Ulvetanna: tra le fauci del lupo

Ulvetanna: tra le fauci del lupo
di Andy Kirkpatrick

Postato originariamente il 28 febbraio 2014 su Alpinist.com.

Tra il 20 gennaio e il 3 febbraio 2014, cinque norvegesi e l’alpinista britannico Andy Kirkpatrick hanno salito in capsule style per 27 lunghezze la cresta sud dell’Ulvetanna, già tentata tre volte, nella remota Queen Maud Land (Antartide). Qui Kirkpatrick ci racconta con stile brillante il loro successo.

Ero in crisi alpinistica. Un viaggio alle Torri del Paine in Patagonia cancellato… e nessun segno all’orizzonte di possibilità di altre avventure. Finalmente una email sul mio telefono: “Andy, penso di avere un bel progetto per te. Queen Maud Land. Partenza il 15 dicembre, ci servi, ti pago i costi, serie-tv, 2 mesi. Avventure multisport, cioè alpinismo con prime ascensioni e BASE jumping. T’interessa“?

La mail arrivava dal leggendario alpinista norvegese Aleks Gamme (uno che si butta col paracadute, traversa con gli sci da solo l’Antartide, sale sull’Everest, ecc.). Ci avevo salito assieme una via sulla Troll Wall nel gennaio 2013. Era una mail di quelle che ti sogni, ma quando ti capitano ti chiedi se hai le balle per andare davvero… Spostai lo sguardo dal computer sui miei bambini.
– Ella, Ewen, mi hanno chiesto di andare in Antartide per due mesi… se vado non posso fare il Natale con voi.
Mi accolsero con un “nooooo” molto prolungato.
– Sarebbe con Aleks Gamme.
– Davvero? – domandarono, avendo visto Aleks nel film Crossing the Ice al Kendal Mountain Festival l’anno prima – beh, allora devi andare, se te lo ha chiesto lui!
E così ho fatto.

L’Holstinnd e l’Ulvetanna, Fenriskjeften Mountains, Antartide. Ingeborg Jakobsen, Andy Kirkpatrick and Jonas Langseth hanno salito una via nuova, Zardoz (5.9, A4, ca. 600 m), sul pilastro di destra dell’Hollstinnd, quello contro cielo che si diparte dall’intaglio con il versante meridionale dell’Ulvetanna. Foto: Ingeborg Jakobsen
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Zardoz
Andai in Norvegia a metà dicembre per incontrare il resto della squadra. I BASE jumper Kjersti Eide ed Espen Fadnes, la camerawoman Ingeborg Jackobsen, Jonas Langseth, uomo da 8a+ su roccia e ice climber, e Aleks naturalmente. Non avevo ancora capito bene quale fosse il programma, ma di certo comprendeva BASE jumping, speed riding, climbing e traino di slitte per esplorare il massiccio.  Mi sentivo un po’ in colpa per non aver contribuito per nulla alla preparazione del viaggio. E’ vero che abito in Gran Bretagna, però… Vabbè, restituirò il favore una volta là.

Fummo lasciati dall’aereo proprio nel mezzo delle famose torri, disposte a bocca di lupo. Le Fenriskjeften Mountains sono un sogno per qualunque scalatore. Quando l’aereo decollò per il ritorno, e soprattutto quando fummo in solitudine, noi lì, con il nostro mucchio di materiale, sopportavamo a malapena un silenzio così mostruoso. Roba da desiderare d’essere in mezzo al traffico…

Campo a portaledge sulla parete ovest dell’Holstinnd. Foto: Andy Kirkpatrick
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Erigemmo il campo base cercando di adeguarci, di concentrarci sui nostri obiettivi. Dopo un viaggio di cinque giorni per salire quella che pensavamo essere la cima più alta del gruppo (solo per scoprire che ce n’era un’altra più alta!), cominciammo a salire sul nostro primo progetto, la parete ovest dell’Holstinnd. Salimmo 10 lunghezze di corda in altrettanti giorni, rallentati da pesanti nevicate. Il terreno stava tra un A4 pericoloso e uno Scottish 7 di arrampicata mista, sulla peggior roccia che io abbaia mai incontrato (una via di mezzo tra il pane raffermo e il formaggio invecchiato): ogni tanto qualche camino orribile. Feci così tanti incastri di gomito da rovinare totalmente le maniche della mia giacca, e inoltre scoprii che anche il friend più grosso che si possa portare lascia ancora spazio tra un camino proteggibile e un camino in cui incastrarsi!

