Metadiario – 212 – Un capolinea possibile (AG 1997-005)
Durante tutta la primavera del 1997 continuarono le sessioni serali in piazza Baiamonti 3: i progressi nella stesura del testo della guida Mesolcina-Spluga ci sembravano di una lentezza infinita ma non sapevamo porci rimedio. Con Angelo ci accordavamo sui singoli aggettivi: parlando di una cuspide o di una guglia dovevamo decidere se usare la parola “cospicua”, oppure “notevole”, “rilevante” o altro ancora… Ricordo una discussione che durò almeno tre ore (quindi praticamente tutta la sera dedicata) sulla Quota 2240,6 m CTR. Questo rilievo è situato sulla cresta che unisce il Pizzo Ledù al Sasso Canale, esattamente tra la Bocchetta della Pienèla di rós 2185 m c. a nord-ovest (numerata 86 nella guida) e il Passo Canale 2215 m a sud-est (numerato 89): oggettivamente è una cimetta assai poco rilevante e definita, dunque non meritevole di essere inserita nella lista dei toponimi numerati (quelli che fanno indice, per intenderci).
Però da questo rilievo si stacca a nord-est una cresta che, dopo essere scesa alla depressione 2210,2 m CTR, risale nella medesima direzione verso il Sasso Campedello 2310 m (numerato 87): quest’ultimo sì, “cospicuo”, è ben rilevato alla testata di tre valloni (Val Mengasca, Valle dell’Acqua e Valle Casenda). Secondo me la Quota 2240,6 m CTR doveva avere la dignità della numerazione (avrebbe preso il numero 87) perché questo avrebbe permesso maggiore chiarezza di esposizione nelle descrizioni di Bocchetta della Pienèla di rós, Sasso Campedello, Sasso Canale 2411 m e perfino della Sentinella di Campedello 2249,2 m CTR (numerata 88, presso la depressione 2210,2 m CTR). Ma Angelo non ne voleva sapere, sostenendo lo scarso interesse pratico di questo rilievo… Per la palpabile tensione che si era creata su questa discussione da sesso degli angeli, le pile di libri che ci circondavano rischiarono di crollare… Alla fine gliela diedi vinta, ma ero ormai sulla porta per tornare a casa mia.
Il 6 luglio 1997 mi trovai ancora una volta da solo in Apuane alla base del Pizzo d’Uccello con l’intenzione di salire in solitaria (un’ultima volta da solo?) la parete nord per la via dello Sperone Occidentale, una via di Claudio Ratti e C. Martini del 1976. L’itinerario fa capo a una sommità tra il Monte Bardaiano 1409 m a ovest-nord-ovest e la Quota 1529 m della Cresta di Nattapiana (del Pizzo d’Uccello) a est-sud-est. Le difficoltà sono sul III e IV grado. Più impegnativa è la parte finale che, con un camino, raggiunge il V grado. Però il dislivello è sui 500 m, dunque da non sottovalutare e con una sua definita espressione geografica. Come al solito avevo con me la corda ma non ricorsi ad alcun metodo di auto-assicurazione.
Per fortuna il weekend successivo (12 luglio) mi ritrovai con Stefano Funck che mi portò in un posto bellissimo, sull’Appennino garfagnino. La parete nord-ovest del Sassorosso (nel Parco dell’Orecchiella) è molto ben nascosta: la si raggiunge scendendo una valletta solitaria che nella parte superiore era deturpata dal rottame di una vecchia auto.
Su quella parete si annida una delle più belle vie del comprensorio garfagnino, la via dei Fiorentini. A dispetto di altri itinerari aperti su questa parete alta dai 150 ai 270 m, la via dei Fiorentini, aperta con uso limitato di artificiale e con pochissimi chiodi a pressione, rimane la più estetica. Autori ne furono Giovanni Bertini, Emilio Dei, Michele Lopez e Mario Verin, il 2 giugno 1972, che seguirono la direttiva di un grande diedro ma furono poi costretti a evitare il grande tetto finale per via dell’oscurità incombente. Autori di una bella e atletica variante iniziale furono Bruno Barsuglia e Alessandro Savani, mentre Mario Piotti e Giustino Crescimbeni il 15 maggio 1974 provvidero a raddrizzare la parte finale. Purtroppo nell’inverno 2008 ci fu un anonimo intervento di richiodatura a spit che trasformò la natura della via.
