Tutti i colori del vento

Sapevo dell’uscita di Tutti i colori del vento, come pure sapevo che l’autore non avrebbe potuto sfogliarlo appena stampato: l’amico Giorgio Bertone è infatti mancato ai primi di gennaio di quest’anno 2016.

Quando ne ho ricevuto una copia dalla moglie Anna, l’ho presa in mano un po’ incerta, come mi succede ogni volta che esamino un libro che so postumo.

Perché leggere gli ultimi pensieri di qualcuno che stimi è un’emozione impagabile, l’unica in grado di alleviare un poco il dolore per la perdita.

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Questa volta Bertone racconta di un suo viaggio in barca da Port Stanley nelle Isole Falklands alla South Georgia, con lo scopo di ripercorrere il mitico Traverse di Ernest Henry Shackleton e compagni, dalla baia di Re Haakon (costa meridionale) alla stazione baleniera di Stromness (costa settentrionale).

Lo Schakleton’s Traverse è oggi meta di trekking che richiedono una grande preparazione, capacità e soprattutto rassegnazione in caso di molto probabile fallimento.

La traversata è stata ben documentata nel film del 2001 di George Butler Shackleton’s Antarctic Adventure, con protagonisti del calibro di Reinhold Messner, Stephen Venables e Conrad Anker: un follow-up di The Endurance: Shackleton’s Legendary Antarctic Expedition (2000), dello stesso regista.

 

L’avventura di Shackleton (da wikipedia)
Dopo il raggiungimento del Polo Sud da parte di Roald Amundsen e un mese dopo da parte di Robert Falcon Scott, l’unica conquista di prestigio che rimaneva era la traversata del continente antartico.

Conrad Anker, Reinhold Messner e Stephen Venables nel 2000, durante la lavorazione del film Shackleton’s Antarctic Adventure
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La spedizione Imperial Trans-Antarctic Expedition era partita da Londra il 1º agosto 1914, tre giorni prima che l’Inghilterra dichiarasse guerra alla Germania, con a bordo Shackleton e altri 27 uomini. La nave Endurance rimase ancorata a Grytviken (Georgia del Sud) per circa un mese e salpò diretta verso il mare di Weddell il 5 dicembre del 1914; il 10 gennaio 1915 la nave lo raggiunse, ma il 19 dello stesso mese rimase incastrata nel pack.

La nave, imprigionata nei ghiacci, andò alla deriva da 77° S a 61° S; il 21 novembre fu completamente distrutta dalla pressione del ghiaccio. Shackleton fece trasferire l’equipaggio sulla banchisa in un accampamento d’emergenza chiamato Ocean Camp, dove rimase fino al 29 dicembre quando tutti si trasferirono, trasportando al traino tre scialuppe di salvataggio, su di un lastrone di banchisa in quello che chiamarono Patience Camp.

Shakleton’s Traverse, l’itinerario seguito da Shakleton, Crean e Worsley per raggiungere un centro abitato e la salvezza
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Fino all’8 aprile 1916 rimasero sulla banchisa e quando questa iniziò a sciogliersi tentarono di raggiungere, a bordo delle scialuppe, l’isola Elephant. Dopo una navigazione molto difficile, raggiunsero la costa dell’isola il 15 aprile del 1916 (498º giorno della spedizione). Le probabilità di ritrovamento e soccorso erano nulle, quindi Shackleton decise di raggiungere, utilizzando la scialuppa in condizioni migliori (la James Caird), la Geogia del Sud (distante 870 miglia marine, circa 1.600 km) assieme a cinque uomini per cercare aiuto. Salparono il 24 aprile 1916 e riuscirono ad attraccare nella parte meridionale dell’isola (baia di Re Haakon) dopo 15 giorni di navigazione in condizioni meteorologiche abominevoli.

Sir Ernest Henry Shakleton
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Shackleton, assieme a Tom Crean e al fotografo Frank Worsley, riuscì in 36 ore ad attraversare 30 miglia di montagne e ghiacciai inesplorati della Georgia del Sud (fu il primo attraversamento dell’isola) per raggiungere la stazione baleniera di Stromness situata sulla costa settentrionale, dove giunsero il 20 maggio. Da lì Shackleton organizzò il soccorso dapprima dei tre uomini rimasti alla baia di Re Haakon, poi degli uomini rimasti sull’isola di Elephant che furono tratti in salvo, al quarto tentativo, il 30 agosto del 1916 col rimorchiatore cileno Yelcho.

