Claude Claudio Barbier è stato, senza timore di smentita, uno dei più grandi arrampicatori solitari delle Dolomiti.
Scontroso ma non arrogante, caratterizzato da una veemenza incompresa e da una gentilezza inespressa, Barbier possedeva un’etica ferma ma talmente garbata da evitare ogni scontro pubblico e ha inanellato durante le sue estati in Dolomiti – arrampicando praticamente senza sosta, ogni giorno – imprese visionarie.
Nel suo modo di scalare, solo e veloce, ha condensato vent’anni di profondi cambiamenti nello stile e nella storia dell’arrampicata moderna. Dal 1957, anno della sua prima apparizione in Dolomiti, al 1977, quando morì senza spiegazioni nella falesia di Freyr, in Belgio – dov’era nato e dove viveva quando non frequentava l’Italia – Claudio si è rivelato dirimente per tutto quello che sarebbe venuto dopo, ma non ha mai ottenuto il riconoscimento che meritava.
Dal primo concatenamento in velocità nella storia dell’arrampicata – siglato da Barbier nel 1961 sulle cinque pareti nord delle Tre Cime di Lavaredo – all’apertura dell’ancor oggi temuta Via del Drago in Lagazuoi: il libro Dimmi che mi ami. Le Dolomiti di Claudio Barbier (144 pagg., 20 Euro, ISBN 978 88 55471 855, Versante Sud, 2024) intende ripercorrere le tracce lasciate da Claudio sulle montagne che lui stesso amava alla follia. L’intento è quello di rendere finalmente giustizia alla sua impressionante attività e scongiurare il rischio, oltre che l’errore, di relegare la sua figura così decisiva all’oblio.
L’autrice, Monica Malfatti, è nata a Trento il 29 aprile 1996, ama la montagna per osmosi e ne scrive da quando ne è capace.
Laureata in Filosofia e linguaggi della modernità, lavora da freelance nell’ambito della comunicazione, collaborando con diverse testate giornalistiche e occupandosi di vari uffici stampa. Nel 2020 ha pubblicato Destino ridicolo. Fabrizio De André ascoltato da una filosofa (Marco Serra Tarantola Editore). Dal 2022 è addetta stampa per il Soccorso Alpino e Speleologico Trentino. Dal 2023 è Accompagnatrice di Media Montagna.
Un altro “fallito”?
di Giuseppe Gervasio
La storia dell’alpinismo, anche recente, è veramente interessante e, alle volte, offre degli spunti inaspettati. Alcuni personaggi che per la loro abilità e capacità hanno occupato un posto di rilievo negli annali, offrono delle visuali del loro carattere e temperamento che potrebbero mettere assolutamente in discussione tutta la narrazione che li riguarda.
La mia conoscenza di Claude Barbier risaliva a parecchi anni fa quando lessi con interesse il piacevole libro La via del drago, scritto dalla sua ultima compagna di vita e di montagna, Anna Lauwaert. Nel libro viene descritta la carriera alpinistica di Barbier e la loro storia d’amore. Il titolo lo ricorda quale apritore della famosa ed omonima via sul Lagazuoi, caratterizzata, a detta dei ripetitori, da una libera “spinta”: questa apertura voleva essere una risposta alle critiche espresse da Reinhold Messner sulle vie in artificiale nel famoso articolo L’assassinio dell’impossibile, tra le quali quella aperta appunto da Barbier e compagni sulla Cima d’Ambiez (la via degli Strapiombi), veniva portata alla ribalta come esempio negativo.
Barbier è stato, in prevalenza, un rocciatore e specialista delle Dolomiti, che si è dedicato molto alle salite in solitaria, per sua scelta ma, molto spesso, anche per la difficoltà a trovare compagni di scalata, considerato il lungo periodo, da giugno a settembre, che tutti gli anni passava tra quelle montagne. Fu anche il precursore dei “concatenamenti”, a cui diede inizio con il notevole exploit delle salita in giornata di cinque vie di alta difficoltà, in solitaria, alle Tre Cime di Lavaredo. Malgrado la sua preferenza indiscussa per le Dolomiti, non disdegnò, anche se aveva una sua naturale diffidenza verso la neve e il ghiaccio, alcune salite di rilievo nel gruppo del Monte Bianco, tra cui lo Sperone Walker alle Grandes Jorasses e le classiche vie di Bonatti al Grand Capucin e al Dru.
