Una duplice storia di rinascita
di Eugenio Cipriani
(pubblicato su Le Alpi Venete, primavera-estate 2023)
Quella di cui fui da un lato testimone e dall’altro protagonista in un giorno di marzo del 1989 è la storia di una duplice rinascita accompagnata da una perdita definitiva. Da oltre un decennio praticavo alpinismo e arrampicata, soprattutto arrampicata su roccia, e da circa sette anni mi legavo spesso e volentieri a Carlo Andrighetto, un alpinista veneziano residente come me a Verona. Era più vecchio di me di circa sedici anni e, ai tempi dell’università, aveva arrampicato con “mostri sacri” dell’alpinismo internazionale come Claude Barbier ed Enzo Cozzolino, con i quali aveva aperto anche alcune vie che già figuravano nella Guida Berti delle Dolomiti orientali pubblicata dal CAI-TCI nel 1971.
Per qualche tempo a causa di impegni professionali e di ricerca, Carlo aveva diminuito le uscite in montagna ma nel frattempo era diventato docente universitario presso l’Ateneo veronese di Medicina. Aveva ripreso ad arrampicare con costanza nel 1980, l’anno in cui ci conoscemmo casualmente in una palestra di roccia di Verona. L’incontro venne contrassegnato da una mia gaffe che poi nel corso della nostra lunga amicizia Carlo mi avrebbe più volte scherzosamente rinfacciato. Dopo aver arrampicato assieme e chiacchierato per tutto il pomeriggio chiamandoci per nome ma, per educazione, dando io del “lei” a lui e giustamente dando lui del “tu” a me che ero ben più giovane, osai timidamente chiedergli quale fosse il suo cognome. Il personaggio, infatti, sembrava nascondere trascorsi alpinistici di tutto rispetto, almeno a sentire ciò che mi andava raccontando fra un appiglio e l’altro. Per soprammercato, caratterizzava il suo aspetto una folta ma candida capigliatura che lo rendeva ancor più “venerando” di quanto già non lo rendesse la sua poi non così vetusta età. Ancora intriso di letture salgariane risalenti ai miei anni di adolescenza passati non da molto, guardavo ammirato quest’uomo “incanutito dal fuoco di mille battaglie”, come lo avrebbe appunto descritto il grande romanziere veronese. Quando mi svelò il cognome ebbi un soprassalto. «Ma, ma – balbettai sorpreso – io ho ripetuto l’anno scorso sulle Dolomiti una via aperta sull’anticima nord del Col Boccia da Claude Barbier assieme a uno che di cognome si chiamava proprio come lei!». Lui sorrise e la sua dentatura candida emerse dalla folta barba color pepe-sale mentre gli occhi si assottigliavano, regalandogli un’aria furba e piratesca al tempo stesso. «Ero proprio io», rispose. Poi, notando che il mio stupore non accennava a diminuire, mi chiese: «Perché quella bocca aperta?».
«Perché – dissi io – la credevo morto!»
«Morto, e perché mai?» fece lui, a sua volta meravigliato quanto il sottoscritto.
«Oh bella – ribattei assolutamente convinto – perché la maggior parte degli alpinisti citati nella guida Berti sono morti: Comici non è forse morto? E Preuss? E Piaz? E Castiglioni? E gli stessi Barbier e Cozzolino, con cui lei ha arrampicato, non sono forse tutti morti? Perché lei dovrebbe fare eccezione?».
«Perché sono vivo – ribatté lui accennando un appropriato gesto apotropaico – e conto di restarci a lungo.» E, a sottolineare la propria affermazione, aggiunse una sonora imprecazione veneziana che non posso riferire.

Temetti, a quel punto, di aver compromesso sul nascere un nostro possibile sodalizio alpinistico. Fortunatamente Carlo, oltre a essere una persona molto intelligente, era pure spiritoso e per nulla permaloso. Si limitò a darmi del “mona”, cosa che peraltro avrebbe fatto negli anni a venire numerose volte. Concludemmo la giornata scambiandoci i numeri di telefono che al tempo era l’indimenticabile “Sirio” della SIP, onnipresente nelle case degli italiani. Ci ritrovammo qualche giorno dopo e da allora compimmo decine e decine di scalate assieme. Inizialmente, data la differenza di età e di esperienza alpinistica, continuai con un ossequioso “lei”, ma dopo qualche mese l’assidua frequentazione ci trasformò in amici e passammo al “tu” anche se io, lo confesso, mi sono sempre sentito in sua presenza un po’ in soggezione, un po’ come un figlio al cospetto del padre.
Le cose sarebbero cambiate quel giorno di marzo del 1989, ma non lo potevo ancora sapere. Una cosa, però, in quegli anni che andarono dal 1980 al 1989 avevo capito. Carlo sentiva e soffriva lo scorrere del tempo, il passare degli anni, il trapasso dalla giovinezza alla piena maturità. Il confronto frequente con me, allora ventenne, accentuava in lui questa sensazione. Aveva però un antidoto contro la vecchiaia, conosceva l’elisir di eterna giovinezza: era l’alpinismo, l’arrampicata. In inverno andavamo entrambi “in letargo”, a parte qualche “invernale” su qualche cima dolomitica tanto per “ripassare la materia”, ma in primavera si ricominciava sul serio.
