreva per farli transitare verso un’agricoltura più giusta, più sana, più pulita e verso quelli che si prendono l’80% dei contributi della Politica agricola comune (Pac) senza mai mettere piede in un campo. Se la devono prendere con chi impone loro agrofarmaci in abbondanza e sementi di un certo tipo per colture di un certo tipo (disastrose). Dopo di che è inutile che ci nascondiamo dietro un dito: l’agricoltura convenzionale o industriale, a seconda di come piace chiamarla, è solo e soltanto il prodotto di sacrifici ecologici immensi. Se non ci diciamo questo, non siamo onesti. E piacerebbe sentirlo da quelle facoltà di Agraria che ancora non riescono a scollarsi di dosso il mito della super produzione, costi quel che costi, mentre dovrebbero solo virare verso la sostenibilità a tutti i costi.
Dopodichè visto che i trattori alzano la voce, ricordiamo loro che la coscienza di un bel pezzo di agricoltura ha il colore dei fumi di scarico di quei mezzi. È infatti lunga la serie di fatti che non depongono certo a favore di un’agricoltura che si può autodefinire sostenibile né ecologica. L’eccesso di zootecnia (lo diciamo da tempo) è un problema. Innegabilmente un problema che genera un sacco di problemi all’ambiente e alle persone: eccesso di consumo idrico, monocolture a mais solo per produrre insilati, perdite energetiche in filiera, patologie sanitarie gravi per eccesso di consumo di carne, problemi enormi di spandimento dei liquami, problemi enormi per trattamento degli animali, ecc. A livello mondiale la superficie agricola dedicata alla zootecnia è oltre il 70% della superficie coltivata per produrre solo il 15-20% delle calorie alimentari. Non mi pare difficile commentare questo dato come uno sbilanciamento folle e insostenibile che è assurdo mantenere e che protegge un’industria della carne che si è eccessivamente ingrandita e che ha monopolizzato la dieta alimentare dei cittadini per fare profitto, non certo per migliorare la loro salute.Non ricordo campagne informative delle associazioni della agricoltura che spingono a ridurre il consumo di carne. In Italia gli eccessi non mancano, la Pianura padana è un “maisificio” unico, inguardabile, disastroso. Vero è che l’agricoltura ci ha dato da mangiare, ma a quale prezzo in termini di salute e ambiente? Sono replicabili nel futuro? No. Può aiutarci l’agricoltura a cambiare in meglio? Sì, ma non con quelle proteste perché sono scentrate rispetto agli urgenti obiettivi di sostenibilità. Possiamo mangiare molta (molta, molta) meno carne e abbiamo il diritto di mangiare meglio e più sano e pulito. Questo è il diritto di noi cittadini. Non quello di abbuffarci di cibo molesto e a basso costo. Aiutateci a mangiare meglio, più sano e tutti.
Veniamo a un altro tema, disastroso: lo sversamento di liquami nei terreni. Sappiamo perfettamente che il settore ha beneficiato di deroghe su deroghe in questi anni, il tutto per tenere in vita un’economia agricola eccessivamente sbilanciata. Sappiamo bene che sulla carta molte aziende agricole vantano superfici di spandimento sufficienti, ma che non le utilizzano tutte, finendo per concentrare lo spandimento solo in alcune aree. È falso?
Sappiamo che le quantità di agrofarmaci utilizzati sono eccessive e mal dosate in molti casi. Sappiamo che molta manodopera è ancora mal pagata e sfruttata. Non ricordo le associazioni dell’agricoltura offrire seminari e incontri culturali ai loro iscritti per fargli conoscere le inchieste e i libri di Alessandro Leogrande sul caporalato (per fare un esempio a cui potremmo aggiungerne altri) o le inchieste di Stefano Liberti su temi paralleli. La strada da fare è molto lunga e queste proteste sul trattore non mi pare sollevino questi temi che sono nodali e urgenti, ma preferiscono tenere tutti sul filo del ricatto: “Senza di noi non c’è cibo”. Ma quale cibo?