Insomma, un vero talento naturale, innamorato dell’Italia al punto di farsi chiamare Claudio, e che avrebbe anche potuto avere una fama maggiore nell’universo alpinistico se, per circostanze sfortunate, non avesse dovuto abbandonare la salita di quel mitico diedro della Punta Tissi del Civetta salito da Walter Philipp e Dieter Flamm. Infatti, per il tentativo di prima salita partirono due cordate: quella di Philipp e Flamm, che la portarono a termine, e quella di Barbier e Dieter Marchart. A circa metà salita, una scarica di sassi colpì Marchart che, impossibilitato a proseguire, costrinse anche Barbier alla ritirata.
L’esperienza umana di Barbier si concluse tragicamente a soli 39 anni, a causa di una caduta mentre arrampicava sulla falesia di Freyr in Belgio, nella quale era di casa.
L’alpinista Barbier non si discute ma l’uomo Barbier come era? Formulare giudizi sulle persone è sempre problematico e complicato, ancora di più se non se ne ha una conoscenza diretta. In questi casi si dovrebbe ricorrere a ricerche personali per cercare di comporre un giudizio che non sia influenzato da altri, ma ciò molte volte è impossibile o difficoltoso e allora ci vengono in aiuto gli scritti personali del protagonista, se disponibili, e i libri scritti su di esso.
Di un libro abbiamo già accennato in precedenza, a cui bisogna aggiungere il recente saggio appena uscito Dimmi che mi ami di Monica Malfatti che cerca di fare luce sulla persona Barbier e sulla sua attività alpinistica nelle Dolomiti. Barbier risulta essere una persona dal carattere abbastanza difficile e instabile. La sua continua ricerca di compagni di salita, per conseguire gli obiettivi alpinistici che perseguiva, lo portava ad avere contatti con molti alpinisti, ma il rapporto personale, il più delle volte, si interrompeva a salita conclusa. Al di fuori della montagna, non sembra avesse relazioni sociali degne di rilievo, concentrato come era sulle scalate e sul mantenimento della forma atletica necessaria per portarle a compimento. Non aveva mai lavorato e quindi mancava anche di questo tipo di rapporti: il suo “universo” era costituito dalla montagna e dalla sua passione per i libri e coltivava l’idea, non portata a compimento, di aprire con Anna una libreria.
Non è mia intenzione fare una recensione del libro in questione ma porre all’attenzione un passaggio, a mio parere molto significativo, che riguarda Barbier, anche questa volta scritto dalla stessa Anna Lauwaert, nel suo contributo presente all’interno del medesimo: “ … Claudio non era stato un rivoluzionario di sinistra, un Che Guevara dell’alpinismo, bensì un fallito figlio di borghesi mantenuto dai propri genitori fino alla morte. Tanti lo conoscevano per le sue salite ma pochi sapevano di questo aspetto della sua vita”.
L’affermazione è veramente forte, ma come dubitare della buona fede di Anna e della conoscenza profonda del suo compagno di vita che aveva?
Questo aspetto, unito ai tratti salienti che emergono del carattere di Barbier ed alla sua condizione umana, mi hanno ricordato quanto aveva scritto parecchi anni fa Gian Piero Motti, in un suo memorabile articolo dal titolo I falliti sulle persone che avevano come unico scopo di vita quello dell’alpinismo e della montagna. Le analogie sono molte con il prototipo del “fallito” descritto da Motti con cognizione di causa in quanto, in un periodo della sua vita, aveva anche lui vissuto questa esperienza.
Ecco, l’uomo Barbier risulta allora un po’ inquietante, al punto che la stessa Anna decise di approfondire la sua personalità in un secondo libro, scritto in francese e mai pubblicato in Italia.
