Un mondo di rocce
(scritto assieme a Giuseppe Miotti)
Circondato da vallate verdeggianti e boscose, da prati ben tenuti con paesi ordinati e puliti, il massiccio del Triglav, la più alta vetta della Slovenia, appare quasi un’isola lontana difesa da una moltitudine di avancorpi. Intorno è un piccolo universo di cime e ambienti grandiosi, un mondo di rocce unico. Sono montagne poco note all’escursionista italiano e forse anche un po’ snobbate: non così alte, dai nomi sconosciuti. Poi, c’è forse anche il pregiudizio che in un paese dell’est servizi e ricettività lascino a desiderare. Per ricredersi non c’è di meglio che una visita e non senza stupore si scoprirà una gestione del turismo assai migliore di quella di tante nostre celebri località alla moda. Non sono bastati cinquant’anni di Jugoslavia a cancellare la cultura e la buona amministrazione del territorio, retaggio dei tempi di Cecco Beppe e dell’Austria. Siamo immersi in un piccolo paradiso per gli escursionisti e gli amanti delle vacanze tranquille e naturali. Ci sono attrattive per tutti e possibilità di ogni tipo di sport all’aria aperta. In funzione del tipo di gite offerte dal comprensorio si potrebbe dividere il massiccio in due parti: escursionismo hard quello proposto sui versanti settentrionali nelle valli Vrata e Martuljek; soft, ma mai troppo, quello che ha come punto di partenza principale Bohinj, sulle rive del limpidissimo omonimo lago da cui si origina la Sava.
Non è d’aiuto al turista occidentale il lessico complicato di nomi e scritte che fanno della lettura di guide e cartelli uno scioglilingua continuo: non arrabbiatevi, prendetela come un gioco. Rari sono gli abitanti che riescono a capire l’italiano e la lingua alternativa preferita sembra il tedesco, tanto per rendere le cose più semplici. Ci vuole dunque qualche giorno di ambientamento ed è consigliabile leggere qualche guida in italiano già prima della partenza. Un validissimo ausilio, grazie anche alle suggestioni che offre è la lettura dei libri scritti da Julius Kugy, pioniere dell’alpinismo su quei monti. Passare i primi giorni a Bohinj è quanto di più adatto allo scopo; si può fare un giretto sulle rive del lago per stupirsi della limpidezza delle sue acque e della moltitudine di trote che astutamente si mettono nel punto in cui la Sava esce dal bacino, in attesa di tutto quanto porta la corrente. Pure piacevole può essere la visita ai piccoli paesi vicini, Stara Fužina e Srednja Vas. Vi sono abitazioni antiche di pregio architettonico, spesso abbellite da graziosi affreschi e dagli immancabili terrazzi fioriti. A Stara Fužina si trova anche un piccolo museo etnografico e un buon ristorante tipico; qui è possibile seguire il sentiero che segue la sponda sinistra idrografica della Mostnica addentrandosi nel bosco e proseguendo verso le gole che si trovano più oltre. Magnifiche marmitte dei giganti, antri umidi, acque spumeggianti e vorticose ci accompagnano per tutto il percorso. È possibile praticare un po’ di torrentismo lasciandosi trasportare dalla corrente fra lisci canali e marmitte, ma è meglio avere la muta: anche nelle giornate più afose la temperatura dell’acqua è a dir poco gelida. Piacevolissima è invece quella del lago, vero e proprio miraggio sognato nelle scarpinate sulle abbacinanti pietraie del massiccio interno.
In giugno e fino ai primi di luglio ogni angolo del massiccio è in piena fioritura; in basso, nei prati degli alpeggi è tutto un tappeto multicolore. I sentieri che un tempo salivano da fondovalle sono stati oggi in buona parte sostituiti da stradine sterrate che permettono di guadagnare quota e di compiere poi traversate o percorsi ad anello visitando gli alpeggi. Il Triglav appare sempre lontano, spesso avvolto da una impalpabile foschia, difficile a volte da distinguere dalle cime vicine: ci arriveremo mai? L’esplorazione dei versanti meridionali passa successivamente per gite più lunghe e impegnative come quella che percorre la Valle dei sette laghi. Il dislivello non è eccessivo, soprattutto se ci si accontenta di raggiungere il Dom pri Sedmerih Triglavskih Jezerih visitando gli specchi d’acqua più belli, i laghi contigui del Dvojno Jezero (5° e 6° lago o Lago Doppio). L’alba e il tramonto quassù, fra i riflessi dell’acqua, le bianche rocce calcaree, gli imponenti tronchi dei cembri sono qualcosa da non perdere.