Oggi il paradigma della quantità a tutti i costi non funziona. Occorre cambiare. È doloroso, mi rendo conto, ma mai come oggi è necessario che la protesta sia sinceramente ecologica e non protezionistica. Ad esempio, nessuno parla di sprechi alimentari. A che cosa serve avere una agricoltura che produce-produce-produce per buttare via un quarto di quello che vende? Certo, fa cassa per chi vende, ma dal punto di vista della sostenibilità è un dramma e pure da quello della equità. Sarebbe meglio produrre meno pur spendendo uguale ma dando più soldi al produttore. E il mondo agricolo e dell’economia alimentare potrebbe fare molto molto molto di più in tal senso.
Proseguiamo con l’elenco. L’agricoltura contribuisce alle emissioni climalteranti per una quota enorme. Non usa le acque in modo sostenibile né evita scarichi inquinanti nei fossi. C’è un problema di rifiuti: tremano le gambe quando si parla di gessi di defecazione. Poi, l’agricoltura convenzionale arriva a tagliare qualsiasi albero dia il minimo fastidio ai nuovi macchinari automatici. I trattori sono diventati pesantissimi, sfondano argini (altro che le nutrie, per favore) e strade di campagna e locali. È enorme l’uso di acqua che va sprecato, tanto la si paga poco. E poi quando manca l’acqua, l’agricoltura alza la mano e la politica le concede i soldi dallo Stato invocando emergenze e calamità senza mai porsi i dubbi che tutto quel mais che richiede acqua nelle stagioni dove acqua non ce ne è mai stata, forse richiederebbe di ridurre la produzione di mais e non solo piangere la necessità di acqua a iosa.
Energia? Sappiamo che le associazioni dell’agricoltura sono arrivate tardi sulla partita della transizione energetica che sta rubando terre agli agricoltori (specie i più fragili) e dando redditi importanti ad altri agricoltori (sempre i più forti): forse l’associazionismo dell’agricoltura doveva aver capacità di prevenire tutto ciò, ma si è smarrita (che strano). Sappiamo perfettamente che le plastiche in campo sono diffuse in modo enorme (gli agricoltori sul trattore hanno letto i rapporti della Fao? Sanno che cosa stanno mangiando e facendo mangiare? Smaltiscono correttamente?) e non stanno facendo nulla per limitarle e fermarle. Sappiamo benissimo che tutte le azioni di miglioramento ambientale sono pregiudizialmente viste dalla maggioranza come una rottura di scatole, inutile, perfino dalle organizzazioni di settore. Mi chiedo di quanto sia cresciuta la sensibilità della base su un tema chiave come la biodiversità. Chi protesta che cosa sa? Che cosa fa? Che cosa sa degli impegni internazionali che dobbiamo e vogliamo rispettare? Sappiamo perfettamente che il cemento è un problema per l’agricoltura e sappiamo che l’urbanistica è famelica, ma sappiamo altrettanto bene che l’agricoltura industriale non ha mai fatto niente di concreto ed efficace per fermare l’emorragia dei suoli a causa del cemento perché con una mano si scandalizza, ma con l’altra lascia che le cose rimangano così perché gli agricoltori spesso sono contenti di vendere le terre e incassare: vedi quel che è successo con l’autostrada Brebemi (A35); vedi quel che succede con la logistica che va ad accaparrarsi terre facili; vedi quel che sta accadendo con i pannelli solari e le pale eoliche con le grandi aziende dell’energia che stanno spazzolando terre ben esposte senza trovare adeguata opposizione da parte dell’agricoltura e di chi dovrebbe difenderla. Sappiamo che nel 2012, quando eravamo a un passo dal portare in Parlamento una legge per la tutela dei suoli dal cemento, con l’allora ministro Mario Catania, furono le organizzazioni dell’agricoltura a essere fredde e a pretendere di non gettare vincoli sulla libera iniziativa di vendita delle terre da parte delle aziende agricole. E la proposta di legge naufragò.
