Trump, Salvini & C.: chi ci salva dal negazionismo?
di Mario Agostinelli
(pubblicato su L’aria che tira sul pianeta, autoprodotto, novembre 2018)
Spessore 5, Impegno 2 , Disimpegno 2
I dati sulle migrazioni sono impressionanti: il Pianeta è sempre più privo di spazi per abitare e sopravvivere decentemente. Nel 2015 in totale il numero di persone che ha richiesto l’intervento dell’UNHCR ammontava ad almeno 35.833.400. Ma, soprattutto per quanto riguarda le stime degli “internally displaced” o degli apolidi, si deve tenere in considerazione che non tutti gli Stati mettono a disposizione le proprie statistiche. Dal 2015 i numeri, già allarmanti, sono cresciuti con un andamento esponenziale. L’esplosione è in atto anche dopo l’avvento ai governi delle formazioni più reazionarie degli ultimi 30 anni, tutte impegnate a respingere i migranti e a mostrare all’opinione pubblica dati scremati dalle morti e dalla riduzione alla clandestinità di gran parte di quanti varcano i confini presidiati.
A metà 2018 sono registrati come migranti in tutto il mondo 65,6 milioni di persone, un numero senza precedenti costretto a fuggire dal proprio Paese. Di queste persone circa 22,5 milioni sono registrate come rifugiati, più della metà con età inferiore ai 18 anni. Ci sono inoltre 10 milioni di apolidi cui vengono negati una nazionalità e l’accesso a diritti fondamentali quali istruzione, salute, lavoro e libertà di movimento.
Viviamo in un mondo in cui ogni minuto 60 persone sono costrette ad abbandonare le proprie case a causa di conflitti, persecuzioni e mutamenti ambientali che rendono inospitali i luoghi prima abitati. Lo stesso mondo assiste ai più disumani respingimenti, è permanentemente squassato da guerre devastanti, tollera in silenzio la tortura e le omissioni di soccorso.
Alcune delle democrazie più ricche e di antica tradizione che lo governano arrivano a considerare senza scandalo una complicità criminale contro lo straniero, sotto le spoglie di quel che viene definito “sovranismo”. Insomma, se guardiamo all’Europa dopo il fallimento del suo progetto costituzionale e l’indebolimento delle sue democrazie parlamentari, sedotte dall’intreccio tra governabilità e sistemi maggioritari, non possiamo che registrare un vero e proprio spossamento della funzione dello Stato, sbarrato nei suoi confini, piegato al populismo di destra (e di presunta sinistra) e, di conseguenza, non più presidio di democrazia, di uguaglianza e tantomeno modello di accoglienza.
Una modernità globalizzante in direzione univoca, dominatrice, insensibile alle disuguaglianze, incapace di risolvere i problemi posti dal suo funzionamento, mette in conto le guerre e, indirettamente, la propria decadenza, una volta che è giunta a considerare un problema e perfino un intralcio l’essere umano che sia “altro”, diverso. Se l’intera specie umana non abiterà più il futuro, ma traccheggerà sul presente, ci si ridurrà, come oggi già rischia di accadere all’Europa e alla civiltà occidentale, ad un quadro desolante in cui le emergenze non sono mai nominate per quel che sono e la “fine della crisi” sarà sempre inseguita come un orizzonte di esclusione e un atto di prevaricazione dei salvati – nei propri confini – sui dannati segregati al di fuori di illusone barriere ferocemente gestite.
Basterebbe – strombazza la grancassa dei governanti che occupano i media – maneggiare con sufficiente riverenza il feticcio della riduzione del rapporto tra debito e PIL, tenere a freno l’angoscia provocata dalla risalita dello spread e, a costo di tradire ogni parvenza di democrazia, disdegnare la solidarietà più spontanea e la partecipazione più feconda, pur di acconsentire agli insofferenti “padroni a casa nostra” il respingimento e l’abbandono dei profughi alla loro sorte. Il rischio dell’invasione sembrerebbe il tabù della nostra era, se si sta al racconto sguaiato dei Trump, dei Salvini e degli Orban, che dipingono le marce spossanti e i gommoni di disperati come una minaccia letale per le nostre plaghe, le nostre coste e financo per la smarrita integrità di quelle civiltà “sovrane”, che nel tempo passato non si sono mai sognate di chiedere il permesso di varcare confini altrui.