Il titolo è anch’esso emblematico Le grimpeur maudit: con questo appellativo Barbier gradiva essere chiamato, in analogia con i “poeti maledetti” francesi che non riconoscevano, anzi disprezzavano, i valori imperanti nella società contemporanea e conducevano uno stile di vita antagonistico e ribelle. Anna cercava di comprendere da cosa fosse scaturito l’atteggiamento di Barbier verso il sociale in senso lato, che ne aveva plasmato così il carattere e, occasionalmente, ascoltò alla radio una notizia di cronaca relativa ad un caso di pedofilia avvenuto in un collegio religioso. Condusse una sua personale ricerca ed arrivò alla conclusione che probabilmente, durante gli studi fatti in quel collegio, Barbier fosse stato oggetto, suo malgrado insieme ad altri ragazzi, di abusi sessuali. L’altra sconvolgente novità che lascia trasparire Anna nel suo scritto è che molto probabilmente Barbier non cadde accidentalmente dalla falesia ma cercò volontariamente la morte, per evitare il decadimento fisico e il dover affrontare una vita nella quale la montagna, come la intendeva lui, avrebbe potuto non essere più sostenibile.
In effetti, è ricorrente in alcuni personaggi di primo piano dell’alpinismo, rilevare un certo squilibrio tra la dimensione diciamo sportiva e quella umana: pare di constatare una certa predominanza della prima rispetto alla seconda e, forse, la forza scatenante della prima è anche dovuta ad una sorta di disadattamento rispetto ad una vita “ordinaria”. Certamente, lo ripeto, giudicare le persone è un esercizio assolutamente difficile, ancor più se tale giudizio è mediato da altri e non si può basare su una familiarità e un rapporto stretto con la persona coinvolta: per questo motivo l’interrogativo presente nel titolo di questo testo è doveroso e necessario.
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Luciano, per tua informazione, e per tutti i lettori del fantastico blog di Gogna, leggo tutti gli articoli pubblicati dalla prima parola all’ultima, a volte pure due volte.
Ma forse non ti stai rivolgendo a me!
Grazia, al 43 e ai
diversi lettori (che) hanno letto il giudizio senza deroghe.
Credo semplicemente che gli articoli vadano letti fino all’ultima parola. Solo dopo si può eventualmente dare un giudizio. E sono piuttosto convinto che l’autore sia stato chiarissimo.
Fabio, grazie per la condivisione dei preziosi video!
Lessi la prima volta “Il gabbiamo Jonathan Linvingstone alle medie e mi colpì, forse perché avevo già intrapreso il mio cammino solitario.
Un paio di anni fa l’ho trovato in lingua originale in una bancarella e, rileggendolo più volte, mi interessò ancor di più.
Il Piccolo Principe, studiato al liceo linguistico, fu amore a prima lettura ed è rimasto il mio libro preferito, che in seguito ho letto in svariate lingue, pure in napoletano!
Ho letto Siddharta diverse volte e ogni volta mi vengono svelati nuovi messaggi.
Ci sono delle belle vie di Barbier che lo ricorderanno per sempre. Su Cima Tosa, parallela alla Detassis, c’è una linea stupenda e alla Torre del Lago due sue vie e in una di queste ho visto un dado da ferramenta incastrato in una fessura e con tratti oltre il sesto!
Premetto che (ciao Giova) che l’articolo di Motti “I Falliti” non mi è riuscito di finirlo pur avendo cercato di leggerlo più volte. E non è che le vicente cervellotiche non mi appassionano. Anzi. Ma Il piccolo principe, Siddharta e il gabbiano j. livingstone, mi hanno fatto lo stesso effetto. Non c’ho mai capito un cazzo. Forse non mi sono impegnato abbastanza. Comunque è un problema mio.
In Argentina il fallimento si dice “fracaso” e ha un significato più ampio che include anche l’aspetto positivo che c’è in ogni fallimento e in ogni cosa anche nella peggiore. Mi è sempre piaciuto.