Stefano naturalmente optò per la variante iniziale Barsuglia, che in effetti merita assai (VII-) e si sviluppa per una lunghezza e mezza fino a raggiungere il passo di A0 del secondo tiro della via originale. Dalla S2 raggiungemmo il fondo del gran diedro che seguimmo con difficoltà crescenti (fino al VII+) fino ad arrivare alla S6 sotto il gran tetto incombente. La variante Piotti è davvero spettacolare e sullo stesso livello (VII+). In seguito le difficoltà si ridimensionano fino alla nona e ultima lunghezza.
La compagnia di Stefano mi era assai gradita e spero che la cosa fosse reciproca. Aveva uno strano e gradevole modo di manifestare la sua competitività… e del resto chi non è mai stato competitivo? E soprattutto: chi non crede di non esserlo più? Una volta, dopo innumerevoli squilli del cellulare, mi aveva risposto con voce rotta dicendomi che suo padre era appena spirato.
Il 16 luglio 1997 Angelo ed io tornammo allo spigolo sud-ovest del Pizzo del Saregiolo sopra Chiavenna. Questa volta, rispetto al tentativo del 27 ottobre 1993, eravamo una squadra più agguerrita: si erano aggiunti infatti Roberto Corsi e Giovanni Alfieri. Anche la giornata nasceva con i migliori auspici del bel tempo. Dopo l’approccio infinito (dai 403 m di Borgonuovo fino all’attacco a 1950 m c., per un buon terzo senza la minima traccia di sentiero) ci ritrovammo alla base dello sperone-spigolo sud-ovest. Le prime tre lunghezze sono davvero stupende, 80 m dal VI- al VII- con un passo di A0. Conoscevamo già la quarta, meno impegnativa (V+), che ci fece accedere alla zona erbosa che spezza in due la verticalità di questa prima metà di pilastro. Il settore superiore è caratterizzato dalla difficile ottava lunghezza (VI-) che precede un breve tiro di V. Arrivammo così alla vasta zona detritica ed erbosa che fa da base alla seconda metà del pilastro, per superare la quale individuammo una vaga incavatura a largo diedro a sinistra del filo.
E qui sbagliammo, perché presto ci accorgemmo che in quest’ultima parte eravamo stati certamente preceduti: se fossimo stati sul filo avremmo aperto un itinerario integrale e del tutto nuovo. Ma andava bene anche così… Dopo un breve raccordo, affrontammo le ultime tre lunghezze, con le prime due davvero impegnative (dal VI al VII+). In vetta eravamo un po’ preoccupati per la complicata e lunghissima discesa che ci aspettava, ma alla fine tutto andò bene nella più grande stanchezza. Scoprimmo in seguito che chi ci aveva preceduti erano stati Guido Lisignoli e Giacomo Gusmeroli nell’ottobre del 1981, i quali appunto avevano evitato la prima parte. In totale sulla via ci sono una decina di chiodi (compresi quelli di Lisignoli), perciò servono nut e friend (in doppia serie quelli medi). Battezzammo, con il consenso di Lisignoli, l’intera via Siamo solo noi.
Il 20 luglio ancora Apuane. Da Levanto, con Giovanni Alfieri, guidai fino a Campocatino e da lì dirigemmo alla via dei Carrarini alla parete nord-est della Piccola Roccandagia. La via, di circa 300 m di dislivello, era stata aperta da Silvano Bonelli e Renzo Gemignani il 28 maggio 1972. Definita da Angelo Nerli l’unica via della parete in cui si incontri roccia abbastanza buona, specie nella metà inferiore, aveva l’aria di essere un bell’itinerario di libera con un po’ d’artificiale. La via si confermò tale, con netta decadenza di qualità nella parte superiore: provai a salire in libera ma in alcuni punti non mi riuscì. Nella parte alta, non ricordo più per quale motivo, uscimmo con una variante a sinistra.
