Un sorriso radioso
(ritratto “torinese” di Andrea Mellano)
di Carlo Crovella
Da torinese quale sono, ho una certa ritrosia a raccontare avvenimenti i cui risvolti sono molto personali, a volte “intimi”, nel senso che riguardano incontri e conversazioni che si sono svolti in modalità separata e riservata. Magari tutto ciò matura per pura casualità, senza premeditazione, ma gli elementi che ne derivano dovrebbero rimanere nella sfera esclusiva dei personaggi coinvolti.
Per tale motivo ho dovuto metabolizzare a lungo quanto mi è giunto in regalo dalla conoscenza con Andrea Mellano, scomparso nell’agosto 2024. Però il trascorrere del tempo ha fatto evolvere i ricordi e ora, nel limite di ciò che può “essere raccontato”, mi sento pronto a condividere alcuni momenti di particolare intensità.
La nostra è stata una conoscenza tardiva e, in più, scaturita da un motivo concreto. Tradiva perché prima non c’erano le condizioni: troppo marcata la differenza di età perché potessimo condividere l’attività in montagna e, forse, troppo profonda la differenza di spessore alpinistico per incontrarci davvero in parete. Certo capitava di vederci in eventi istituzionali, ai Cappuccini come alla libreria di via Sacchi: sono sempre andato io a salutarlo, con deferenza, e lui alla fine mi ha memorizzato, ma è anche capitato che non ci vedessimo per mesi e mesi.
Nel corso del 2023, dal nulla, prendo l’iniziativa e lo contatto: l’obiettivo è farmi raccontare la sua vita, alpinistica e non solo. Il tutto rientra nella mia attività di ricerca che spero veda presto la luce in versione editoriale, grazie anche alla collaborazione con altri autori di pregio. Proprio in questo ambito ho scoperto la mia particolare predilezione nel rincorrere le trame di vita che gli alpinisti, di ogni livello tecnico, costruiscono attraverso l’andar in montagna. Storie di individui, con i loro obiettivi, le preferenze, le simpatie, le fisiologiche rivalità, a volte i contrasti e le successive riappacificazione. Ma soprattutto storie di amicizie pluriennali e dall’elevato spessore umano. Intuisco che Mellano è una vera miniera in tutti questi campi, ma la realtà mi sorprenderà ancor più positivamente.
La sua prima reazione al telefono, con fare molto torinese, è un po’ guardinga: “Ma cosa vuole questo qui?” gli leggo fra le righe delle frasi che mi rivolge, affabili ma giustamente prudenti. Però non nega minimamente la sua disponibilità e quindi mi precipito a trovarlo.
Gli spiego il progetto e gli scappa “Ah boja fauss, che bela roba!”. Colgo la palla al balzo e gli confido che mi piace sentir parlare in dialetto, proprio perché in casa mia si parlava solo italiano (mia madre era milanese): devo recuperare il tempo perduto. A proposito: preciso che scrivo in piemontese più o meno come lo pronuncio, quindi anche con degli strafalcioni, non avendo mai studiato la grammatica, per cui chiedo venia per i miei errori ai cultori sopraffini della nostra meravigliosa lenga.

Mentre chiacchieriamo, ad Andrea brillano gli occhi, ormai si sente a suo agio e non ha più remore. Sarà casuale o voluto, ma nelle nostre chiacchierate infilerà frasi interlocutorie in piemontese. Chissà se è andata veramente così o se così tante frasi sono frutto della mia rielaborazione di questi lunghi mesi, mah…
Nel frattempo la sua iniziale prudenza è ormai un ricordo: anzi Andrea diventa un fiume in piena, racconta tutto e anche di più, con il classico entusiasmo che emerge quando si oltrepassa l’iniziale diffidenza piemontese.
