La Terra ci ha fatto capire che non abbiamo capito. Oggi più che mai abbiamo davanti un nuovo futuro, veramente smart, nel quale ognuno di noi può diventare protagonista di una civiltà fondata sui diritti della natura.
Un nuovo modo di pensare il mondo
(i diritti della Natura)
di Davide Sapienza
(pubblicato su vanityfair.it il 24 maggio 2020)
L’unica cosa infinita che abbiamo a disposizione è l’attimo presente. La vita è un insieme di attimi presenti che non finiscono mai. Basta osservare i processi naturali, di cui noi siamo parte. Ma siamo anche le uniche creature che hanno concettualizzato idee come passato e futuro, spesso abdicando a vivere il presente. Spesso prestando poca attenzione a ciò che nel presente facciamo.
Preoccupati da qualcosa che non possiamo prevedere, ma solo preparare, abbiamo disimparato a pensare come una montagna, oscillare e radicarci come gli alberi, scorrere come i fiumi, osservare come il lupo, solcare l’acqua come i delfini. Così funziona la natura di cui siamo parte. E poi è arrivato il Covid-19 a tenerci inchiodati a un presente continuo, a costringerci in un «durante» nel quale ci siamo sentiti prigionieri: in questa gravissima e tragica emergenza, abbiamo avuto però anche l’opportunità di percepirci meglio, riprenderci lo spazio presente individuale e valutarci nel contesto di una comunità dalla quale siamo stati forzati a distaccarci.
Circola una vignetta piuttosto significativa nella quale il virus si rivolge a Madre Terra, tirata a lucido grazie all’abbattimento dell’inquinamento atmosferico; la domanda di Covid-19 al Pianeta è semplice: «Credi che abbiano capito?». La risposta non la sappiamo. Ma in molti la temiamo. Perché in molti abbiamo scritto, parlato, mandato messaggi, ascoltato riflessioni sull’ecologia e i gravi problemi da decenni non più procrastinabili. Eppure la bellezza creativa e anche produttiva della Terra, nei mesi scorsi, nel pieno della tragedia, è stata abbracciata dalla gioia con cui abbiamo osservato immagini di delfini che tornavano nelle acque pulite della laguna di Venezia, orsi impegnati a fare due passi nei paesi, cervi e tanti altri abitanti della Nazione Animale visitare spazi che noi esseri umani gli avevamo tolto da secoli.
Era bastato poco: qualche settimana e tanti membri della Comunità della Terra si erano accorti che gli esseri umani si erano tolti di mezzo. Eppure, la natura siamo anche noi. Per chi scrive e vive osservando la nostra vita dal punto di vista della Terra, l’abitudine è quella di vederla come il nostro corpo. Ce lo hanno insegnato le filosofie più antiche, dal Tao a quelle greche, ce lo hanno fatto capire le culture indigene, dall’Artico all’Amazzonia. Ce lo hanno insegnato grandi poeti, scrittori, scienziati, artisti e lo abbiamo scritto, soprattutto negli ultimi decenni, più e più volte. Ma tutto appariva astratto, troppo intellettualizzato. Sembrava mancare una pratica brutale della realtà umana viralizzata al punto da doversi ritirare in casa.
Eppure la storia della specie sapiens è la storia di pratiche e pensieri che riconoscevano impliciti diritti alla natura – alla Madre Terra, perché così facendo, rispettandola e attribuendole il ruolo divino che ricopre per noi, li riconoscevano anche a se stesse. Sono i diritti che non prevedevano lo sfruttamento intensivo di tutte le risorse, perché vivendo e praticando con il corpo il territorio, c’era una forte percezione dell’importanza della rigenerazione, del riciclo, del flusso continuo tra morte e vita. La percezione – il sesto senso che include tutti gli altri, elaborandone i messaggi – era non solo più sviluppata, ma tenuta in grande considerazione. E così era l’istinto animale, l’intuizione, la capacità di leggere la propria geografia. Per mettersi in cammino, non si credeva di avere il territorio sotto controllo perché dotati di app sullo smartphone. Si esplorava e si imparava a percepire la realtà. Un vero sistema operativo spirituale e corporeo, il pensiero attivo provocato dal movimento e dall’osservazione, caratteristiche largamente assenti nella nostra società.
Precisamente ciò di cui la politica non si occupa perché la maggioranza non le chiede di farlo. Parlare di diritti civili in quest’epoca, però, significa parlare di diritti della natura, senza i quali difficilmente si potrà sperare di esprimere una società che si ponga la domanda di cosa vuole fare di se stessa, se davvero ha intenzione di mettersi a praticare una vita armoniosa, scegliendo con cura e cultura le proprie priorità. La medicina insostituibile, senza brevetti, è una e globale, ci include in se stessa e si chiama natura. A noi la creatività per farne il miglior uso. Per questo dobbiamo garantirne i diritti: per preservare anche noi stessi dalle sconsideratezze che hanno portato anche a una serie di epidemie sempre più gravi. Fino al Covid-19.