Siccome conosco troppe persone che scalano, parlano di scalata e, oltre a nutrirsi, dormire (e forse scopare, ma non ne sono sicuro) non hanno trovato altro nella vita, li considero dei falliti e penso che anche loro lo pensino di loro stessi. È una cosa che penso per mio conto, non gliela dico, ma li evito. Tutto qui.
E se Motti provava piacere nel muoversi sui massi, sono contento per lui.
Alla ricerca del tempo che fu.
https://www.youtube.com/watch?v=Ls2-EsxA79k&pp=ygUOY2xhdWRlIGJhcmJpZXI%3D
https://www.youtube.com/watch?v=xeG8av6I_Zk
Ciao Luca,
il fatto che prediliga racconti senza giudizi non significa che li cataloghi come cattivi – cadendo nella stessa trappola del bisogno di etichettare.
A GG, che suppongo essere l’autore, rispondo che non mi sembra che il suo intento sia stato raggiunto, visto che diversi lettori hanno letto il giudizio senza deroghe.
Già solo includere nel titolo il termine “fallito” per me risulta pregiudizievole, ma rimane una mia visione.
Grazie, in ogni caso, per aver voluto parlare di Barbier.
@4 Grazia – la finalità dell’articolo era quella di condividere alcuni aspetti della vita di questa persona, emersi soltanto dalla lettura della nota finale presente nel libro di Monica Malfatti e attribuiti alla sua compagna: questo credo sia lo scopo di utilizzare un forum aperto al contributo di tutti.
L’analogia con la vicenda umana di Gian Piero Motti mi aveva colpito e mi pareva anch’essa degna di approfondimento e discussione.
Naturalmente ogni opinione è legittima e degna di rispetto se espressa in modo educato: sono molto in sintonia con quanto scritto da Marco Vegetti @21 sulla storia dell’alpinismo e dei personaggi che l’hanno resa e la rendono tuttora così interessante ed “intrigante”.
In conclusione: nessuna volontà di giudizio né di affermazione di una visione a prescindere, considerato la modalità “interrogativa” dell’articolo fin dal titolo, ma l’interesse a comprendere meglio il personaggio.
Ciao Marcello.
Sinceramente non credo che Motti si considerasse fallito perché non aveva nient’altro che l’alpinismo; era un intellettuale ed un uomo intelligente però magari si è sentito superato dal nuovo che avanzava vedendo crollare un mondo alpinistico su cui aveva investito tutto e di lì a qualche anno non sarebbe più esistito nella forma che lo aveva affascinato.
O semplicemente si era accorto di essersi totalmente impegnato in qualcosa che in quel momento gli era diventato estraneo e privo di significato perlomeno per come lo aveva vissuto fino a quel momento.
Cosa che forse ha afflitto anche Barbier e molti altri.
Io ho comunque incontrato Motti ad arrampicare sui massi nei primi mesi dell’ ‘83 ed eravamo un mio amico, lui ed io.
Lo abbiamo sorpreso da solo su questo masso solitario alle falde del Musine’ e la voglia di muoversi elegantemente sulla roccia era più che evidente.
Credo che i falliti di Motti siano quelle persone che se gli Levi l’arrampicata, non hanno altro nella vita. Quelli che cadono in depressione se gli viene una tendinite o che parlano esclusivamente di appigli e vie. Ne conosco diversi, di ogni età, e in questo caso concordo sulla definizione di falliti, anche se poi ognuno è libero di essere un po’ come vuole.
Se Ivo Rabanser pianta un chiodo, quello sarà un chiodo Rabanser.
Se Giovanni Cantabricchi pianta un chiodo, quello sarà un chiodo Cantabricchi.
Se Alessandro Gogna pianta un chiodo quello sarà un chiodo Gogna…e così via.
Buono a sapersi. Anche se prima del chiodo Rabanser e dopo la mia compagna piangente, avevo trovato un altro sistema per spaurire il secondo.
Calcolando che mi è capitato in passato di fare come guida la Via del Drago anche due volte in un giorno.