Della sua esistenza sintetizzo i risvolti che ben caratterizzano la sua persona. Nato nel 1934 ad Asti, Andrea ritorna definitivamente a Torino subito dopo la guerra. Per contribuire al budget familiare deve iniziare prestissimo a lavorare come fabbro, pur seguendo le scuole serali. Viene poi assunto alla FIAT, ma continua a frequentare le scuole perché vuole diventare geometra. A ridosso dell’esame per il diploma, chiede qualche giorno di permesso, ma si sente rispondere: “Alla FIAT non abbiamo mica bisogno di geometri”. Allora prende ferie e così si diploma (tiè!). L’episodio sottolinea la durezza del mondo del lavoro torinese, ma anche la testa altrettanto dura di Mellano. Qualche anno dopo Andrea passa al Comune, dove rimarrà fino alla pensione, operando nel settore degli impianti sportivi. Questo elemento è un tassello chiave per l’arrampicata torinese e non solo. Nel frattempo Andrea si sposa (nasceranno due figlie) e poi si laurea in Architettura.
La sua stagione alpinistica più eclatante è degli anni Sessanta, quando è innegabilmente uno dei motori evolutivi dell’alpinismo torinese, pur muovendosi sempre da libero battitore. Per scelta non si fa coinvolgere nella Scuola Gervasutti, allora vera enclave degli alpinisti subalpini di punta. Questo distacco consente ad Andrea una libertà di azione che per lui è senza prezzo.
Con il lombardo Romano Perego (suo abituale compagno di cordata in quel periodo), Mellano è stato il primo italiano a salire le tre grandi pareti nord degli anni Trenta (Eiger, Cervino e Walker alle Jorasses), spesso passando attraverso bivacchi di tregenda in mezzo a bufere spaventose. Tra l’altro Andrea diventa Accademico nel 1961 e sarà poi nominato Socio Onorario del CAI nel maggio 2024.
Ma a noi torinesi, Andrea è caro soprattutto per quella magnifica via (condivisa con Romano Perego e con il genovese Enrico Cavalieri) che risale lo spigolo ovest del Becco di Valsoera, il “nostro Dru” come a noi piace considerarlo, aprendo la stagione delle grandi difficoltà su quella importantissima parete.
Nei nostri incontri Andrea diventa sempre più un fiume in piena, non riesco ad arginarlo. Ogni volta arriviamo troppo presto al termine della chiacchierata: occorre rimandare a un altro incontro e poi a un altro e a un altro ancora. Non è un supplizio stare ad ascoltarlo: emerge sempre di più quella concretezza piemontese che a me piace così tanto. È un elemento che spesso si trova seminascosto nei particolari: per esempio, dopo un tentativo alla Nord del Cervino, ovviamente con bivacco in parete e numerose traversie, tornato a Plateau Rosa non scende mica in Valtournanche per raggiungere dal basso la Val d’Ayas, dove la famiglia è in villeggiatura. Prosegue invece risalendo fin sotto ai Breithorn, per scendere dall’alto in Val d’Ayas e arrivare a piedi dai suoi. “A sun dime: marcia ca’t fa bin!” (Mi sono detto: cammina che ti fa bene).
La laurea e la nascita di due figlie interrompono la stagione del grande alpinismo sulle Alpi, sostituito da alcune spedizioni extraeuropee, a volte dal carattere alpinistico, altre più ricreativo ed esplorativo.
Poi arriva l’altro passo chiave. Verso la fine degli anni Settanta la giunta Novelli decide di ristrutturare il Palazzo a Vela, una delle tante strutture costruite per la commemorazione (1961) dei 100 anni dell’Unità d’Italia. L’interno è costituito da un’enorme pancia, in quel momento non utilizzata. Se ne vuole fare un palazzetto dello sport, in un quartiere periferico (Mirafiori), per offrire un’opportunità ricreativa e sportiva ai residenti, con pista da atletica e svariati cambi da pallavolo e altro. L’Assessore alla Sport, Fiorenzo Alfieri, ha una visione illuminata ed è anche un appassionato di montagna, pur su modesti livelli. Nella sua squadra, però, c’è anche Mellano che non si lascia sfuggire l’occasione: ipotizza, progetta, cura i lavori e porta a regime la palestra coperta di arrampicata, poi dedicata a Guido Rossa. All’inaugurazione ufficiale della palestra sono presenti le autorità cittadine (con Diego Novelli in prima fila) e vari ospiti illustri (tra cui Reinhold Messner e Wanda Rutkiewicz), tutti in rispettoso silenzio durante il discorso celebrativo di Massimo Mila.