Nel 2002 l’avvocato sudafricano Cormac Cullinan pubblicò un libro, Out of the box, un testo appassionato e puntuale, capace di scaldare il cuore e accendere la mente. Cullinan, piuttosto che Mari Margil e Thomas Linzey negli USA, lavorano da decenni immaginando un nuovo paradigma, ormai conosciuto come Wild Law (titolo originale del libro di Cullinan), la giurisprudenza selvatica, con chiaro riferimento all’importanza di andare verso leggi che da anni sono conosciute come paradigma legislativo dei «Diritti della Natura».
La giurisprudenza attuale ha poche armi contro lo sfrontato assalto alla Terra. L’economia finanziaria supera di gran lunga l’economia reale. La criminalità organizzata, la più grande multinazionale esistente, ha contribuito enormemente alla distruzione di molti ecosistemi, ha infettato quelli politico e sociale in tante aree del mondo e anche negli stati democratici Nelle società globalizzate spesso le leggi sono orientate a favore di chi ha più potere di influenzare il legislatore attraverso l’azione dei rappresentanti politici più vicini alle idee liberiste del capitalismo: gli esempi lampanti sono nell’agroalimentare, dove un formaggio prodotto nel Wisconsin, può chiamarsi Parmesan (Parmigiano), in barba alle caratteristiche organolettiche uniche di ogni suolo. Orientare il paradigma legislativo in modo da disinnescare all’origine lo squilibrio del potere tra noi cittadini e chi lo esercita o lo fa esercitare è sempre più urgente, ma bisogna prenderne coscienza e il lavoro che abbiamo fatto negli anni scorsi è stato capito poco anche da chi doveva e poteva capirlo, il mondo ambientalista.
Se un essere umano è una «persona fisica» ma lo è anche una corporation, questa parificazione, in maniera lampante, svela il nodo da sciogliere: a tutte le componenti della Comunità Terra (alberi, fiumi, animali, rocce, mari, montagne, ecc) va tolto lo status di «oggetti di proprietà» e dato quello di «persona». Mentre alla corporation va assolutamente tolto questo privilegio, subordinandola agli interessi della Comunità della Terra, non permettendole di sovrastarla. Nel 2008, a seguito di un referendum popolare, l’Ecuador introdusse nella sua nuova costituzione i diritti della Madre Terra che, nel 2010, in Bolivia, con il coordinamento di Cullinan portarono alla Dichiarazione Universale dei Diritti della Madre Terra, inclusa nell’edizione italiana di I Diritti della Natura. Wild Law (Piano B Edizioni, 2012) e che così si apre:
«Per molte persone, l’idea di puntare a vivere secondo le “regole” della comunità o del sistema Terra nel cui ambito siamo venuti al mondo, appare ancora una cosa radicale piuttosto che un fatto evidente e spontaneo. Io credo che l’unica prospettiva vera e realistica per assicurarci quel genere di futuro al quale quasi tutti aspiriamo è quella in grado di apportare cambiamenti fondamentali al modo in cui le nostre società vengono normate, ispirati da una prospettiva che pone al centro del progetto la Terra. Il cambiamento climatico e le altre crisi ambientali sono la diretta conseguenza dell’avere fallito l’allineamento dei sistemi di amministrazione con le regole fondamentali del sistema Terra, di cui facciamo parte. Gli esseri umani continueranno a violare i limiti e a sconvolgere gli equilibri ecologici fondamentali se non introdurremo dei sistemi di regolazione della condotta umana che assicurino di conformarci alle regole fondamentali della Comunità Terra».
Ci sono stati esempi di adozione dei diritti della natura. La città di Pittsburgh, Pennsylvania nel 2010, il fiume Vilcabamba in Ecuador nel 2011, due di vari esempi che troviamo nella timeline del sito di riferimento Rights of Nature. Per capire che differenza farebbe adottare i diritti della natura come paradigma legislativo, basti ricordare il disastro della piattaforma petrolifera offshore Deepwater Horizon nel Golfo del Messico, con il mostruoso sversamento di petrolio durato dal 20 aprile al 10 agosto 2010. La BP, corporation britannica, raggiunse un accordo con il Dipartimento di Giustizia statunitense per una penale di 4,5 miliardi di dollari e in seguito gli stati americani colpiti dal disastro e il governo federale raggiunsero un’ipotesi di risarcimento sui danni ambientali da 18,7 miliardi di dollari. Ma l’ecosistema come si ripristina? Nel documentario La Bugia Verde di Werner Boothe si capisce come questo disastro colposo sveli anche i limiti dei risarcimenti per danni ambientali così architettati. Chi li provoca gestisce il «ripristino», spesso di copertura e quasi mai mirato alla radice del problema. Oltre a non poter ridare la vita agli undici tecnici morti, il trauma, le malattie e i danni permanenti cagionati a esseri umani, fauna marina e terrestre, diventano «effetti collaterali». Con i principi legislativi dei diritti della natura il mare, in quanto «persona giuridica» avrebbe potuto fare causa alla BP essendo un ecosistema vivente, nel quale prosperano diverse specie – umani, animali, piante – rigettando il metodo di «pulizia» delle acque che lo ha distrutto.