L’impresa di Shackleton, che nonostante le incredibili traversie non perse nemmeno un uomo, fu per lungo tempo oscurata dall’attenzione dedicata alla quasi contemporanea sfortunata spedizione di Scott. Solo in epoca molto più recente le difficoltà incontrate nel 1964 dalla Combined Services Expedition che aveva l’obiettivo di esplorare la Georgia del Sud e la richiesta di evacuazione d’emergenza da parte di alcuni uomini dello Special Air Service britannico coinvolti nell’operazione Paraquet e rimasti bloccati dalle avverse condizioni meteo sul ghiacciaio Fortuna nel 1982 (evacuazione che costò ai britannici la perdita di due elicotteri Westland Wessex), fecero comprendere la reale portata della traversata effettuata da Shackleton.

Chi volesse approfondire la vicenda Shackleton può consultare l’apposito capitolo di wikipedia https://it.wikipedia.org/wiki/Spedizione_Endurance, nel quale è presente anche la corposa bibliografia.

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Tutti i colori del vento
Un primo esempio di come le difficoltà ambientali di quelle lontane regioni possano condizionare qualunque volontà di successo piuttosto che attentissima programmazione, Bertone ce lo fornisce nelle prime pagine del libro quando racconta, durante la lunga traversata sulla barca Australis, l’impossibilità di transitare vicino, dato il tempo, alle famose Shag Rocks, curiosissimi scogli messi in fila nell’immenso oceano che emergono nel nulla dell’orizzonte: “Non li vediamo. La nostra rotta passa qualche decina di miglia più a sud di questi isolotti fantasma, un immenso dinosauro, della specie degli spinosauri con il dorso a cresta. Fare un bordo in più allungando la navigazione fino a quella scogliera, sarebbe pericoloso e inutile. Fuori la bufera ci avvolge come in un bozzolo. Visibilità ridottissima. Perciò siamo incollati alle foto su internet…”.

Lo stile di Bertone conduce il lettore nel meraviglioso mondo della fantasia, quasi lo costringe a fantasticare. Il suo scopo è quello di pennellare impressioni, come se il narratore esprimesse le sue sensazioni proprio nel momento in cui apprende informazioni nuove su ciò che lo circonda, talvolta con note di humor britannico-genovese sicuramente dovuto alla terra natia dell’autore ma anche alla compagnia di viaggio, una maggioranza inglese su lontane terre comunque suddite della Regina.

Un esempio tra tanti di questo humor? Allorché Bertone racconta la “riconquista” di Grytviken, il capoluogo della South Georgia, da parte delle truppe inglesi a spese degli occupanti argentini nella guerra lampo del 1982, scrive: “I marines erano poi sbarcati senza colpo ferire nella Baia. Del tutto superfluo l’assalto notturno delle forze speciali cui prudevano sempre le mani, che in prossimità della spiaggia, scorgendo delle ombre agitarsi, spararono a raffica. Non udirono, stranamente, il rumore dei proiettili rimbalzanti sulle rocce. Le esplosioni erano state infatti assorbite dal grasso adiposo degli elefanti marini maschi che stazionano a King Edward Point da secoli, sempre in rissa tra loro, e che ora sanguinavano per una causa a loro del tutto sconosciuta…”.

Le Shag Rocks
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Uno dei capitoli più belli del libro racconta di come Shackleton e il suo documentarista Worsley salvarono le immagini della spedizione, ma anche di come Scott, ormai certo di morire, fino all’ultimo scrive sul suo diario.

L’autore snobba dichiaratamente l’immagine e privilegia il testo. Che, a sua volta, è sempre essenziale, sia quando racconta fatti precedenti alla sua esperienza (la guerra delle Falklands piuttosto che l’avventura di Shakleton) sia quando tratteggia piccoli e grandi eventi del suo viaggio, oppure quando semina un aggettivo o un avverbio per dipingere il carattere di un compagno o del Capo.