La palestra coperta è un momento fondamentale per l’evoluzione dell’arrampicata torinese e non solo. Al Palavela, come noi lo chiamiamo familiarmente, passano tutti, dai grandi nomi come Berhault, all’astro di casa Marco Bernardi, fino agli sconosciuti terzogradisti in camicia a scacchi e scarponi rigidi: “’As grupavu an tal pullman – precisa Mellano – A l’era bel vëdde tüta sta gent ca rampiava ansema! (Si legavano già sul pullman, era bello vedere tutta sta gente che arrampicava assieme)”.
E poi c’è Andrea Giorda. “Ah, cul birichin ‘d Giorda” mi ripete spesso Mellano. Giorda, allora poco più che ventenne, è di fatto il primo istruttore di arrampicata libera (così la si chiamava al tempo) e crea dal nulla la didattica della palestra al coperto. Marco Bernardi inventa invece il concetto di arrampicata sportiva e tutti oscillano ripetutamente fra Palavela e bassa Val di Susa: nasce così una nuova generazione di climber, di cui i nomi più noti sono probabilmente quelli di Andrea Gallo e Giova Massari.
Tutto questo sotto la saggia e defilata regia di Andrea Mellano, affiancato dal fido amico Emanuele Cassarà, personaggio che non gode, purtroppo, di giusta considerazione storica (forse per un non eccelso talento personale), ma che è un altro gran “cucitore di trame” della Torino alpinistica di quei decenni.
I tempi maturano rapidamente e le gare sono nell’aria. Muove le acque Mellano, spalleggiato da Cassarà e Bernardi. “Uhhh, quante me ne hanno dette – ricorda Andrea – Mi hanno perfino accusato di essere il disfacitore dell’alpinismo classico”. Quando non mi parla in dialetto, il suo italiano assume comunque un inconfondibile accento torinese.
Non è stato un periodo facile, sottoposto a mille fuochi incrociati, ma uno che ha bivaccato nella tormenta sulle Nord oltrepassa con determinazione anche queste imboscate della vita. Così arrivano le gare: è SportRoccia ‘85, a Bardonecchia. Alcuni climber di rilievo prendono le distanze dalle gare, scrivono il celebre Manifesto dei 19, ma poi, lemmi lemmi, torneranno negli anni sui loro passi. Berhault invece non abiurerà mai e per Andrea resta un piccolo cruccio, anche se il rapporto personale non ne risente profondamente.
Alle gare segue la costituzione della FASI, la federazione di arrampicata: Andrea sarà il primo vero presidente (1987-1998), facendola crescere come un figlio, fino a vederla diventare una istituzione robusta e ben strutturata.
Per la storia va ricordato che il Palavela come lo abbiamo conosciuto noi è stato “smontato” in previsione delle Olimpiadi 2006 e da allora è un palazzetto del ghiaccio, in particolare dedicato alle gare di Short Track.

Torniamo a Mellano. Nelle nostre chiacchierate abbiamo ormai spazzolato tutto, ma io sento che manca un tassello conclusivo. Le informazioni storiche sono state acquisite, forse c’è solo da mettere la ciliegina sulla torta, il brindisi finale, come una specie di reciproca congratulazione per il viaggio compiuto insieme.