Volendo percorrere tutta la valle dei laghi si raggiungerebbero le pendici del Triglav, ma il percorso, a causa dell’enorme sviluppo, richiede almeno due giornate di buon cammino. A questo punto è questione di temperamento: c’è chi preferisce questo genere di avvicinamento riflessivo e chi vuole subito la vetta. Per costoro la soluzione più adatta è la salita da Val Vrata, maestoso solco che dal paese di Mojstrana nella valle della Sava Dolinka, s’inoltra fin sotto l’ombrosa e altissima parete nord del Triglav. Prima di imboccare la stradina che percorre la valle fino al rifugio Aljažev Dom, può essere piacevole una visita al piccolo Museo del Triglav, ove su due piani sono raccolti cimeli e testimonianze legate alla storia di questa montagna. Foto ingiallite, profili di grandi esploratori e pionieri della scoperta di questi monti, manoscritti, attrezzi da scalata e per soccorso alpino (importantissima istituzione, come del resto in tutti i paesi dell’Est) ci consentiranno di entrare un po’ più in confidenza con queste cime dai nomi così ostici per noi.

Più avanti nella valle vale la pena di fare sosta e salire verso destra un breve sentiero che porta alla base della magnifica cascata del Peričnik. Piomba con un salto di almeno 50 metri di cui gli ultimi 40 nel vuoto; suggestivo e a modo suo emozionante il sentierino che, entrando nell’antro strapiombante della cascata, permette di portarsi alle sue spalle e sulla sponda opposta della valletta che la raccoglie. La lunga strada termina al rifugio e il sentiero raggiunge in breve le pendici settentrionali del Triglav. Mossi da ricordi di antiche letture, subito cerchiamo il «monumento del chiodone e del moschettone»; lo si raggiunge in pochi minuti dall’auto e bisogna ammettere che è veramente suggestivo. Non si può resistere alla tentazione di vedere se il moschettone funziona e così se ne prova la leva scoprendo che si apre perfettamente. Non molto più avanti il tracciato inizia a salire lungo il margine sinistro della nord del Triglav. Sfrutta astutamente sistemi di cenge, canalini, rampe di mughi e con qualche passaggino su roccia raggiunge un vasto altopiano detritico e dopo un bel pezzo ancora il gigantesco rifugio del Triglav. Qui sembrano convergere tutti i sentieri delle Alpi Giulie tanto è il via vai di alpinisti, escursionisti e pellegrini. Sì, proprio pellegrini, cioè coloro che essendo sloveni vengono quassù per la tradizionale salita alla montagna nazionale. Ogni sloveno deve essere stato almeno una volta in vetta al Triglav, altri, come Marco, sloveno di Bergamo che abbiamo incontrato al rifugio, ci tornano forse anche per un profondo senso delle proprie radici. Salire in vetta è una facile arrampicata attrezzata da corde e pioli metallici: non ci si può perdere, basta seguire le attrezzature e… le lapidi che scandiscono il cammino fin quasi in vetta. Panorama stupendo ed estesissimo, di quelli a 360°.
Dal rifugio si può divallare verso le praterie di Uskovnika passando per il rifugio Vodnikov Dom. È un percorso interminabile ma bellissimo, sopratutto una volta giunti in vista delle splendide e verdi conche carsiche di Velo e Malo Polje. Più oltre una lunga traversata, una traccia meno certa fra radi boschi, ove ogni tanto spunta qualche Lilium carniolicum (specie endemica di Giglio Martagone), e infine i boschi e poi le praterie di Uskovnica.

