Nel giugno 1999, quindi giusto venti anni fa, usciva finalmente la guida alpinistica Mesolcina-Spluga nell’ambito della gloriosa collana Guida dei Monti d’Italia. Il lavoro aveva richiesto ad Angelo Recalcati e a me ben 17 anni. Come leggerete, nel 1985 in vetta al Piz Martel avevo profetizzato ironicamente che di quel passo la guida sarebbe uscita nel 1999. E infatti…
Un lavoro senza fine
(scritto nel 1996)
Lettura: spessore-weight(2), impegno-effort(1), disimpegno-entertainment(3)
Tredici anni fa Angelo Recalcati ed io ci prendemmo l’impegno di curare la stesura di un volume della gloriosa Guida dei Monti d’Italia. Conoscere alla perfezione una catena di montagne e sviscerarne la storia alpinistica sono le condizioni per una tale opera: lo sapevamo e siamo andati incontro al nostro destino con serenità. L’impegno si rivelò presto assai più gratificante del previsto.

Angelo incominciò ad aggirarsi con il suo vecchio macchinone (un po’ da zingaro) a est e a ovest del Passo dello Spluga. Dormiva regolarmente in auto e ogni giorno macinava dislivelli assurdi in un’esplorazione puntigliosa: obbligatorio salire ogni vetta importante per tutte le creste e pareti fino al terzo grado e oltre. Il Pizzo Tambò, il Suretta, il Pizzo del Ferro e il Pizzo Stella erano le sue mete, d’estate, d’inverno e sempre da solo, totalizzando circa 100-110 giornate-lavoro, senza calcolare quelle in attesa che la pioggia cessasse. Sporadicamente feci qualche bella salita con lui e presto m’innamorai di quelle valli solitarie. Chi avrebbe mai immaginato che le montagne a nord-ovest del Lago di Como nascondessero simili tesori di bellezza? Ritrose, ribelli, spesso nebbiose e temporalesche, quelle montagne a cavallo tra Svizzera e Italia mi stregarono: bellezza discreta e solitudine modesta si imposero. Ci sembrava di essere piccoli De Saussure, con carte, altimetri, bussole; raccoglievamo le confidenze dei pastori, frugavamo nei segreti della montagna, ne aspiravamo l’essenza geografica. Sulla Catena Mesolcina Meridionale c’erano qualche raro testo e alcune testimonianze, ma non si aveva un quadro completo, allora l’intero versante svizzero era privo di seria documentazione. Mi rivedo grondante di sudore alla luce della pila frontale, o quando mi sporgevo su una valle a lungo sospirata e scoprivo nuove creste e pareti a rincorrersi nel gioco di luce e di ombre del primo mattino.

Al costante scampanio di pecore in libero pascolo su versanti degradati s’accompagnano fruscii di vento senza frontiere e di neve precoce; cupi rimbombi di qualche scarica in tetri canaloni, poi la visione di qualche apocalittica valanga che ancora a settembre non si è sciolta. Terra di frane e di abbandoni, ma solo da parte italiana. Al di là del confine regna ordine: il disboscamento è razionale e il dissesto quasi non esiste. Le poche strade che risalgono dai 500 metri dei paesi ai 2000 delle malghe sono utili e non sono state costruite da speculatori. I cacciatori, se non abbattono niente, sono costretti a scendere a piedi come erano saliti: una regola rigida ed efficace. In compenso la conoscenza alpinistica della zona svizzera è ancora più limitata. Il Sass Castel è situato in territorio elvetico: abbiamo scoperto le sue belle pareti e le abbiamo salite. Dalla vetta vidi la cresta di confine che dalla Bocchetta del Notar attraversa il Pizzo Roggione ed il Pizzo della Fòrcola, fino al Passo della Fòrcola. Sono chilometri di cresta che abbiamo percorso qualche anno dopo: le vette erano già state salite, ma i collegamenti erano là con tutti i loro misteri. Inattesi intagli continuavano ad interrompere la nostra arrampicata. Innumerevoli sono stati gli interrogativi che abbiamo dovuto risolvere. Un passaggio tra una valle e un’altra, nascosto, invisibile, il mitico Taglio d’Ingherina, era diventato un incubo finché non andammo apposta alla ricerca.