Ingeborg Jakobsen si fa strada sulle rocce innevate dell’ottavo tiro di Zardoz. La via è di dieci lunghezze su roccia pericolosa e innevata, e ha richiesto dieci giorni. Foto: Andy Kirkpatrick
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Jonas e io scalammo la via e la chiamammo Zardoz dal film (1974) con Sean Connery, perché il popolo in quel film di fantascienza adorava una grande testa di pietra. La salimmo in capsule style da un singolo campo a portaledge. Uno spit da 10 mm segna ciascuna sosta. Non mettemmo altri spit, ma fummo costretti a scavare una dozzina di “inviti” per alloggiare i cliff (non c’era verso di trovarne uno che non si rompesse). Mi toccò anche fare un volo di 10 metri dal passo cruciale, dopo che un Tomahawk venne via dopo che c’ero stato sopra una decina di minuti. Fortunatamente più sotto mi tennero due spuntoni appaiati da cordini.

Tre tentativi, tre fallimenti
Ci furono giorni davvero freddi (-30° e anche più), cominciavamo a capire che qui in Antartide ogni cosa è più lunga, più alta, più difficile, più fredda e anche “più” estrema di quanto sembri alla prima. Con questo in mente, ci preparavamo per il nostro obiettivo principale: l’inviolata cresta sud dell’Ulvetanna.

Ulvetanna da sud. Il gruppo ha scalato questa parete in 27 lunghezze in due settimane, e ha graduato la via 5.10, E2 e “AA1+.” La doppia sigla AA, spiega Kirkpatrick, sta per “Artificiale Antartide”, una nuova graduatoria che lui consiglia di considerare di fronte alla roccia marcia dell’Antartide. Foto: Ingeborg Jakobsen
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La cresta sud era stata tentata almeno tre volte (da una spedizione spagnola, da una francese militare e da un team norvegese diretto da Robert Caspersen). La via si presenta con 300 metri di muro, seguito da una lunga cresta rocciosa, assai tecnica, di roccia o marcia o friabile! I nostri predecessori avevano attrezzato la prima parte e poi tentato di raggiungere la cima in un solo balzo.

Robert Caspersen era quello che era giunto più in alto, ad appena tre lunghezze dalla vetta. Caspersen era l’uomo che aveva già due prime su questa montagna, la conosceva bene. Ci chiese di non provare quella via, a meno che non scegliessimo il modo più etico per salirla: niente spit, e in un colpo solo dalla base. Io condividevo queste idee, ma sapevo anche che linee simili (la via dei Norvegesi dello stesso Caspersen , 5.10, A4, 960 m, Eiszeit dei fratelli Huber (A4, 5.10d, 24 lunghezze) sulla cresta nord-ovest e naturalmente anche l’ultima, la cresta nord-est (5.12, A2, 1750 m, del team di Leo Houlding) erano state salite in capsule style, e questo voleva dire corde fisse e qualche spit. In più, sapevo che il grosso di questo compito era sulle mie spalle e che, se volevamo arrivare tutti in cima, occorreva impiegare le stesse tattiche.

Così pianificai di salire in più fasi, bisognava anche sgrezzare Kjersti ed Espen. Il culmine della fase uno fu il completamento del trasporto di qualche centinaio di kg (cibo, carburante e roba da bivacco sufficienti per 6 persone per 14 giorni) ad almeno 300 m dalla base. Dopo aver lavorato 24 ore consecutive, alla sera eravamo tutti sfiniti e letteralmente ci trascinammo nei sacchi piuma.

Il giorno dopo Aleks e Jonas arrivarono, portando su le corde fisse da usare nella parte superiore e togliendole da quella inferiore in modo da rendere impossibile una ritirata, a meno che non la si intendesse definitiva. Jonas dovette però scendere, intossicato da cibo su cui i cani avevano orinato al campo base.

Il giorno 13 ero in testa, arrampicando su una prua di roccia che non ero sicuro di poter salire in libera. Tutti gli appigli che saggiavo si sgretolavano. Più o meno a metà trovai un incavo, grosso giusto come me. Nel corso della spedizione calai il mio peso del 15%, perciò ero contento di averlo trovato alla fine della spedizione, non all’inizio. Una volta dentro, salii a una rampa di neve e arrivai a una piccola terrazza orizzontale, circa 30 metri di rocce facili sotto alla vetta. Fissai una corda e tornai al campo sotto, volevo che arrivassimo in cima tutti assieme. L’attesa in tenda fu un po’ penosa, bevendo tè. La cresta comportava del terreno misto, mi domandavo se ancora una volta ogni cosa potesse andare bene, cioè raggiungere tutti la vetta su quelle corde fisse.

Tentato di saltare
Quindi alle sette di mattina del 2 febbraio, Aleks entra con la testa dentro la tenda: – Ragazzi, c’è una fregatura. Ho appena parlato con Oleg, a Novo. C’è una tempesta in arrivo. Gli ho detto che siamo su alti e lui mi ha raccomandato di scendere subito!