Questo modo di scrivere è voluto, accurato: teso allo scopo di incuriosirci e farci lavorare di fantasia. Lo definirei understatement (attenuazione), ancora una volta britannico-genovese.

Un momento dello Shackleton Traverse. Foto: Giorgio Bertone
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Citando ancora l’autore: “Tuttavia le storie, gli aneddoti, le leggende, i filmati, le foto, i dati scientifici crescono nella narrazione degli uomini in proporzione al sentimento ansioso di ritrovare in un Continente intero la riserva reale e immaginaria dell’umanità. Dagli inizi del Novecento gli esploratori di prima, seconda e terza generazione hanno inventato, ognuno, itinerari, sfide, prove differenti con differenti regole, come cavalieri antichi che disdegnano norme precise universali, ma inventano regole proprie ed eleggono l’umanità a sponsor”.

Oggi è infatti assai difficile, se non si è originali, scrivere di un viaggio breve: per di più in un ambiente che trasuda avventura epica (Shackleton, Scott, ecc.) e comunque in un’epoca e in una cultura che risente della fondamentale lezione di Bruce Chatwin. Chi non ha letto In Patagonia o Che ci faccio qui? lo faccia in fretta… Direi che Bertone c’è riuscito, grazie alla sua essenzialità che ha fatto da passaporto.

Sentite cosa dice in proposito, evidentemente scrivendo di se stesso: “Né studioso di miti, né storico, il pellegrino senza nome conosce l’umiltà. Disfa la tela e la ritesse con diversa figura e composizione e inserimento di un filo esile che lo riguarda”.

Un momento dello Shackleton Traverse. Foto: Stephen Venables
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Bertone, nel suo viaggio, con la sua personalità e con il suo carisma, ha tenuto testa alla maggioranza britannica che lo circondava. Tra le altre scorribande culturali, leggete cosa scrive a proposito del Regno Unito e degli “odiati” argentini: “(La South Georgia è) una riserva naturale della biosfera che gli inglesi mantengono come il più selvaggio e ghiacciato dei giardini. Si sono permessi laggiù delle Riserve nazionali. Le Falklands sono invece una sorta di Riserva nazionalistica. Quando l’Inghilterra diventerà una Banca finanziaria unica in un unico grattacielo esteso per tutto il suo territorio, con i nuovi coolies multietnici nei sotterranei, ogni tanto qualcuno dei suoi abitanti britannici verrà a fare una visitina laggiù per riassaporare la fisionomia degli oggetti, delle vetture, dei relitti di nave, del colore del vento vero, delle old fashioned battles e dei volti dell’antico paese. E porgere sottovoce un saluto grato agli argentini, i migliori alleati di sempre…”.

E, poche righe sotto: “Quando chiacchiero di queste cose con gli inglesi, mi rispondono “What a curious theory”, che non sai mai se approvano, se rifiutano oppure sono in imbarazzo di fronte all’immagine paradossale dell’Argentina fedele alleato…”.

Giorgio Bertone
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Tutti i colori del vento ultima modifica: 2016-07-08T05:06:23+02:00 da GognaBlog

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3 pensieri su “Tutti i colori del vento”

  1. È un libro magnifico, divertente e commovente.
    Un libro per viaggiatori, scialpinisti, velisti che non siano SOLO viaggiatori, scialpinisti e velisti.

  2. Giorgio aveva chiesto anche a me della South Georgia (un mio pallino da sempre), forse per andarci con degli italiani.
    Poi non se ne fece nulla, ma al suo ritorno il suo entusiasmo mi aveva ancor più convinto, infatti ci riprovo nel 2017 a mettere insieme un gruppetto per questa destinazione.
    Sullo humor british-genovese non ho dubbi, anzi, penso che siano stati i britannici a rubarcelo e il libro, non vedo l’ora di leggerlo.
    Macajaaaa, scimmia di luce e di follia, colori pesci Africa, sonno, nausea e fantasia.

  3. Bella questa tua recensione! Io ho dovuto purtroppo limitarmi allo spazio esiguo della rubrica su Montagne360, ma il libro – con il suo humour “britannico-genovese” come lo definisci e le sue incursioni nei mondi della fantasia, oltre che di una solida cultura – è davvero speciale.

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