Infine, sempre per non nascondersi dietro a un dito: molta agricoltura è ostaggio delle multinazionali sementiere, dell’agrofarmaco e del petrolio (che spesso coincidono) oltre che della distribuzione alimentare. Puntate i vostri trattori verso di loro. Puntateli anche verso chi, del settore, sta comprando sottocosto le aziende agricole in sofferenza anziché aiutare a risanarsi, e magari compra pure alcune catene di distribuzione alimentare così da fare filotto.
Ecco, non siamo ingenui. L’agricoltura industriale, lo ripeto, è un problema e non una soluzione. Men che meno oggi. Men che meno con lo schema di gioco di ieri. Quindi questa protesta somiglia più a qualcosa per garantirsi alcuni privilegi, per non mettersi in discussione, per dimostrare che non si è disposti ad alcun cambiamento, per favorire qualche parte politica che si avvantaggerà del solito serbatoio di voti del mondo agricolo. Non certo la miglior parte politica. La politica che ritira un provvedimento per limitare i pesticidi non è una politica utile per il futuro. Per nulla. Una politica che apre il borsellino del Piano nazionale di ripresa e resilienza ma non affronta la drammaticità ecologica e sociale di questa agricoltura industriale non è una buona politica perché non risolve i problemi strutturali e culturali di questo importante mondo.
Non mancano però pur piccoli elementi positivi nelle pieghe di questa protesta. Innanzitutto, vediamo non poche dissociazioni dentro il mondo della agricoltura. Aziende agricole che non sono scese in campo. Agricoltori che stanno dubitando ce ne sono. Ci sono ottime aziende, responsabili, che purtroppo non riescono a farsi sentire ma resistono e stanno cambiando rotta: a loro tutta la nostra solidarietà, sono queste le aziende che la Pac dovrebbe premiare, smettendo di premiarne altre. E poi vediamo che le persone non stanno empatizzando con quei trattori e questo è un elemento di forte novità, cari agricoltori convenzionali. I cittadini sono cresciuti e ci pensano due volte prima di venire con voi sui trattori. Pensateci. Non avete il dubbio di essere dentro una nebbia e che oggi la questione sia diversa?
La protesta dei trattori e lo stato assistenziale dei campi
di Giovanni Cominelli
(pubblicato su santalessandro.org il 13 febbraio 2024)
L’insorgenza dei trattori contadini ha cause molto simili in Europa e specificità nazionali. Qui, del prisma a numerose facce di questa vicenda, interessa una faccia in particolare: quella del metodo dei rapporti tra gli interessi di categoria, i partiti e il governo del Paese.
Fin dagli anni ‘50 la rappresentanza degli interessi agricoli, peraltro a ventaglio molto largo, dai latifondisti ai braccianti, prevedeva una ruota sindacale dei proprietari, i cui denti si incastravano precisamente in quella della politica, a formare un ingranaggio efficiente.
La ruota Coldiretti, fondata il 30 ottobre 1944, ha funto da sindacato principale degli interessi dei proprietari ed ha messo in movimento per lunghi anni le ruote dei partiti, all’inizio solo di governo poi anche quelli di opposizione, nessuno escluso, fino ad oggi.
I braccianti erano organizzati nella Federbraccianti. Intanto, l’agricoltura italiana ha visto contrarsi, come in tutti i Paesi industriali, il proprio spazio di addetti – negli anni ’50 erano il 41% degli occupati, oggi attorno al 3%, circa 1 milione in numeri assoluti. Essendo in ritirata, ha avuto fin da subito bisogno del sostegno statale, nella forma di incentivi e sussidi.
Come spiega Franco Sotte nel libro La politica agricola europea, si è scelto da parte europea, già fin dalla Conferenza di Stresa del 1958, di “puntare tutto sui prezzi, fissandoli a livelli particolarmente alti e garantendoli attraverso acquisti pubblici, dazi alle frontiere e premi all’esportazione”.
Questa politica ha favorito le agricolture nord-europee, industrialmente più moderne e avanzate, rispetto a quelle mediterranee. Dal 1992 i prezzi non sono più stati protetti come all’inizio, fino ad arrivare, in questi anni, alla “graduale convergenza verso un aiuto al reddito uguale per tutti gli ettari dell’Unione”.