Le nuvole si erano formate attorno alle montagne, anche se le previsioni davano ancora un giorno di bello. Feci l’esame della situazione. Dopo tutti quei giorni, ero a pezzi di fisico. Le dita avevano perso sensibilità, avevo dei principi di congelamento al naso e alle guance, dopo essere stato così tanto tempo in camini e fessure senza sole. Sentir dire al russo di Novo, notoriamente un duro, di tornare subito era davvero preoccupante. Non era la prima volta che mi trovavo intrappolato dal brutto tempo su qualche parete. Ogni volta sopravvivere è stato anche fortuna. Qui, con questo team, in una tempesta antartica, qualcuno, o magari anche tutti, poteva non farcela. Almeno preservando interi dita e nasi.

– Penso che dovremmo darci una mossa – dissi – per salire la vetta, ripulire la parte superiore delle corde da usare in basso prima che la tempesta arrivi, dovremmo lavorare tutta la notte e tutto domani.
– E io penso anche che voi non possiate saltare – disse Aleksa ai BASE jumper. Nessuno parlò per un attimo, poi Espen chiese perché, e gli fu spiegato. Avrebbe voluto dire dividere in due il team e la dotazione di telefoni satellitari, per non dire che avrebbero dovuto atterrare sull’altro lato della montagna senza squadra d’appoggio. Certo per Elten fu un brutto colpo, ora che si sentiva così vicino a realizzare il suo sogno.

– Cosa pensa Andy? – e tutti gli occhi erano su di me. Non volevo fare quel genere di scelta, ma se doveva arrivare una tempesta li volevo con me. In più, ero convinto potessero consolarsi: ormai non erano più solo BASE jumper, erano amici di cui ero responsabile. Ero terrorizato che questa bella e pazza esperienza potesse voltare a tragedia.
– Vorrei che scendeste con noi – dissi. Ed Espen: – Ok. E perfino, quando partirono, lasciarono lì l’equipaggiamento, per non essere tentati all’ultimo momento.

Così, fatta colazione, a uno a uno partimmo sulle corde fisse. Salendo in alto, il tempo tendeva a schiarirsi. Io mi dissi, cazzo, questi potevano saltare! Dopo un po’ di ore arrivai all’ultima lunghezza, gli altri dietro di me in fila. Affrontai gli ultimi metri, facili rocce e neve fino al blocco sommitale. Fu dura fino all’ultimo, sarà stato anche facile, ma provocare cadute di sassi era un attimo. E non potevo proteggermi.

E finalmente ci fui. Una cima fatta di un pinnacolo di rocce rotte, la circondai con la mia corda per assicurare me stesso e gli altri. Stemmo un po’ lassù, alla cima di quella via nuova  su quella montagna che era stata definita la più difficile del mondo (soprattutto per la sua location). Ci sentivamo tutti allo stesso modo, malinconici e senza energie. Se avessero avuto il loro equipaggiamento, i ragazzi avrebbero potuto saltare. Le condizioni erano perfette, eravamo in un altro mondo. Ma non sentivo il successo, come sempre mi succede volevo solo andarmene via da lì…

Trentasei ore dopo la sveglia, riuscimmo ad arrivare, sfiniti, al campo base. La discesa con gli sci era stata penosa, eravamo concentrati a non cadere, sentivo rumori di automobili, torrenti, gente che parlava. Ma nello stesso tempo ero ben lieto e sicuro di una cosa: tutti eravamo saliti in cima, ed eravamo tornati con le dita a posto!

Aleksander Gamme nella parte superiore dell’Ulvetanna. Kirkpatrick e Gamme, con Tormod Granheim, avevano salito Suser gjennom Harryland (VI 5.10b A3, 650 m) sulla Troll Wall (in Norvegia) a gennaio 2013. (Vedi su Alpinist 44 il racconto di Kirkpatrick) Foto: Ingeborg Jakobsen
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I BASE jumper Espen Fadnes e Kjersti Eide salgono a jumar sulla cresta sud dell’Ulvetanna. Per loro è stata la prima esperienza big-wall e per la Eide la prima scalata in assoluto! Foto: Ingeborg Jakobsen
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Kirkpatrick ha voglia di staccare il tutto e mollarlo giù (dopo 300 m di faticoso scarrucolamento). Foto: Ingeborg JakobsenUlvetannaKirk05

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Kjersti Eide è ben contenta di prendersi la sua dose di roccia cattiva sull’Ulvetanna. Foto: Andy Kirkpatrick
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Per saperne di più su Andy Kirkpatrick (in inglese) o sul suo libro Psyco vertical, tradotto in italiano.

postato il 1 aprile 2014

 

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Ulvetanna: tra le fauci del lupo ultima modifica: 2014-03-31T21:37:54+02:00 da GognaBlog

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2 pensieri su “Ulvetanna: tra le fauci del lupo”

  1. In che senso da risistemare la traduzione? Ti prego, se hai osservato inesattezze, di riportarmele. Grazie!

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