Avviso ai naviganti e ai ripetitori , le considerazioni di Cominetti circa il traverso della via sono state condivise da Ivo Rabanser che nel traverso ha messo un chiodo Rabanser ( con zeppa di legno ) in modo di evitare per il secondo un pendolo in caso di volo. Bella via densa di storia e per me dura , fatta a settant’anni con Ivo capocordata e mio figlio. Alcune considerazioni sull’ aggettivo fallito.fallito per chi , il giudizio su Barbieri deve essere alpinistico e non su indole e carattere. Questi appartengono alla sfera individuale sulla quale ci vuole rispetto. Va giudicato per quello che ha fatto in montagna e niente più. Ognuno di noi alpinista o no possiede dei lati oscuri che possono piacere eo non piacere. Cui prodest?
33 Giovanni.
Capisco la tua interpretazione e la condivido. Non è facile trovare alternative a quello che hai sempre fatto con tanta passione e adesso non ne sei più capace. Ma non credo fosse proprio quello che intendeva G.P. Motti nel definire gli arrampicatori dei “Falliti”.
Un commento su quanto scritto da Marcello Cominetti ed anche ad uso di eventuali futuri ripetitori della via.
Evidentemente concordando con il suo commento sul traverso faccio presente che Ivo Rabanser ha piantato un “chiodo Rabanser” ( con zeppa di legno) sul traverso rendendolo così più sicuro per il secondo di cordata ( niente pendoli in caso di volo). A mio modesto giudizio gran bella via storica e di grande soddisfazione per averla percorsa settantenne con Ivo e mio figlio. Per quanto riguarda i commenti sul carattere di Barbier mi permetto di dire : cui prodest? Rimane e rimarrà la sua attività, i giudizi morali e sulla sua personalità a mio avviso lasciano il tempo che trovano
Tra i commenti ho letto: “Per me c’è ben poco di meglio per cui vivere…”. Un pensiero scioccante
#27 Grazia, più che un bisogno, nominare e definire è l’essenza stessa dell’uomo animale sociale. Dal momento che abbiamo sviluppato il linguaggio abbiamo bisogno di organizzare e categorizzare la nostra conoscenza. E, restando nel solco di quanto sopra, tale azione non può essere nè buona nè cattiva, ma fa parte di noi…
Personalmente ho sempre interpretato il concetto di “fallito” di Motti relazionandolo ai momenti di cambio d’età che sono oggettivamente difficili quando si praticano attività psicofisiche impegnative come quella di Claudio; in quei momenti “bui” si può avere l’impressione che tutto quello si è fatto sia stato inutile e sentirsi soggettivamente “falliti”. Oggettivamente invece Barbier ha fatto nella sua vita un bellissimo percorso seguendo la sua passione per l’arrampicata più pura che esiste (il free solo) che sicuramente gli ha riempito la vita finché ha voluto/potuto farlo entrando poi di diritto nella storia dell’arrampicata (anche se questo in fondo poco conta).
Per me c’è ben poco di meglio per cui vivere e il fatto che ci abbia lasciato relativamente giovane conta solo relativamente se dall’altra parte c’è una vita vissuta così intensamente seguendo il proprio fuoco interiore.
Altri siti interessanti:
http://www.claudiobarbier.be/biographie-claudio-barbier/
https://atelier-ca-della-fiola.blogspot.com/p/elenco-delle-vie-percorse-da-claudio-in.html
https://atelier-ca-della-fiola.blogspot.com/p/claudio-le-parole-che-dicono.html
https://atelier-ca-della-fiola.blogspot.com/p/i-perche-di-claudio.html
https://atelier-ca-della-fiola.blogspot.com/p/la-documentation-iconographiqueainsi.html
Qui troverete un articolo di Alberto Sciamplicotti che parla di Claude Barbier.
https://www.altitudini.it/dolore-vivere-claudio-barbier/
Basta dare un significato positivo a “fallito” e il gioco è fatto.
A volte, specie in montagna, fallire salva la vita.
Infatti!