Il criterio non è il numero di dipendenti, ma quello degli ettari. Questo meccanismo comporta che l’80% delle somme stanziate vada al 20% dei beneficiari. Così ai piccoli agricoltori restano le briciole. E poiché i grandi percettori stanno nelle grandi pianure del Nord e, in Italia, in quella padana, le agricolture di collina e di montagna e quelle del Sud sono svantaggiate.
L’Italia agricola debole e uno “status quo” iniquo
Di fatto, la PAC favorisce chi è già ricco, cioè i Paesi del Nord, così che l’Italia stessa dà più soldi alla PAC di quanto ne riceva, salvo poi cercare di compensare su altri piani. Questo è un fatto che il leghismo-salvinismo ha più volte denunciato, facendone la base per un antieuropeismo elettorale per un verso, ma rifiutando poi ogni riforma della PAC per l’altro, perché avrebbe offeso gli interessi forti della Padania, bacino elettorale della Lega.
Ma ora, anche il governo Salvini-Meloni si comporta, esattamente come i governi precedenti aspramente criticati, come il cane che si fa dimenare dalla coda. La quale è costituita dalle organizzazioni agricole nazionali, che a Bruxelles si sono sempre opposte alla revisione della PAC, in nome della difesa dello status quo, della cui iniquità si è detto sopra.
Dunque: grandi polemiche politico-elettorali contro la UE, il rifiuto pratico di riformare la PAC, richieste di rinazionalizzazione: meglio difendere i piccoli privilegi di oggi che imbarcarsi in faticosi processi di innovazione e di formazione tecnico-scientifica e professionale degli addetti.
Così la politica e il governo continuano ad essere dimenati da interessi potenti corporativi e privilegiati. Il paradosso è che questi soggetti forti hanno fino ad ora esercitato un’egemonia stringente sulla grande massa dei piccoli operatori, i cui interessi vanno in tutt’altra direzione, a partire da quello elementare di poter accedere ai fondi, secondo giustizia distributiva. Fino ad ora: perché nelle mobilitazioni di questi giorni sono emerse fratture e divisioni che riflettono appunto i diversi interessi.
La politica ha paura della concorrenza
L’imminenza delle elezioni europee ha aggiunto peso politico specifico alla protesta, che i governi europei e il governo italiano si stanno ingegnando di sedare in qualche modo.
Ma la questione è strategica, perciò la tattica politico-elettorale non basterà. Premono alla frontiera europea i prodotti delle agricolture dei Paesi in via di sviluppo, la cui concorrenza abbiamo tenuto parzialmente lontana con i dazi e i sussidi. Bloccare i loro prodotti e poi buttare soldi nella Cooperazione internazionale è una mossa contraddittoria e inefficiente che non placa il rancore crescente dei Paesi nord-africani.
Intanto, dall’interno delle opinioni pubbliche europee colte e benestanti premono le istanze “verdi”, relative alla salubrità dei prodotti e agli effetti sul clima e sul territorio. Effetti su clima e territorio che coinvolgono direttamente i produttori agricoli stessi, di pianura, di collina e di montagna.
Perciò la politica degli aiuti al reddito e gli sconti IRPEF non porteranno lontano. Forse qualche voto a giugno. Gli aiuti PAC “sono come una droga che, specie se assunta per tanti anni, con il tempo crea dipendenza e attenua lo spirito imprenditoriale”. Si finisce per “coltivare il contributo”, anziché innovare e confrontarsi con il mercato”.
Esiste, in realtà, una base ideologica comune tra le organizzazioni agricole che protestano e i governi. E’ sempre esistita, fin dagli anni ‘50: il rifiuto del mercato. È assai più comodo lo Stato del mercato. Così lo Stato non stimola il mercato, al contrario lo impigrisce e lo addormenta. Peggio: finisce per consacrarne gli squilibri, senza generare sviluppo. Dicevamo del metodo. È il metodo corporativo.