Era dal tempo dello Spigolo dei Cavalli salito con Andrea Bavestrelli che volevo tornare al Dente del Pizzo Tambò per salirne la liscia parete sud, che avevo appunto avuto modo di osservare bene il 29 luglio 1993. Lo feci il 30 luglio 1997 con la stessa squadra di Siamo solo noi, cioè con Angelo, Roberto e Giovanni. Anche qui un attacco piuttosto lungo, anche se meno di quello di due settimane prima. La parete sud del Dente presenta un dislivello significativo di 230 m e costituisce la faccia sinistra del grande diedro alla destra del quale è lo Spigolo dei Cavalli. La parete è costituita da tre grandi placconate sovrapposte. Nella profonda fessura del diedro sale l’unica via aperta prima delle nostre, quella del Diedro Sud, aperta da ignoti alla fine degli anni Settanta (secondo le informazioni dei primi ripetitori, Remo Guanella e compagni).
Superate le balze intervallate a detriti che sono alla base della parete, arrivammo a 2920 m c. e scegliemmo l’attacco a una quindicina di metri a sinistra del fondo del diedro.
Attaccai seguendo un pilastrino che con andamento a destra (IV) mi portò ad un saltino verticale da superare direttamente (A1 e VI); per rocce più abbattute e placche raggiunsi una sosta che attrezzai con 2 chiodi. 40 m, S1. Più facilmente salimmo (IV– e III) ad una cengia sotto un’evidente fessura. 30 m, S2. Evitai la fessura salendo la placca a sinistra (VI), raggiungendo quest’ultima tramite una successiva fessura di IV. Poi, più facilmente (III), ad una grande cengia. 40 m, S3 su chiodo lasciato poi in posto. Mi spostai a destra sulla cengia qualche metro per salire una piccola fessura e le successive scaglie di roccia in obliquo a destra (A2 e VI), poi una bella fessura verticale (VI+) fino a raggiungere una cengetta sulla destra. 20 m, S4. Qui affrontai, superandola interamente, una bella e caratteristica fessura verticale (all’inizio VII poi difficoltà decrescenti al V) fino ad una piccola cengia. 30 m, S5. Obliquammo poi a sinistra (IV), poi tornammo a destra (V), e poi diritto fino ad una lama alla base di un breve diedro obliquo a sinistra (IV). 35 m, S6. Salimmo il diedro (VI+, 1 chiodo lasciato in posto), poi il successivo più facile canale a destra (IV). 30 m, S7 su cengia. Dopo la salita di un camino sotto a blocchi incastrati andammo diritti alla vetta del Dente ormai vicina (II e III). 80 m. S8 ed S9. Era il momento di sostare in cima, dopo 6 ore di salita in genere assai elegante, solo in qualche punto disturbata da rocce meno sicure. Io mi ero legato con Angelo, mentre Roberto aveva condotto egregiamente la seconda cordata con Giovanni.
Dopo breve consultazione decidemmo di scendere a corda doppia per esplorare il Diedro Sud, visto che non avevamo intenzione di tornare ancora in quei luoghi prima dell’uscita della guida. Il diedro costituisce la struttura rocciosa più lineare ed evidente del Pizzo Tambò visto da sud. Peccato scoprire che l’itinerario fosse però sconsigliabile per la presenza sul fondo di parecchie rocce instabili. Le difficoltà, presumibili sul III e IV grado, potevano far pensare a una bella salita classica e consigliabile su una vetta bella e importante come il Pizzo Tambò.
Affrontammo la discesa a corde doppie: io scendevo per primo, attrezzando le singole soste ed esplorando il fondo del diedro per indovinarne le difficoltà o per reperire eventuali chiodi o altre tracce. Facevamo doppie da 50 m, dunque scendevamo abbastanza veloci. L’ultimo a scendere era Angelo. Io ero impegnato nella penultima doppia, in un camino: Roberto e Giovanni erano alla sosta dove le mie corde erano ancorate su due chiodi. Sulla terzultima doppia stava scendendo Angelo, quando successe che per una mossa sbagliata un masso enorme gli partì da sotto i piedi. Mentre scendevo nel camino sentii un frastuono pazzesco e istintivamente mi gettai nel fondo del camino e mi ci incastrai. Un attimo dopo vidi precipitare attorno a me un disastro di blocchi e pietre accompagnato dal fragore e dalle urla che sentivo provenire dall’alto.