Quasi nessuno tra i maggiori mezzi di comunicazione di massa, TV, giornali, siti web, cerca di riprendere i fili di un ragionamento incentrato sul reale, sulla drammaticità della condizione generale: sociale, ambientale ed economica, che declina sempre più drammaticamente, frenando una rigenerazione del tessuto sociale e del mondo naturale. I segnali sono chiari: la povertà si sposa ad un disagio diffuso e ad un malessere sociale che si incunea tra differenti generazioni, mentre tumori per inquinamento, allerte meteo, alluvioni, catastrofi ambientali segnano la quotidianità.
Non è una permeabilità al catastrofismo che suggerisce queste considerazioni, ma la sorpresa di vedere trascurate le ragioni di un arretramento civile, palpabile nello sperimentare un malessere di fondo in gran parte delle persone con cui siamo in relazione. Quando gli abitanti del mondo ricco e gli italiani stessi si sveglieranno, capiranno che la sicurezza del futuro proviene dall’assimilare i segnali di un sensibile degrado e non nel perseguitare i richiedenti asilo. Di fatto negli ultimi anni le migrazioni sono assurte ad argomento principale dell’agenda politica locale, nazionale, europea e mondiale con il fine di distogliere l’attenzione dalle emergenze reali che avrebbero dovuto richiedere una considerazione prioritaria. Una strumentalizzazione riuscita, che ha portato a una perversa inversione dell’ordine del giorno su cui i governanti, i parlamentari e lo stesso elettorato si sarebbero altrimenti dovuti confrontare e che proverò a confutare nelle note che seguono.
La paura della paura viene amplificata a bella posta, suscitando tra i destinatari di una rappresentazione minacciosa e intenzionalmente evocata un desiderio irrazionale di rimozione. Se gli spettri esagerati a bella posta fossero esaminati al riparo dall’emotività, si rivelerebbero del tutto ammissibili e integrabili in una società civile e accogliente. Si tratta purtroppo di un male diffuso, inoculato nel nostro tempo da un pragmatismo rozzo e imprevidente che non affronta le contraddizioni sociali e ambientali nella loro gravità e che tiene campo grazie anche alla sconfitta storica delle correnti solidaristiche e dei movimenti per l’uguaglianza sociale, l’universalità dei diritti e per la cittadinanza del lavoro.

Queste forze sono da tempo in difesa e disattente verso la natura e la cura di essa, non diversamente da come lo sono stati i loro avversari. Il corrompimento dell’ambiente naturale è giunto così quasi inosservato, almeno per la gran parte del mondo politico e buona parte dell’opinione pubblica. In effetti, il potere, che non si basa espressamente solo sulla repressione, ma nutre anche una “libertà indirizzata”, ha esibito come solenni, ma visionarie e perciò inattuali, le valutazioni del mondo scientifico (ripetutamente chiamato in causa anche in assisi internazionali da Rio 1992 fino alla Cop 21 di Parigi) relegandole al rango di fastidiosi divieti ogni qualvolta queste risultassero in controtendenza con la propria concezione di sviluppo e di sfruttamento della natura.
Pur di mantenere una struttura politica ed economica tanto ingiusta e corrotta da alimentare le disuguaglianze sociali e provocare un crescente degrado della natura, i governanti più esposti alla rivalsa delle loro popolazioni tollerano le divisioni e le incerte ribellioni delle opposizioni, che non riescono a coagularsi su scala intercontinentale in una spietata critica anticapitalista o, tantomeno, in una azione di alternativa convincentemente propositiva.
Mai come oggi la forza comunicativa di tecnologie sofisticatissime a servizio del potere e del controllo dei cittadini ha operato per eliminare dalla scena le vere emergenze e per sostituirle con il terrore amplificato di fantasmi che una lunga esperienza democratica sembrava aver allontanato per sempre. Il negazionismo applicato al cambiamento climatico e la minaccia di invasione dei migranti sono andati – e vanno! – a braccetto per oliare un’arma di distrazione di massa molto efficace allo stato attuale.
Dall’insieme delle contraddizioni che ancora non provocano ribellioni, da un “presentismo” propinato in maniera sofisticata al punto da ingoiare il futuro, da una propaganda passivamente subita, trae carburante il populismo e il sovranismo a sfondo xenofobo e razzista. Negare l’evidenza è del tutto fattibile se non c’è risposta popolare alla trasgressione.