L’armonia sociale ottenuta dando “a ciascuno il suo” non coincide affatto con il Bene comune, ma con la palude del Paese, dentro la quale continuano peraltro ad aggirarsi famelici coccodrilli. Per pensare al Bene comune serve una classe dirigente politica capace di sollevarsi al di sopra dei propri interessi immediati e di scegliere quelli dello sviluppo del Paese, nel quale Stato e mercato svolgano ciascuno un compito specifico.
Se il governo scoraggia le tendenze mono- e/o oligopolistiche, se preserva la concorrenza, se immette ricerca e formazione, allora chi ha voglia di correre, di rischiare e di guadagnare concorre, facendo il proprio interesse, a contribuire allo sviluppo del Paese. Se i partiti di governo e quelli di opposizione hanno paura, come pare, della concorrenza – vedasi alle voci “taxisti”, “bagnini”, “agricoltori”, “giornalisti”, ecc. – allora la coperta protettiva dello Stato diventerà sempre più corta e sempre più leggera. E il debito pubblico continuerà a crescere. Fino a quando il Paese potrà stare in questa bolla sempre più scarsa di ossigeno?
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La rivolta dei trattori è la reazione (non solo, ma in gran parte) alle scriteriate politiche impositorie da parte della Commissione europea, ammaliata dal Grean Deal a tutti i costi. Corretto vietare i pesticidi, o imporre rotazioni dei campi, o tutto il resto, ma ciò appesantisce i costi di produzione per di avere prodotti “puliti e sani”. Ma allora questo deve valere per tutti. invece siamo in un modello globalizzato in cui arrivano prodotti e merci dall’altra parte del mondo, senza gli stessi obblighi dei nostri. Per cui sullo stesso scaffale del supermercato c’è il riso italiano (caro perché frutto di una lavorazione con tutti i requisiti ecc ecc ecc) e a fianco c’è il riso vietnamita che costa un terzo perché non ha tutti gli stessi obblighi a carico… E’ questa cosa qui che va corretta e deriva da una sbagliata impostazione di Bruxelles e non di Roma. di fatti protestano i trattori di tutta Europa, e non solo quelli italiani. ogni paese poi aggiunge una fettina di problematiche nazionali, ma queste sono una frangia marginale del problema.
@BenassiLo penso anch’io.Al di la’ del mio essere naive , esiste il mantra che ogni anno il Pil deve aumentare del tot per cento , e se questo può valere per tecnologie relativamente nuove , per l’agricoltura che è un settore “maturo” è molto più difficile.Poi nella mia testa limitata non riesco a conciliare il fatto che stiamo soffocando di inquinamento ma la popolazione e l’economia debbano essere in crescita.Nuova gente vuole dire nuovi campi da sfruttare , nuove ( legittime ) ambizioni da soddisfare : ti immagini che in Cina , in India o in Nigeria non desiderino comprarsi tutti un’auto , mangiare del tonno , bere delle bevande imbottigliate in Pet , o almeno bere dell’acqua pulita , per poi riversare l’esito delle funzioni fisiologiche da qualche parte.
Ginesi, Expo, mi sa che noi vorremmo un mondo che non ci potrà più essere. Un mondo fatto di lentezza, di semplicità, di sapori genuini e veri, che purtroppo la maggioranza delle persone non vuole perchè lo vede com una rinuncia e un ritorno alla povertà. Da tutte le parti siamo condizionati e continuamente bombardati da incitazioni alla crescita continua, come non ci fosse un limite. Da ragazzo mia mamma mi mandava ogni mattina con una bottiglia di vetro a prendere il latte dalla Bettina , una contadina che aveva le mucche. Il latte era buonissimo, ma oggi questo latte verrebbe considerato pericoloso per la salute pubblica. Poi te lo immagini un ragazzo che va a prendere il latte dal contadino invece che al supermercato….??? roba da cavernicoli. La mamma rischierebbe di essere denunciata per non essere una brava mamma, il ragazzo di essere preso per il culo, e la Bettina messa sotto sequestro.