Un po’ simile al Triglav è lo Jalovec, la cima che Julius Kugy definisce «gemma artisticamente polita». Siamo nella valle delle sorgenti dell’Isonzo, che probabilmente trovano alimento proprio dai nevai annidati fra le pieghe alte dello Jalovec. Il piccolo rifugio Zavetišče pod Špičkom emana atmosfere rudemente e veramente alpine: è un semplice edificio come ancora ce ne sono pochi sulle Alpi, dove quasi tutti sono stati ricostruiti e ampliati, in certi casi con interventi faraonici. I simpatici custodi, la tranquillità di quest’angolo alpino fanno percepire forse l’autentico respiro di questi monti; la salita alla vetta non presenta particolari difficoltà e i passi più difficili sono facilitati da corde fisse e pioli. Un ultimo tratto in cresta al cospetto del Màngart porta sulla vetta, un vero balcone affacciato su questi monti imponenti e magici: da lontano, come sempre occhieggia l’immancabile Triglav.
Il Prisojnik è un colosso roccioso tozzo e massiccio, circondato da cenge e solcato da gole profonde e nevose. Si erge così imponente che davvero, come diceva Kugy, «l’occhio va quasi istintivamente in cerca di particolari maggiormente animati, soffermandosi alla cascata che erompe di mezzo alla greve corazza di rocce o al foro del Prisojnik, oltre il quale sorride promettente il cielo azzurro di Trenta». La salita del Pilastro del Diavolo è una bella classica, assai simile a quelle molte vie dolomitiche appartate e selvagge, dove senti ancora fischiare le pietre e nessuna voce turba un silenzio di gola profonda. Per raggiungere l’attacco, ma anche per scendere dalla vetta, si segue una via ferrata in disuso, senza che alcun cartello denunci il fatto che da un po’ di anni non è stata fatta alcuna manutenzione. Facendo attenzione a non pestare le salamandre, sotto la pioggia incombente, saliamo a lungo. Penso che, a dispetto della grande quantità di gente che sale le montagne slovene, le vie ferrate da loro costruite sono davvero pochissime. Intanto la maggior parte sono solo sentieri attrezzati, cioè cenge e percorsi naturali che hanno protetto con opere assai leggere. Ma ciò che più importa è notare, come anche in questo caso, le opere artificiali intervengano là dove non si potrebbe giungere in nessun’altra maniera: non si tratta di attrezzare un percorso per dare una meta in più ad un rifugio o ad una valle, si tratta di facilitare l’accesso ad un’intera chiostra di montagne, o alla testata di un vallone. E quando, sotto una pioggia torrenziale, ci tocca scendere dal pilastro con le soste non attrezzate e giù dalla ferrata del tutto inaffidabile, mi sento sempre più sicuro delle mie ragioni: in montagna devi fare conto sulle tue forze e sulle tue capacità.

A oriente del corso della Sava, il lungo affluente del Danubio che termina le Alpi Giulie Orientali, altre catene di montagne prolungano le Alpi a noi sconosciute. Si tratta degli erbosi Karavanke, delle calcaree Alpi di Kamnik (Kamniške Alpe) e del boscoso Pohorje, rilievi significativi e assai diversi tra loro. Mentre i Karavanke segnano il confine tra Austria (Carinzia) e Slovenia, gli altri due gruppi sono situati interamente in territorio sloveno. Notevoli sono le affinità tra la Carinzia Orientale e la Slovenia, lo dimostrano i molti toponimi carinziani che terminano in «ach». Gli sloveni considerano la vicina Carinzia la terra dove è nata la loro civiltà: anche se scacciati dai vescovi di Salisburgo, gli slavi non rinunciarono le loro pretese sulla Carinzia. Alla fine della prima guerra mondiale, la Jugoslavia ne rivendicò perfino l’annessione. Un plebiscito (1920) chiuse quel contenzioso e la zona rimase austriaca. Ma solo il riconoscimento da parte dell’Europa della repubblica slovena (gennaio 1992) chiuse definitivamente la questione. A testimonianza di quanto la cultura slava sia significativa ancora oggi in Carinzia, anche lo scrittore carinziano Peter Handke, l’autore di Falso movimento, è stato un suo strenuo difensore. Il piccolo, ma ben ramificato e selvaggio, massiccio di Kamnik è proprio al centro di questa storia o, se vogliamo, di questo punto nevralgico della più recente e pacifica evoluzione europea.