I Diritti della Natura esigono da noi esseri umani risposte diverse e cure differenti: più cultura, più rapporto con il nostro corpo come vettore di percezione del mondo, più ecologia della mente e dello spirito, perché l’ecologia è educazione alla percezione. Un lavoro lungo e profondo, che non deve basarsi però sul do ut des delle attuali forme giuridiche: io faccio una legge sull’ambiente, ma in cambio concedo comunque certe pratiche (come l’inaccettabile «Minimo Deflusso Vitale» dei fiumi in Italia, che ha normato il coma artificiale della Vita, visto che si parla di acqua). Questa è una vera malattia: si chiama antropocentrismo ed è un vocabolo che abbiamo sentito girare sempre di più da qualche anno a oggi. Una visione della vita che facciamo fatica ad abbandonare: ma non esiste altra strada.
La Comunità della Terra sa che i malati siamo noi. Il vero lavoro del presente continuo – il vero smart working che ognuno può fare sentendosi terminale del cambiamento e per arrivare al nuovo paradigma – è diventare protagonisti paritari in una civiltà fondata sui diritti della natura globali, in grado di creare automatismi normativi che fermino sul nascere pratiche non più accettabili (turismo di massa fuori misura che va contingentato, assalto a mari e montagne – come per gran parte delle opere che si vogliono realizzare per i giochi olimpici invernali di Milano-Cortina 2026 – consumo di suolo, agricoltura intensiva, pratiche agroalimentari in un sistema di vita fondato sullo sfruttamento intensivo della persona e pratiche miopi, a breve termine).
La Terra ci ha fatto capire che non abbiamo capito. Si è visto in pochi giorni di riapertura: sversamenti nei fiumi, cielo più inquinato, nessun programma di qualsiasi genere sulla riduzione dell’inquinamento, nonostante gli studi sulle possibili correlazioni con la trasmissione del virus che ha colpito disastrosamente di più in una delle regioni più inquinate d’Europa, la Lombardia. Eppure milioni di persone del mondo, da anni, si associano e formano movimenti, chiedendo questo cambiamento di paradigma.
Per citare di nuovo Cullinan «In termini giuridici, gli animali, le piante e quasi tutte le altre espressioni del pianeta sono oggetti di proprietà di un essere umano o di una “persona giuridica” artificiale tipo un’azienda e in qualsiasi momento potrebbero entrare in possesso di qualcuno, per esempio attraverso la cattura o l’uccisione. Finché il diritto considera le creature viventi “cose” e non “esseri viventi”, esso sarà cieco di fronte alla possibilità che queste possano diventare soggetti (cioè detentori) di diritti. Giuridicamente, è assolutamente inconcepibile pensare che un oggetto sia detentore di diritti. In altre parole, in quasi tutto il mondo la filosofia del diritto non riconosce, come dice Thomas Berry, che «l’universo è una comunione di soggetti, non una collezione di oggetti».
Per esperienza diretta, ho riscontrato che la frase «Diritti della Natura» fa scattare un atteggiamento difensivo. Questo perché si ignora veramente un principio base, elementare quanto irrinunciabile: i diritti della natura includono anche noi. Per garantire i diritti di un bambino, occorre prima garantire i diritti di sua mamma, è così difficile capirlo? La nostra creatività avrebbe certamente le capacità di ripercorrere a ritroso i processi distruttivi praticati in questi ultimi tre secoli e di convertirli in processi virtuosi e meno impattanti: ma per arginare e invertire l’inquinamento e la contaminazione della biosfera, la perdita dei terreni fertili, la desertificazione, l’impoverimento delle riserve di acqua potabile e di pesce, la distruzione delle foreste e degli habitat delle specie selvatiche e l’impennata dei livelli di consumo uniti alla crescita della popolazione, come scrive Cullinan, bisogna anche riconoscere a tutte queste componenti della Comunità Terra gli stessi diritti che abbiamo noi.
Dobbiamo farcene una ragione: non siamo al centro dell’Universo. Non siamo neanche più al centro delle nostre vite, in balia di pandemie, lockdown, limitazioni alla nostra libertà di movimento, crisi finanziare criminali come quella del 2008 (basti vedere il film The Big Short, per capire perché). È arrivato il tempo. La giurisprudenza selvatica – la legge naturale scritta nel nostro dna come in quello di un albero, di una farfalla, di un fiume – ci sta spiegando cosa significa, veramente, essere una Comunità. Sarebbe la cosa più smart del secolo.
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