E così, mentre nel neoliberismo il grado di rendimento economico veniva assurto a scala con cui misurare la praticabilità minima di relazioni sociali basate sui diritti, anche le risorse naturali, indipendentemente dai tempi necessari alla loro rinnovabilità e dagli effetti nocivi associati alla loro trasformazione in merci e prodotti commerciali, venivano “prezzate” e immesse in processi governati dal danaro e sconsideratamente accelerati a velocità innaturali vicine a quella della luce.
Grandi opere indistinte nella loro utilità, un sistema energetico climalterante oltre ogni misura, un consumo di suolo e pratiche agricole e industriali che non tengono conto dei cicli naturali, sono stati difesi e perseguiti con determinazione, tranne rari casi, da destre e sinistre che si sono alternate alla guida dei governi nel mondo. I loro effetti sull’ambiente, la natura e il clima sono sempre stati sottovalutati, accantonati, negati.
Oggi continuare lungo lo stesso cammino sarebbe letale: fortunatamente le conoscenze e la cultura popolare stanno colmando il proprio ritardo, anche se reclamano troppo fievolmente rotte diverse, mentre il potere resta fermo nel proseguire fino in fondo sulla stessa breccia.
Per queste ragioni è ancora più pericoloso avere alla guida di una nave in tempesta i nocchieri più bolsi, inaffidabili e, al di là delle apparenze, inesorabilmente vincolati alle rotte del passato.
I Salvini da noi, come i Trump in un Paese tuttora leader nell’immaginario globale, inibiscono la creatività, l’immaginazione e la responsabilità che dovrebbero essere proprie di un’epoca così decisiva, piegandole verso una truce e animosa competizione, che dapprima lascia sul campo i più indifesi, ma, alla lunga, deluderà anche i loro elettori.
Il protezionismo esibito da Trump al recente G 20 in Argentina come cifra di un futuro attraente per il suo popolo offre una immagine di una barca che si salva da sola perché finge di non vedere la tempesta. Il sistema economico, il potere politico e il ricorso a tecnologie a servizio della globalizzazione hanno messo in conto profitti crescenti e una redistribuzione della ricchezza residuale esclusivamente a valle dei processi, lasciando a monte un profondo logorio della biosfera. Così profondo che, senza una svolta, la trasmissione della vita verrebbe ad essere preclusa oltre un numero di generazioni contabile sulle dita delle due mani.
L’allarme che dovrebbe seguire a così impressionanti previsioni e che richiederebbe una riscrittura delle priorità su cui intervenire, viene smorzato ad ogni costo per lasciare spazio ad interventi solo debolmente correttori caso per caso, nazione per nazione, senza reclamare impegni cogenti né comminare sanzioni che intacchino il congegno al cui livello si formano e sono messe in pratica le decisioni.
Nessuna solidarietà, né giustizia sociale o climatica possono scalfire un meccanismo che prevede il possesso nazionale, quando non individuale, della biosfera, fino a scoraggiare e accantonare qualsiasi prospettiva di lotta contro le disuguaglianze e il depauperamento della natura.

D’altronde, nessuna sorpresa: è il limite che ci dobbiamo aspettare da un sistema che punta al massimo profitto e che non può accettare che l’accento posto sulla cura del Pianeta sposti l’attenzione verso una questione del tutto irrisolta nel nostro tempo: la crescita a spese della natura, pur ossessivamente perseguita dai governi della globalizzazione e suffragata dai risultati elettorali di democrazie in crisi, non ha permesso di superare la piaga della povertà.
A questo punto, ci si chiede come la soluzione possa essere ricercata in una ulteriore restrizione dei diritti universali, accompagnata da un accelerato sperpero dei beni comuni. Non siamo forse giunti al culmine di una tendenza che non ha più di fatto le basi per un consenso sociale, una volta analizzata in tutte le sue implicazioni?
Le restrizioni della democrazia, la distorsione dell’informazione, l’alienazione del lavoro ridotto all’ossimoro di una “stabile precarietà” oppure espropriato e incorporato in macchine “intelligenti” (a dimostrazione che potere e conoscenza vanno di frequente di pari passo) danno subdolamente corda all’involuzione esposta. Si tratta di effetti inaspettati nella loro gravità, in parte sorprendenti per la cultura da cui proveniamo e non sempre immediati e perciò agevolmente rimossi dall’agenda politica.
Se non fossero occultati, si rivelerebbero evidenti e laceranti – ed è questa la novità da considerare – anche sul versante ecologico, sicuramente meno indagato, ma non meno importante di quello sociale, da ora in poi indissolubilmente connaturato.
Evidentemente e coerentemente con i loro obiettivi, le destre agiscono anche su un piano più vicino allo spaesamento individuale e hanno perciò motivo di dar spazio all’interesse personale immediato, ai desideri quotidiani inconfessati, alla brama di carriera e potere che si manifestano sotto l’aspetto di una mentalità servile e fedele dominata dai capi.
Si tratta di un assetto del comando che si chiude su se stesso, simulando con volgarità un interesse sociale e motivi umanitari a difesa del proprio gruppo.
Si tratta inoltre di un circuito che risulta ben “sigillato” dopo la crisi della partecipazione democratica e che non si spezza solo con le prediche sui valori traditi.
Il legame che si stabilisce tra il cittadino e un capo cui si è consegnata la propria volontà in nome della fedeltà, può essere ricondotto alla pratica della democrazia solo avendo presente le delusioni procurate da promesse mancate e promuovendo l’innovazione sul piano dei contenuti e degli interessi che renderebbero credibile e praticabile un’alternativa.
Chi sta al vertice e comanda con arroganza non va criticato solo per i metodi e i comportamenti spesso insolenti, bensì per gli obiettivi che si dà spacciando i principi del liberismo più bieco al riparo del negazionismo più grezzo.

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Ok ok però teniamo presente una cosa, la popolazione del globo è in costante aumento.
Anche a voler essere buoni e bravi e anche se le ricchezze fossero ben distribuite di questo passo continueremmo ad essere seduti su una bomba ad orologeria, sarebbe solo una questione di tempo.
Bisogna ritrovare un equilibrio fra le nascite e le morti perchè dagli anni settanta ad oggi (e quindi parliamo di mezzo secolo scarso) la popolazione umana è più che raddoppiata.
Pertanto, o il numero degli abitanti cala o rimane almeno stabile o altrimenti bisognerà veramento cercare altri pianeti o satelliti da colonizzare.