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Dino Campana””Ecco le rocce, strati su strati, monumenti di tenacia solitaria che consolano il cuore degli uomini. E dolce mi è sembrato il mio destino fuggitivo al fascino dei lontani miraggi di ventura che ancora arridono dai monti azzurri: e a udire il sussurrare dell’acqua sotto le nude roccie, fresca ancora delle profondità della terra. Così conosco una musica dolce nel mio ricordo senza ricordarmene neppure una nota: so che si chiama la partenza o il ritorno…”
https://www.ilfilo.net/campana.htm
Esistono pure scandole in terracotta. Comunque per un rifugio o bivacco non si puo’fare tanto gli “esteti”, presto e bene ( ricordando pure pernottamenti in fienili o rifugi dal tetto in scandole..con gocciolamento consistente sui sacchi a pelo in caso di pioggia o neve fusa e persino secchielli dislocati nei punti critici per raccogliere e poi dover svuotare.)
Le vere scandole di legno sono a disposizione.Basta cercarle sul web”tetto a scandole di legno”e sitrivanoditte regioneli..basta pagarle . Sarebbe auspicabile un contributo pubblico e pure un qualche trattamento conservativo che le facci durare..Per monumenti storici in trentino lo concedono. Certo che baite caratteristiche con coppi o lamierone o tegole di catrame hanno qualcosa che stride…stride meno anche se non e’ il top una scandola con le nervature anche se a benvedere da vicino e’sintetica.I monti sloveni sono molto gettonati da FriulaniVenetoGiuliani e Veneti, che possono raggiungerli nello stessso ordine di chilometraggio e tempo delle dolomiti bellunesi e trentine..pure con escursioni in Austria.( Covid permettendo)
Albert, come per tutte le cose esistono tetti in lamiera ben fatti e delle porcherie assolute.
La stessa locuzione tetto in lamiera vuol dire tutto e nulla.
Ci sono tetti aggraffati in rame o alluminio che sono di fatto eterni. Ci sono soluzioni intermedie in aggraffato il lamiera che se ben verniciato garantisce comunque una buona durata. Ci sono poi quelli in lamiera economici fissati con 4 rivetti che al primo vento volano via.
Io ad esempio le finte scandole non le tollero, le concepisco solo per rivestire i tetti di una capanno per ricovero attrezzi. Ma è una questione di gusto personale.
Conosco la zona solo di passaggio.
Grazie per la dettagliata descrizione e per l’ ottima qualità delle foto. Saluti.
Per farsi un’idea estetica vedi su web: ” da vinci roofscapes”..poi bisogna vedere come funzionano..nel tempo, quanto costano ecc.. Sulla funzionalita’ed economicita’ della lamiera non si discute..pero’ a volte si vedono rivestimenti di lamiera strappati ed accartocciati dal vento..( saranno stati usati tutti gli ancoraggi per resistere a venti intensi??), poi bisogna vedere se ci sono vincoli paesaggistici.Un tempo usavano i fusti di lamiera per carburante, tagliati ed aperti..se ne vedono ancora arrugginiti in zone che dal primo dopoguerra dove si usava cio’ che si poteva , sono nel tempo diventate mete turistiche. Fotografando un borgo dall’alto, si vede che regna una certa anarchia , forse perche’ mancano regole.
La lamiera sul tetto non è rassegnazione ma funzionalità.
dalle foto si vede che pure lì i caratteristici tetti coperti con scandole, sono lentamente soppiantati dalle copreture in lamierona. Chissa’ se ci sono alternative..anzi ci sono :made in Usa e Canada..scandole similia quelle di legno ma di materiali sintetici -resine-minerali certificati in durata, resistenza a vento e a gelo. All’occhio danno lo stesso effetto delle scandole o lastre, nelel nervature e nei colori. In siti Italiani mai sentita una lamentela, ormai sembrano tutti rassegnati alla lamiera.