Ma il dubbio più divertente fu quello della catena Piz Martel-Pizzo Campanile. Da tempo sapevamo che la carta svizzera aveva fatto confusione: il Pizzo Campanile era scambiato con il Piz Martel. Ma già Angelo Zecchinelli aveva chiarito le cose. Questi aveva pure compiuto la prima traversata della cresta. Nella relazione è citato un aguzzo gendarme tra il Caurga e il Campanile. Angelo nell’agosto 1985 ripeté da solo la traversata e fu costretto anche lui ad evitare l’arcigno gendarme perché troppo difficile da salire senza alcuna assicurazione. La cosa lo aveva amareggiato, così in settembre, dopo che avevamo appena terminato una via nuova sulla parete nord-est del Piz Martel, tentò di convincermi ad attraversare ancora il Caurga e affrontare il famoso gendarme. Io ero steso sulla vetta, masticavo stanco un morso di panforte, c’era poca acqua. Riuscii ad evitare di proseguire per un pelo! Confesso che in quel momento non mi importava nulla del gendarme. Se si saliva ogni metro di roccia disponibile, si poteva prevedere la pubblicazione della guida per il 1999!

Il giorno dopo cavalcammo tutta la cresta nord del Sasso Bodengo; giunti alla Bocchetta della Cengia salimmo l’inviolata parete nord del Pizzo Campanile. Giungemmo sulla cresta famosa, tra Caurga e Campanile, a poche decine di metri da quest’ultimo. Mi rifiutai di raggiungerne la cima, che del resto ormai conoscevamo a memoria, nel timore che dopo mi fosse proposto di fare una puntatina al gendarme. In ottobre Angelo tornò sul Caurga con Lorenzo Merlo, per altra via nuova. In vetta, tentò il colpo anche con Lorenzo, che però non ne volle sapere. Angelo diceva che quel gendarme poteva essere il “vero” Piz Martel, per le forme che ha.

Passò un altro inverno, poi sciogliemmo anche quel mistero. Era il 9 luglio 1986 e riuscimmo nella difficile prima ascensione di quella che chiamammo Testa del Martel. Altri dubbi e problemi ci occuparono in seguito: risolti alcuni se ne crearono altri, per non dichiarare mai conclusa l’indagine della nostra vita.
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Il Gino vuole uscire dalla tomba !
Non so se vuole bruciare tutti i suoi libri o spaccare delle teste.
20 anni di duro lavoro, ma con quella guida sarai nel cuore dei Valchiavennaschi per sempre !!!
Da anni percorro i territori chiavennaschi ed alto lariani, e questa guida, questa bibbia, è di un valore inestimabile. Tra le puntuali descrizioni traspare sovente quella passione, quella curiosità, quello stupore che ben ritrovo narrate nell’articolo qui sopra. E’ la guida di un territorio discosto e dimesso, di un alpinismo minore, e proprio per questo libero dal fardello dei grandi nomi e delle grandi imprese: sono ambienti dove si va perché ci si vuole andare, non per curriculum o per plausi virtuali. Forse questa è la libertà da cui l’alpinismo discende e di cui, diffusamente, se ne è perso valore e significato.
La gloriosa Guida dei Monti d’Italia (prima serie) mi ha accompagnato in montagna per tutta la vita, fin dalle prime scalate. Due anni fa, dopo una vita di ricerche tra le librerie alpine, sono finalmente riuscito a completarla.
Caro Alessandro, ti sei reso conto che passerai alla storia anche come autore di una di quelle guide leggendarie? 😊😊😊
Però ora la collana è stata vergognosamente troncata. Uno degli scopi istituzionali del Club Alpino, come da statuto, è la conoscenza delle montagne, specie quelle italiane. E ora il primo strumento per la diffusione di quella conoscenza – la Guida dei Monti d’Italia – non esiste piú. Roba da matti!
Il buon Quintino Sella si starà rivoltando nella tomba.
Lavoro assai meritevole, che rivela un angolo delle nostre Alpi poco frequentato, selvaggio, dotato di un’austera fisionomia ed amplissimi scorci che aprono al lago e alla più blasonata Codera – Masino.
Uomo di Appennini centrali, ho imparato a conoscere le Alpi tra quelle montagne.