Un mantello che avvolge il passato
(da Un Alpinismo di Ricerca, scritto nel dicembre 1965)
Questa storia partecipa al Blogger Contest 2018
Lettura: spessore-weight(2), impegno-effort(1), disimpegno-entertainment(2)
È ancora notte quando c’incamminiamo per un viottolo stretto ma non incerto. L’erba umida di rugiada a tratti cerca di soffocarlo, ma sotto le suole di gomma sentiamo la terra battuta. Su questo piccolo nastro tortuoso abbiamo in noi la pace, un torpore, quasi, che ci dà fiducia. Quattro ore fa eravamo rinchiusi in una birreria, a Genova, a meditare sui nostri doveri incompiuti. Completamente impreparati alle interrogazioni del giorno dopo. Poi, la decisione; un biglietto a casa e via, Savona, Cuneo, Acceglio, la familiare e modesta frazione di Chiappera, come sperduta in questa valle in cui il tempo non ha mai accelerato. I fili d’erba lunghi e forti che prima ci inzuppavano le ginocchia hanno ora fatto luogo ad un tappeto più soffice e più fitto su cui lasciamo le tracce. Soltanto con il sole si raddrizzeranno i ciuffi e niente ricorderà più il nostro passaggio. In cielo le stelle brillano e il silenzio è rotto solo dal fruscio del nostro passo; ci sforziamo di non offendere troppo con il peso l’erba più tenera con la quale siamo mai stati a contatto. Se, ai primi chiarori, intravvedo qualche fiore, sposto di poco il piede ed è con rincrescimento se non mi è possibile evitare le famiglie più fitte: e sempre trattengo il respiro, nell’illusione di pesare meno.
Disegno di John Singer Sargent: Old man with a dark mantle
Ci attende oggi una dura salita, forse bivaccheremo in parete. Ciascuno sembra immerso nei propri pensieri, ma in realtà siamo entrambi affascinati dal colore del cielo, in cui impallidiscono le ultime stelle, le più grosse forse o le più luminose, il silenzio spaziale che vive con noi, il nostro camminare assorto, senza fatica anche se il sentiero è ripido; e siamo ricchi di tutto ciò, e la mia camicia sa di pulito e gocce di rugiada affollano gli scarponi, si riuniscono a crocchi, si disperdono e non brillano più.
I pascoli, magri e ultimi, su un accenno di altopiano. Come ovattati giungono a noi suoni di campanacci, ma deboli. Pecore, pensiamo. Nella luce incerta dell’alba, le prime nebbioline, impalpabilmente leggere, salgono dal fonda della valle e sui piccoli orizzonti di questi irregolari praticelli, gli stessi vapori, immobili. Grandi massi adagiati sulle radure che attraversiamo, gendarmi di roccia vegliano sui ripidi costoni. E ancora quel tintin lontano che ti accarezza l’anima se lo lasci fare. Forse ci si illude di essere più buoni.
I blocchi, squadrati spesso come il marmo, s’infittiscono a bosco di pietra. A volte siamo costretti ad un po’ di ginnastica per saltare da uno all’altro; oppure vaghiamo in corridoi e brevi labirinti di sasso e di erba, piccoli muretti da scalare, finte voragini scure e poco profonde.
Disegno after Jacques Callot: Noble man wrapped in a mantle trimmed with fur
Una paretina alta come un uomo e trasalgo. A pochi metri da me un oggetto che ci scaglia nel passato; evocare repentino di tempi remoti, che parteggiano in noi per un residuo di sensibilità, che tentiamo di dimenticare, di continuo, e giorno per giorno sentiamo sempre meno. Avvolto in un mantellaccio nero, è accovacciato sulla cima di un sasso e non sembra scorgermi. Il silenzio intorno a noi è uguale e nulla significa che dentro di me ci sia il terremoto. Essere messo a confronto con il proprio passato, forse addirittura con la propria coscienza, ma in un modo troppo violento per non soffrirne, per riuscire a non sentirsi inferiori. Con il cappello a larga tesa, tutto sgualcito e scuro, si è coperto il capo e la fronte. E il mento non è appoggiato sul petto. Non dorme, ma gli occhi sono solo fessure. Da quante ore sei fermo qui, vecchio? Da sempre, chissà. Fai parte della natura ormai, un arco portante della sublime cattedrale che non conosce fedeli, ma solo parti integranti. Vecchio, perché ti ho incontrato? Mi hai dato un attimo di allucinante esperienza: i tuoi secoli, uguali e puri, cosparsi di lutti, sudori e così i momenti felici, contro la mia epidermica gioia di vivere. La tua vita che solo un insensibile può dire monotona, l’hai scaricata in silenzio e d’improvviso davanti a me; forse, ma solo ora, posso comprendere che la tua figura immobile, i tuoi occhi fissi sono di un’infinita nobiltà, come la storia della tua gente. E tu sai perché, pastore, non ti ho salutato. Mi hai messo a disagio, mi hai fatto colpevole con la sola tua presenza. E ti ricorderò vecchio, quando, camminando in punta di piedi davanti a te, mi è sembrato che tu chinassi leggermente il capo, lento, e poi l’hai rialzato bruscamente. So che non ti sei assopito, capisci, e so anche che il tuo non è stato un inchino. E più tardi, in parete, ti ho cercato su quel sasso senza più nebbie. Io ero tanto più alto di te e c’era il sole. Aguzzavo gli occhi, ma inutilmente.
Giochi di nebbia nelle gole dell’Enns, Stiria
In quegli anni questo tipo di racconti andavano di moda. Ci si sentiva autorizzati a idearli, e anche a viverli, perché probabilmente ci si sentiva tra i pochissimi privilegiati a poter godere di sensazioni che irrimediabilmente mettevano il resto dell’umanità nel secchio della rumenta. Ne ricordo anche uno di Andrea Parodi che si intitolava La corda doppia in cui un alpinista scendeva all’infinito lungo la sua corda in una sorta di incubo ma che allo stesso tempo dava la sensazione di essere felici di essere lí e forse non voler più tornare alle meschinità quotidiane. Sempre che uno ne avesse. In questo del pastore avvolto nel mantello nero ci vedo (posso sbagliarmi) l’incomunicabilità tra l’alpinista che arriva dalla città e il montanaro che sta lassù da sempre.
Forse era quel Gattino di Chiappera che ospitava gli alpinisti a libera offerta. Che tempi! Oggi i NAS lo farebbero chiudere subito. Anche perché ricordo una gara di scoregge memorabile alla quale si unirono dei francesi con iniziale riluttanza e alla fine si divertirono assai pure loro. Alpinismo era anche questo. Ciao