Solo che questo incontro ritarda. Un po’ io sono impegnato in altre conversazioni, sempre per lo stesso progetto editoriale, un po’ non ci troviamo per i nostri vari impegni. Casualmente nella tarda primavera 2024 ci incontriamo in un evento alla libreria di via Sacchi: al primo sguardo capisco che non è lo stesso Andrea, ha le spalle un po’ ingobbite, il viso tirato, è visibilmente affaticato. Appena terminata la presentazione di un libro, mi saluta rapido: “Ah, mi vadu, sun propri strac (Ora vado, sono proprio stanco)”. Nelle settimane successive gli telefono un po’ di volte, ma preferisce rinviare l’incontro, non è da lui e non sono tranquillo.
Un giorno lo chiamo, ma il suo telefono squilla a vuoto, senza risposte. E poi, nelle ore successive, altre due volte così. Alla sera, quando suona il mio cellulare, vedo il suo numero sul display, tiro un sospiro di sollievo. Invece sento un’imprevista voce femminile: la figlia mi dice che Andrea è stato ricoverato in ospedale. Le informazioni sono un po’ nebulose, anche per la tradizionale riservatezza torinese, in più io non pongo domande che sarebbero inopportune in quel contesto, per cui non riesco a farmi un quadro preciso, certo l’età è quella che è…
Inizia una ridda di telefonate e messaggi con altri alpinisti torinesi e non solo, le notizia si accavallano, corrono più veloci delle emozioni. Finalmente mi dicono che qualcuno è andato a trovarlo in ospedale, perché Andrea è uscito dalla crisi che ha richiesto il ricovero, anche se resta sotto osservazione. Mi precipito, giro per il reparto, non riesco a individuarlo, in corridoio chiedo informazioni a un’infermiera. Mentre lei controlla i tabulati, nella stanza al mio fianco vedo un braccio alzarsi da uno dei letti. Una voce mi chiama: “Crovella, sun sì!”
Mi avvicino circospetto, temo una visione spettrale. Invece Andrea è in forma: cambiato di fresco, barba ben curata, viso pulito. Si nota la mano della moglie: a Torino piace esser sempre “propri”, che significa “a posto”.
“T’ses propri fortunà, ancöj mia fumna l’è andaita a fè ‘na cummisiun, l’uma un’orëtta tüta per nui (Sei proprio fortunato, oggi mia moglie è andata a fare una commissione, abbiamo un’oretta tutta per noi)”.
Sono stupefatto: mi aspettavo un paziente sofferente, appena uscito da una crisi acuta, temevo di non saper cosa dire di fronte a una situazione imbarazzante. Invece ho davanti a me il solito Andrea, allegro e pimpante, di nuovo un fiume in piena: “Pìa ‘na cadrega, butte sì e ciaciaruma ‘n po’ (Prendi una sedia, mettiti qui e chiacchieriamo un po’)”.
Rispolveriamo tutta l’ultima parte dal Palavela in poi, cita i nomi uno per uno, si vede che vuole un bene dell’anima a tutti quelli che sono transitati da lì. La chiacchierata fa bene anche a me, l’umore cambia, da pesante si evolve in allegria. Andrea gesticola, parla, ride, fa progetti: “Mi vurìa andé a cà mia. Gliel’ho detto ai dottori, neh: per piacere mandatemi a casa, poi io sto a letto anche tutto il giorno, ma almeno sono a casa mia e fasu tüte le mie cose”.
“Ma Andrea cos’è che hai da fare?” mi accorgo dell’invasione di territorio solo quando la frase è già uscita, non posso rimangiarmela.
“Oh, ma insomma, mi l’hai da fè. Tüti ch’am disu ‘d stè tranquil, ma mi l’hai da fé… Mi l’hai mila cose da fé” (Oh ma insomma, io ho da fare. Tutti mi dicono di stare tranquillo, ma io ho da fare… Io ho migliaia di cose da fare”).
Inarrestabile: sulla soglia dei 90 anni, reduce da una crisi acuta, ha ancora in mente migliaia di progetti!
Però anche quella chiacchierata a un certo punto volge al termine: è ora di andare. Lo saluto: mi risponde con un sorriso radioso, gli occhi vispi che saltano come grilli nei campi d’estate. Un uomo che pensa a mille progetti non può essere triste né depresso.