Ci sarà chi nella propria solitudine ci starà male, chi invece si sentirà bene.
Alberto, il fatto che non le si espliciti, come si usa tanto ora, non significa che non si possiedano delle competenze e abilità.
E il fatto d’essere solitari non corrisponde a sentirsi soli.
Caro Luca,
il problema risiede in questo bisogno, per me inaccettabile per quanto comprensibile poiché tipicamente umano, di dover definire ed etichettare qualcun altro, soprattutto in questi casi di impossibilità di interloquire e difendersi.
Con tutto il rispetto e la considerazione per Motti, il suo ampio significato l’abbiamo inteso, e secondo me è troppo ampio, troppo generalizzato. A differenza di Carlo Barbolini non ho avuto la fortuna di conoscere ed arrampicare con C.B. ma lo vedo una persona ben felice di scalare, sopratutto sulle amate e solari rocce dolomitiche.
Altro che fallito che faceva solo questo, perchè incapace di vedere e fare altro nella vita. E anche se fosse così? In questo era molto ma molto capace! E chi l’ha detto che nella vita ci sono anche altre cose e non solo l’alpinismo? Ognuno deciderà per se stesso.
Secondo me il qui pro quo è nell’uso del termine di “fallito”, che non è da intendersi nell’accezione comune ma nel più ampio significato inteso da Motti. In questo senso Barbier può essere definito un “fallito”? Non lo so, ma io credo che all’epoca anche altri alpinisti sarebbero rientrati in questa categoria e che, ai giorni nostri, forse paradossalmente ce ne vorrebbero di meno. In questo momento forse ci vorrebbero più alpinisti impegnati nella società e nel mondo, e non al di fuori di esso.
Marco, intendevo soltanto questo (e tu l’hai capito benissimo): quando Gogna e Cerruti partirono per il Naso di Zmutt – e in modo analogo tutti gli altri alpinisti, a prescindere dalle difficoltà – sapevano perfettamente di poter contare solo sulle proprie capacità (magari confidavano in un pizzico di fortuna con il tempo).
Le raccomandazioni e gli intrallazzi valgono ZERO per una cordata in montagna (e meno male, almeno lí!). Però nelle spedizioni ufficiali a volte non funziona cosí: vedi K2 1954.
Anche questo è il bello dell’alpinismo: tu, il tuo compagno di cordata e la parete, null’altro; a volte tu da solo. È un gioco, ma molto serio: prima di mollare gli ormeggi per il mare aperto bisogna pensarci bene.
Grazia, il nostro Cominetti – stanco della ritrosia della ragazza e di scaramucce inconcludenti – optò per un ultimo disperato tentativo: la Via del Drago al grido di “O la mòl o la góz” (per la traduzione rivolgersi a Francesco Guccini).
Marcello, dico bene? 😀 😀 😀
Il patatrac successo nella traversata decise l’amara sorte.
Marcello, magari neanche tu volevi rivederla se l’hai portata su una via così ardua!
Quanto ai “falliti”, la Storia dell’Alpinismo, soprattutto tra gli anni ’50 e ’80 è piena di queste persone. Che, alla pari degli “inquadrati” hanno fatto anch’essi la Storia dell’alpinismo, che piaccia o meno. E di cui NON si può non tenere conto e quindi la NECESSITA’ e il DOVERE di parlarne.
11 Fabio, ti cito:
le raccomandazioni di pianura non servono in alpinismo
Vale davvero sempre e per tutti? Divago, ma se questo è vero (come anche io credo), le proteste di Bonatti perché Lacedelli e Compagnoni hanno bivaccato in un posto diverso da quello convenuto al campo base (4000 metri a valle) non stanno proprio in piedi… Scusate la divagazione.
Come guida posso dichiarare che la Via del Drago è ottima per perdere clienti. Il traverso discendente e poco proteggibile è, per il secondo di cordata, piuttosto spaventoso.
Su quello stesso tiro sono stato maledetto da una ragazza che mi piaceva molto e che però non ha più voluto vedermi.