Benassi, concordo con te, anche le mie origini sono contadine e ho visto con i miei occhi i mutamenti, anche nel piccolo.
Credo tuttavia che anche il piccolo che ha visto soldi e guadagni facili in una gestione spregiudicata delle colture, sia solo la rotella più piccola di un meccanismo infernale voluto dall’alto.
E credo che l’uomo non si salverà se non rimediterà profondamente il sistema e i parametrio con cui vive, ritardando a una dimensione …. umana (che non vuol dire ritornare agli anni trenta e alle condizioni di fatica e stenti, ma rimodulare i parametri in un’ottica che non veda, quale unico dio, il profitto).
MA ci credo poco.
Secondo me la risposta è molto più complessa e difficile da dare..Il contadino mi è simpatico , anagraficamente , è un mio parente prossimo , massimo 3/4 generazioni.Ma il contadino di oggi ha pochissimo in comune con quello di ieri ; quello di ieri viveva spessissimo di un’agricolura di sussistenza , dove il maiale , le galline , la vacca , e i frutti della caccia e del bracconaggio integravano il discontinuo frutto della terra.La vita era dura , la socialità era limitata alla chiesa per le donne e all’osteria per gli uomini , e qualche sporadica festa in cui ci si ritrovava.A riprova di questo intere generazioni di miei familiari ( Nel “ricco” Nord Est ) , sono scappate dalla povertà in Svizzera , in Lussemburgo , in America , campando per anni a pane e marmellata.Parlando con persone che amano le montagne , credo che conosciate la vita che trasudano borghi come Codera , o tanti borghi rimboschiti di cui solo qualche vecchio ricorda i nomi.Adesso a fare la vita che facevamo noi 60/70 anni fa’ mandiamo i macedoni o i kosovari .Quando torno alle origini mi accorgo di desiderare un passato che non c’è più , vorrei sentire parlare il dialetto , vedere gente che vive a contatto con l’ambiente , vedere luoghi dove la standardizzazione non arriva.Ma è una pretesa impossibile e ingiusta.Adesso l’alternativa che ha il contadino è utilizzare sementi e trattamenti che snaturano l’ambiente ( colture sterili a prova di insetto , trattamenti farmacologici intensivi , monocolture ) e avere rendimenti altissimi , oppure fare “alla vecchia maniera” e trovarsi a vendere un pugno di nocciole alla Ferrero ad un prezzo che nessun acquirente è disposto a pagare , e di conseguenza fallire e abbandonare la terra.Quanto agli sprechi , io dubito che gli sprechi agricoli derivino dalla sovrapproduzione , c’è anche la questione che la distribuzione ha una percentuale di spreco fisiologica , e oltre un certo grado di deperimento nessuno vorrebbe quella merce nemmeno regalata.Una risposta che credevo ci fosse è la diversificazione della produzione , con tipologie di prodotto e protocolli DOP che permettano di fare fronte ai costi di una produzione non standardizzata e non intensiva, con un prezzo multiplo del prodotto che viene venduto sotto la stessa denominazione ( per esempio formaggio Bitto “industriale” e formaggio Bitto “primitivo” .Parlandoci non mi sembra che gli agricoltori che hanno intrapreso questa scelta navighino nell’oro.
Ginesi, fare il Crovella non credo proprio, sono ben lontano dalle sue opinioni e aspirazioni.
Quello che ho scritto è basato sulla mia esperienza, sono figlio di quel mondo contadino, su quello che ho visto fare per decenni nella campagna versiliese, dove un tempo c’era una ricca agricoltura di produzione delle fragole, ma anche tanto altro, come ortaggi, verdure, fiori, ect. . In quella campagna è stato dato di tutto e di più. Lo so benissimo che le multinazionali hanno sempre premuto e condizionano. Ma dovrebbe esistere una coscienza personale e per decenni questa coscienza non c’è stata. Oggi si davano sulle verdure e sulle piante da frutto i prodotti chimici e all’indomani si raccoglieva e si portava al mercato a vendere. Senza farsi tanti scrupoli.