”Ciau Crovella, stame bin, neh” e saluta con la mano, come fosse sul parapetto di una nave in partenza.
Mi fermo alla porta che dà sul corridoio, mi giro e lo guardo di nuovo: è ancora là che mi saluta affettuosamente con la mano, il suo sorriso radioso illumina la stanza. Quel sorriso radioso è l’immagine che mi resta impressa nella memoria.
Mi riprometto di tornare presto a trovarlo, ma siamo ormai in estate, sulla soglia delle ferie e vari impegni si mettono di mezzo. Quando provo a chiamarlo, il telefono suona a lungo, ma nessuno risponde. Mi consulto con gli amici, anche a loro accade lo stesso, neppure i messaggi whatsapp hanno una risposta. Nella ragnatela di conversazioni frenetiche si inseriscono anche Accademici e alpinisti di altre città, perché Andrea è conosciuto e amato ben oltre i confini di Torino.
Questa fase si prolunga per un po’. Nessuno di noi ha il coraggio di parlare franco, giriamo intorno al concetto, non si capisce se per pudore o per incredulità. Però l’umore generale ha virato, si percepisce che sta maturando l’inevitabile. Quando mi arriva la notizia della sua scomparsa non sono sorpreso. Piuttosto sono attonito, ho come una vuoto dentro.

Di lui mi resta l’immagine del suo sorriso radioso e lo scopo di questo racconto è invitare tutti a ricordarlo come sono riuscito a vederlo in quell’ultima occasione: attivo, allegro, sereno. Nel suo sorriso radioso a me piace leggere un messaggio molto torinese, una fase che mi ripeteva spesso mio padre: “A l’hai fait ël mè” . Non so se fosse solo un’interpretazione di mio padre, ma con quella frase lui voleva dire “Ho fatto la mia parte” cioè “Ho fatto il mio dovere”. Dovrebbe essere il pensiero di ogni fine giornata, quando guardi a ritroso com’è andata e ti ritieni soddisfatto di ciò che hai combinato.
Per cui collego lo stesso concetto anche al sorriso di Andrea quando ci siamo salutati. Ho fatto il mio dovere – così immagino che volesse dirmi – ho affrontato bivacchi e tempeste, in montagna come nella vita, e ora sono sereno. Ho condotto la mia barca attraverso quell’oceano turbolento che è l’esistenza e, adesso che sto per arrivare all’attracco definitivo, non ho timore del giudizio. Sono sereno perché ho fatto quello che dovevo fare e l’ho fatto come andava fatto, che poi è anche il modo in cui piace a me fare le cose.
“A l’hai fait ël mè”: è il commiato più bello quando è ora di lasciare questo palcoscenico terreno.
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Benassi. Lui non fece nulla anzi!!. Era probabilmente l’ambiente Torinese che gli andava stretto.
Stigmatizzare: biasimare, censurare, condannare, deplorare, deprecare, disapprovare, rimproverare
Perchè? Che fece di così tanto male?
A proposito dell’ambiente alpinistico torinese.
Tempo fa ho letto la cronaca della risalita della via al Valsoera.
Era un anniversario della prima; l’estensione, dopo un prologo di circostanza, prese a narrare delle varianti da lui apportate, delle sue salite, insomma di sé.
Ancora, il medesimo, penna irrefrenabile, nella commemorazione del palavela, mise più foto sue che di Mellano.
Insomma: nani sulle spalle di giganti
Mellano un gigante dell’alpinismo che per un lungo periodo ha evitato l’ambiente alpinistico Torinese… cosa che credo sia sufficiente a stigmatizzarlo.
Dopo Mellano il nulla.
Anzi, solo più pipponi autocelebrativi del proprio microego, cantori del loro trapassato remoto.
sul Mellano alpinista, nulla da dire, certamente un grande.