In quegli anni, dare ad una via un nome del genere, ti fa capire la grande personalità e l’essere avanti di C.B.
Per quanto mi riguarda, già il fatto che Barbier fa una via per chiamarla la via del drago in risposta a ciò che alludeva Messner ,me lo fa dichiarare un grande. Molto bella quella via
Claude Barbier, un très bon grimpeur à l’éthique, hélas, pas toujours bien comprise de ses contemporains.
Venti nerbate sulla schiena a Carlo Barbolini – senza pietà – per “rifiuto di condividere aneddoti nel GognaBlog”. Cosí impara!
😀 😀 😀
Mi ritengo fortunato ed anche un po’ geloso per aver conosciuto Claude. Eravamo negli anni 70 ed anche noi fiorentini bazzicavamo spesso il Pordoi da Mariangela e Almo e posso confermare che era un soggetto molto particolare ma veramente interessante. Impossibile da scordare. Ho fatto una via con lui , con il mio “socio” Marco e un’altro Carlo. Avrei diversi aneddoti si di lui ma ne sono geloso, perdonatemi.
ma cosa vuol dire fallito? che la mattina non usciva di casa per andare in ufficio e la domenica non andava a pranzo dai suoceri? barbier ha fatto esattamente quello che voleva, quindi non è un fallito
Quoto #1 Marcello e 7#Matteo …
…le sue vie sono veramente belle ,e ripeterle immedesimandosi nei gesti da apritore chiarifica solo che dare del fallito ad un uomo con enorme talento qual era C.B. significa capire poco di chi hai “amato”…
A mio modesto parere un indispensabile e importante anello di congiunzione tra alpinismo e alpinismo in uno dei tanti step di trasformazione che questa attività ha vissuto.
Fino a non molti decenni fa – pressappoco sino all’inizio o alla metà degli anni Ottanta – che cosa motivava gli alpinisti?
Si scalava per desiderio di avventura, per godere della bellezza dei monti, per sfida con se stessi, per desiderio di cimentarsi in un ambiente “pulito” (ovvero “se sei capace sali, altrimenti no”; le raccomandazioni di pianura non servono in alpinismo). L’aspetto sportivo (inteso come attività fisica), pur presente, era solo una delle motivazioni. Le gare – con pettorali, giudici, regolamento, classifica, pubblico – non esistevano, tranne che in rari casi nello scialpinismo (Trofeo Mezzalama, ecc.).
Ora, in arrampicata, predomina il puro aspetto sportivo: ambizione di migliorarsi tecnicamente e, spesso, spirito di competizione, da soddisfare in gare omologate.
Sospetto che Claude Barbier, ai nostri giorni, avrebbe scelto qualcos’altro per vivere la sua vita.
Quell’ “ANCHE” non ci dovrebbe essere.
Tuttavia è sacrosanto che SI! parli di questi personaggi.
Perchè uno come Barbier, che si concatena la traversata delle cime di Lavaredo, ti fa in solitaria la Comici alla Civetta, ect. ect. , non puoi non tenerlo nella dovuta e meritata considerazione. Ribelle, mantenuto e maledetto che sia stato.
Che poi chi è più maledetto? Un alpinista introverso e difficile? O un imprenditore che si arricchisce e si fa grande e famoso sfruttando i propri dipendenti?
Da “istituzionale” quale sono, in genere non percepisco il fascino dei ribelli, degli anticonformisti e di quei personaggi che, a torto o a ragione, vengono classificati “falliti”. Se alcuni di loro mi intrigano, è solo perché mi piace l’aspetto più istituzionale della loro personalità (quando esiste). Tuttavia è sacrosanto che si parli anche di questi personaggi. Ma come ci sta che ci sia spazio per loro, altrettanto ci deve essere spazio per chi ha una visione opposta.
Trinciare giudizi sulla vita di una persona leggendo un libro scritto da un terzo… beh, basta questo.