Per qualche secondo restai immobile, terrorizzato: vidi, circondato da un’acre nuvola di “zolfo”, le mie corde precipitare rimanendo appese al mio discensore. A quel punto urlai anche io e nel casino riuscimmo a capire che c’eravamo ancora tutti e quattro, e illesi. Allorché Angelo, molto scosso, raggiunse i due compagni tremanti, in tre si misero a rinforzare la sosta: la zona adiacente a uno dei due chiodi era stata disintegrata dal masso che aveva anche reciso di netto le due corde (sulle quali ero appeso io) nei pressi dei capi annodati. Miracolosamente né Giovanni né Roberto erano stati colpiti. Recuperate le due corde rimaste, Roberto cominciò a scendere e, dopo avermi incontrato, continuò fino ad un terrazzino più sotto: subito dopo io (che avevo trattenuto le corde vicino a me) lo potei raggiungere. Eravamo davvero scossi, ma nella sfiga non poteva andarci meglio di così. Verificate le condizioni delle due corde che avrebbero potuto essermi state fatali, attrezzammo l’ultima doppia. Ci riunimmo tutti alla base, un po’ tremanti.
Fatti su gli zaini, iniziammo slegati la discesa per le balze inframmezzate da fasce detritiche e da macchie di neve. Avevamo fretta di toglierci da lì, vogliosi di non vedere più montagna per un po’… ma non era finita: Giovanni, con una mossa sbagliata, perse l’equilibrio e precipitò, per fortuna fermandosi dopo qualche metro di ruzzolone. Aveva ancora il casco in testa: questo nella botta si distrusse, dandoci così l’idea di cosa sarebbe successo senza. Ci facemmo carico del suo zaino e così acciaccati nel corpo e nello spirito raggiungemmo ormai a sera Montespluga, concludendo la giornata a notte fonda al Fatebenefratelli di Milano per medicare le ferite di Giovanni. Battezzammo la nostra via Un capolinea possibile.
Nella parte alta, non ricordo più per quale motivo, uscimmo con una variante a sinistra…..a ecco , non sono stato l’unico a scappare a sinistra , ricordo pilastri mobili in quella parte alta
La parete della Roccandagia, che si affaccia sulla bellissima conca di Campocatino, ha della roccia piuttosto mediocre. Un vero peccato perchè la parete è bella e imponente. Di itinerari su roccia ce ne sono diversi, la piu impegnstiva dovrebbe essere la via Biagi-Panesi-Pucci, ma per la brutta qualita della roccia, non vengono quasi mai saliti. In determinate condizioni invernali però la parete si riscatta alla grande, quando il ghiaccio blocca tutto e la parete regala belli e difficili itinerari di misto sui turf apuani induriti dal gelo.
Comunque, pur attingendo a tutta la mia pignoleria in materia, non riesco proprio a comprendere come sia possibile discutere tanto su cospicuo, notevole, rilevante e compagnia bella.
E se – per colpa di un ditino disorientato – vi fosse sfuggito un cospiquo, che avreste fatto? Un suicidio onorevole con la katana?
… … …
Alessandro, confessa: ci hai taciuto le botte da orbi che sono volate quella sera fra te e Angelo sulla fatidica Quota 2240,6 CTR. È cosí?
😀 😀 😀
“Durante tutta la primavera del 1997 continuarono le sessioni serali in piazza Baiamonti 3: i progressi nella stesura del testo della guida Mesolcina-Spluga ci sembravano di una lentezza infinita ma non sapevamo porci rimedio. Con Angelo ci accordavamo sui singoli aggettivi: parlando di una cuspide o di una guglia dovevamo decidere se usare la parola “cospicua”, oppure “notevole”, “rilevante” o altro ancora… Ricordo una discussione che durò almeno tre ore (quindi praticamente tutta la sera dedicata).”
Tutto ciò depone a favore della professionalità dei due autori: Angelo Recalcati e Alessandro Gogna. È cosí che si scrive, riflettendo perfino sulle singole parole.
Bravo, Alessandro! Mi pare che tu possa avere un brillante futuro come compilatore di guide!
😀 😀 😀
La frana dei massi mobilità un po’ il meno interessante dei racconti dal metadiario finora.
concordo, via molto bella
Concordo con Alessandro, con roccia della parte alta non proprio delle migliori. Mentre nella prima parte buona, vedi placche della foto.