Sull’apporto di Mellano e Cassarà alla storia dell’arrampicata e dell’alpinismo si potrebbe invece aprire una bella discussione, che potremmo forse intitolare “la morte dei nuovi mattini”
Matteo, ma io mica mi incazzo, il ricordo è piacevole (anche quello di Crovella) se non fosse intercalato e appannato, ogni 3×2 dal prevalere dell’ego dell’autore.
Come se Motti, nella sua storia dell’alpinismo (absit iniuria verbis), ce la menasse ogni due pagine quanto era figo suo padre piemontese per come chiudeva i barattoli della marmellata… o quanto era sabaudo Boccalatte, per quel suo piglio così simile a quello di zio Motti.
E’ quello che più mi è piaciuto del personaggio ed è per quello che l’ho raccontato.
Non penso che interessi a qualcuno che io l’abbia fatta o meno…a parte me, intendo.
Comunque ce l’ho lì e non ho ancora perso tutte le speranze Alberto!
Allora vai che è bella!!!
Ciao Matteo, quello è proprio un esempio di understatement piemontese.
QUELLO.
Ho un ricordo personale di Andrea Mellano, così MG si incazza un po’ di più! 🙂
Eravamo tre cordate di milanesi al Pontese per andare a ripetere la Mellano-Perego-Cavalieri.
Al rifugio eravamo solo noi, sabato avevamo arrampicato in val dell’Orco, quindi sveglia tranquilla, che la via è a nord e all’attacco ci fa sempre un bel freddo.
Arrivati sotto ci accorgiamo che ci sono tra persone davanti a noi…qualche sbofonchio e qualche recriminazione a mezza voce (io ve l’avevo detto, banda di cazzari) ma vabbé, le giornate di giugno sono lunghe e il tempo è bello.
Si chiacchiera, qualcuno riconosce Giorda e viene fuori chi è l’ospite d’onore. Complimenti, strette di mano, espressioni di rispetto e il primo dei torinesi parte.
Benché la direzione generale della via sia chiarissima l’attacco lo è un po’ meno e il primo dei piemontesi, grazie anche alle indicazioni di Mellano, sbaglia clamorosamente, sale dritto anziché girare uno speroncino sulla sinistra e si incroda in un posto francamente osceno 10m più sopra.
Manovre “artistiche” con la corda e dopo un po’ ridiscende
Nel frattempo la prima cordata milanese ne approfitta per passare dalla barte giusta e guadagnare la prima posizione.
Riparte il primo dei torinesi e arriva in sosta, ma le manovre precedenti hanno avuto uno strascico: le corde sono diventate un groppo inestricabile e si perde altra mezz’ora.
La seconda cordata milanese opta per fare il diedro giallo, la terza decide che ne ha piene le tasche e va a cercarsi un altro posto dove arrivi almeno un po’ di sole.
A fine giornata ci si riincontra al Pontese per la birra di rito prima della discesa.
Chiacchiere, ari-complimenti a Mellano che a quell’età.
Mentre ci si prepara Mellano mi si fa vicino e a bassa voce mi fa “scusate neh per il casino di stamattina, siamo stati un po’ lentini…e poi dopo tutto ‘sto tempo mica mi ricordavo bene dove passava la via…”
Ho apprezzato moltissimo.
Però la Mellano-Perego-Cavalieri non l’ho ancora fatta!
Interessante contributo al ricordo di una persona e alpinista di livello.
ricordo o intervista il focus dovrebbe essere su Mellano, non su quanto è ganzo bravo, figo e sabaudo il ricordante.
Grazie per il ricordo di Andrea Mellano.
P.S. Come indicato nel sottotitolo, si tratta di un “Ritratto ‘torinese’ di Andrea Mellano”.
Un “ritratto”, non un’intervista.
quando l’intervistatore prevale sull’intervistato e parla solo di se’…
mah, di questa roba se ne puo’ tranquillamente fare a meno.
credo che Mellano meriti ben altri esegeti.