“un certo squilibrio tra la dimensione diciamo sportiva e quella umana…forse, la forza scatenante della prima è anche dovuta ad una sorta di disadattamento rispetto ad una vita “ordinaria”.”x
Credo che queste frasi si applichino a chiunque va in montagna con continuità (e una certa fanatica pervicacia) e in particolare sono vere per chi va forte.
La figura e l’attività di Barbier sono certamente dotate di un fascino “maledetto” e la sua via del Drago a me è piaciuta molto.
E spesso anche ingiusto e fuori luogo.
FALLITO ??? E perchè?? Barbier sicuramente era un’uomo dalla personalità complicata, difficile, avrà vissuto come voleva vivere e se i suoi genitori l’hanno mantenuto, buon per lui. La sua morte non è stata un incidente, ma voluta? Va beh, scelta sua da rispettare. Tanto la morte pareggia tutti.
Sono andato anche io a tentare la via di Barbier a dx del diedro Dall’Oglio. Arrivati più o meno a metà per un incidente al mio compagno, abbiamo rinunciato e traversato a sx sul diedro Dall’Oglio. Vero un bel V° che con le gradazioni e i parametri che oggi si usa dare, mi piacerebbe sapere come verrebbe valutata questa via.
Quanto alla via degli “Strapiombi” alla cima d’Ambiez, non l’ho ripetuta, ma essendoci passato di sotto diverse volte, mi sono fermato spesso a guardarla con l’idea di andarci prima o poi. Visto dove sale e leggendo la relazione, mi sembra una gran via, altro che “esempio negativo”.
Grazie, Marcello, per condividere altra storia al personaggio.
Sono grata a chi abbia voluto parlare di questo interessante alpinista.
Non comprendo, invece, il bisogno di Giuseppe Gervasio di giudicare e di riportare in un articolo la visione di qualcun altro spacciandola per verità colata, solo in virtù della condivisione di un frammento di vita.
Mi sembra fuori luogo anche stabilire che Claude abbia desiderato metter fine alla propria vita, senza essere presente nel momento dell’incidente.
Alla fin fine, ciò che conta davvero nella vita di un uomo è essere in pace con la propria coscienza.
Claude Barbier lo fu?
Leggetevi le due biografie, in particolare quella di Anna Lauwaert, che fu sua compagna e confessore di angosce esistenziali. Poi datevi una risposta.
Tuttavia, dei giudizi di terzi, a Barbier non importava quasi nulla allora e men che meno importa adesso, ovunque lui sia o non sia.
Ei fu.
Per “Claudio” Barbier, personaggio tormentato, questo è l’unico epitaffio di cui si può essere certi.
Nel suo libro Anna Lauwaert narra che alle esequie partecipò, del tutto inatteso, anche un funzionario della Corona in rappresentanza del re. Al che i genitori si dissero: “Ma allora nostro figlio non era un fallito…“.
Ognuno la pensi come crede di un uomo morto. Come scrisse quel tale, “ai posteri l’ardua sentenza”. Amen.
Quando era un ragazzino, Barbier venne affidato dai suoi genitori alla guida Lino Lacedelli, che lo introdusse all’arrampicata su roccia nei dintorni di Cortina. Lino raccontava che aveva un’esuberanza fuori dal normale e che dopo poco dal suo inizio si spinse, abbastanza imprudentemente, sulle sue prime vie in solitaria. Lino, con il quale continuava ad arrampicare, lo riprendeva spesso perché si sentiva responsabile di eventuali incidenti al suo giovane allievo/cliente, ma sempre ne riconobbe il notevole talento.
Nei primi anni ’80 ho ripetuto, credo tutte, le sue vie nel gruppo di Fanis, dalla Cima del lago al Lagazuoi Nord.
La gestrisce del rifugio Scotoni, Helga Flöss Agreiter, mi raccontava spesso aneddoti su Barbier, di quando giovanissimo andava a dormire di nascosto nella cappelletta di guerra poco distante dal rifugio.
La sua via sulla Torre del Lago, a destra della Dall’Oglio, è la via di V grado più dura che abbia mai fatto. Tutta di V, non ha neppure un passaggio di V inferiore.