Sicuramente c’era tanta ignoranza ma anche molto approfitto personale e in molti si sono arricchiti. Poi magari l’hanno pagata anche loro con tante malattie per essere stati a contatto per anni con pesticidi e concimi chimici vari.
Sulla speranza e augurio che esprimi te:
mi trova completamente d’accordo con te. Ma la vedo dura.
“Un bell’esame di coscenza non guasterebbe ed ognuno assumersi le proprie responsabilità del degrado ambientale, e di una campagna sempre meno naturale esempre più ridotta ad industria intensiva.”
o Benassi, ti metti a fare il Crovella pure tu? scherzo, eh 🙂
LA gestione industriale di fenomeni una volta artigianali o familiari (allevamenti e agricoltura) è legata al profitto di pochi gruppi multinazionali.
Le persone ne sono vittime, l’unica autocoscienza che si può applicare è nelle scelte e nel consumo, nei limiti (troppi) che questa società consente.
il primo passo sarebbe affrancarsi da televisioni e telefoni, pubblicità e necessità indotte e in tal senso educare le nuove generazioni (proprio ciò che il sistema non vuole…) e anche in campo alimentare essere rivoluzionari.
Servirà a cambiare la rotta? boh.
Gli agricoltori, hanno sicuramente le loro ragioni,ma anche le loro resposabilità nel degrado ambientale.
Sono nato e cresciuto in campagna, in mezzo ai contadini , in mezzo ai floricultori, so benissimo cosa è stato gettato tra pesticidi, concimi chimici e diserbanti, per DECENNI nei campi per aumentare sempre di più la produzione di frutta, verdura e fiori. Frutta e verdura che doveva essere perfetta e sempre più grossa, gonfiata dai concimi chimici, altrimenti non si vendeva.
Un tempo la campagna era ricca di vita. I fossi pieni di pesci, ranocchi, ci potevi fare il bagno. Le fosse di scolo che delimitavano i terreni piene di lumache che si raccoglievano per essere mangiate.
Un bell’esame di coscenza non guasterebbe ed ognuno assumersi le proprie responsabilità del degrado ambientale, e di una campagna sempre meno naturale esempre più ridotta ad industria intensiva.
Expo, credo proprio che la risposta sia positiva, vista la mostruosa quantità di cibo che ogni giorno viene gettata.
In ogni caso, allevamenti e colture intensivi non sono certo una risposta valida ai fabbisogni alimentare, visto il continuo depauperamento di terra ed esseri viventi (animali e piante) a causa dei pesticidi.
Articoli interessanti.
Gli agricoltori in questi giorni protestano facendo valere il loro ruolo di “sfamatori” , ma l’agricoltura intensiva e’ diventata qualcosa di molto distante dal rispetto ambientale.
Spesso passando per le distese di campi in monocoltura nei dintorni di Milano ho la sensazione di visitare una fabbrica, una natura morta.
Da bambino qui c’erano girini , rane , spinarelli e una valanga di insetti , adesso la scienza agricola ha tacitato tutto in nome dei rendimenti crescenti.
Chissa’ se un’altra agricoltura con una produttivita’ dimezzata puo’ veramente sfamare un’umanita’ in crescita , o sono solo conti senza gli osti ?
pezzi interessanti. Tutto si tiene (dalle pista da bob ai trattori, passando per gli sport invernali, perché il cambiamento dovrebbe essere complessivo e dovrebbe riguardare l’individuo e il paradigma sociale, individuo che è invece allevato come uno schiavo consumatore.
Un cittadino cosciente è un pericolo per chi bada alla massimizzino del profitto.
“«Non si può ipotizzare un passaggio a diete sane senza reclamare alcun cambiamento nel paradigma dell’agricoltura chimica».Vandana Shiva”
Un mio vecchio scritto ancora attuale: https://www.isde.it/wp-content/uploads/2021/10/VERSO-UN-NUOVO-MODELLO-DI-AGRICOLTURA-ISDE-PN.pdf