E ogni primavera, per lui, era un eterno ritorno, una palingenesi, una rinascita. Non ne parlammo mai apertamente, ma sono certo di questo. Sono certo perché decenni dopo è diventato così anche per me, che ormai ho 63 anni ma, al contatto con la roccia calda a primavera, provo l’entusiasmo di sempre e vivo anche’io la mia piccola rinascita, l’annuale e sempre più fragile palingenesi. Per entrambi la montagna e la scalata rappresentavano una dimensione mitologica e, si sa, ogni mito ha origine da un rito come scrive Thomas Mann nel Pozzo del passato. E la rinascita era un rito scandito dagli allenamenti di fine inverno sulle palestre vicino alla pianura e poi, quando ci si sentiva pronti, dalla prima scalata in montagna su una “vera” parete. Quell’anno, a fine marzo, in Dolomiti c’era ancora tanta neve e tempo troppo instabile per il rito d’iniziazione in alta quota. Decidemmo allora di effettuarlo sulle Prealpi vicentine scalando una cima che, benché di modesta altitudine (2000 metri), presentava un versante roccioso di considerevole sviluppo e difficoltà. Optammo per una classica salita di sesto grado, la “Boschetti-Zaltron” al Soglio d’Uderle. Un itinerario molto noto che supera un pilastro alto circa 400 metri di cui i primi 200 circa sono strapiombanti. Il tratto strapiombante viene aggirato salendo da destra a sinistra in leggero obliquo per circa 6 lunghezze di corda. Una volta sopra gli strapiombi c’è ancora un passaggio impegnativo ma poi le difficoltà calano. La cosa peggiore che può capitare è bloccarsi, per incapacità a proseguire o per un incidente, al di sopra degli strapiombi: un’eventuale ritirata in corda doppia da lassù implica infatti manovre acrobatiche per calarsi obliquamente come si è saliti. La calata diretta, infatti, è tecnicamente impossibile.
Era un giorno infrasettimanale di tempo uggioso ma asciutto. Non c’era anima viva. Però non minacciava pioggia e noi eravamo pronti al “rito di iniziazione”. O meglio: io ero pronto. Carlo invece, quel giorno, benché non volesse ammetterlo, non c’era con la testa, nel senso che il suo corpo era lì, in parete, ma la mente vagava altrove. Salimmo a comando alternato e il primo tiro volle farlo lui. Il problema mi apparve evidente fin dai suoi primi gesti da capocordata: non intuiva la sequenza dei movimenti giusti, non imbroccava il percorso esatto e non vedeva i chiodi in cui passare i moschettoni per fare sicurezza. Dopo circa 150 metri di salita e dopo aver perso mezz’ora abbondante a causa di un suo errore di percorso lungo il terzo tiro di corda, ruppi gli indugi e gli dissi che con tutta evidenza per lui quella non era la giornata buona, che erano cose che potevano capitare, che si sarebbe rifatto la volta prossima e che era meglio se lasciava andare avanti me. Non volle sentire ragioni e con la scusa «lo sai che sono diesel, ho bisogno di scaldarmi per bene» ripetuta più volte, volle proseguire a comando alternato. Purtroppo, anziché acquisire fluidità il suo salire si faceva sempre più incerto, farraginoso, forzato. E io nel dargli corda, nel vedere sempre più vuoto sotto i piedi e sapendo che si stava avvicinando il punto, diciamo così, di non ritorno, iniziavo a preoccuparmi come mai mi era accaduto fino ad allora in parete.

Arrivai da capocordata alla fatidica sosta sopra gli strapiombi. Mi assicurai a due vecchi chiodi piantati lì da chissà quanti anni e lo recuperai in sosta. Sopra di noi il passaggio-chiave era uno strapiombo a forma di baldacchino che andava superato effettuando una traversata, se ricordo bene, da sinistra a destra. Impostato al contrario, il passaggio sarebbe stato insuperabile. Il tiro toccava a lui ma provai ancora a insistere perché lo lasciasse fare a me. Non volevo mortificarlo e men che meno mancargli di rispetto, ma sentivo che qualcosa sarebbe andato storto. Gli ricordai che tante altre volte era capitato a me di non sentirmi “in giornata” e che ogni volta gli avevo ceduto ben volentieri il comando della cordata. Niente da fare: continuò con la storia del diesel e che aveva bisogno di fare ancora qualche metro per arrivare in “temperatura giusta”. Peccato che ormai fossimo già a metà via e di questo riscaldamento ancora non si scorgeva traccia nel suo arrampicare.
Mi venne in mente allora una frase contenuta nel primo libro di montagna che mi regalarono a sedici anni, tuttora al primo posto nella mia biblioteca e primo nel mio cuore: “II vero arrampicatore. Lo stile di Emilio Comici” scritto da Severino Casara. In quel libro Casara sottolineava a chiare lettere un monito di Comici a proposito dei pericoli della montagna: «Bisogna ascoltare sempre la voce interiore e rinunciare quando quella voce non parla o t’invita a rinunciare. Mai salire di malavoglia, men che meno per dimostrare alcunché a chicchessia.» Credo che ormai anche a Carlo fosse evidente che quello non era il giorno giusto per il consueto rito di iniziazione alla nuova stagione alpinistica. Era troppo intelligente per non averlo capito. Ma qualche cosa dentro di sé, forse un trabocco di gioventù o un rigurgito di orgoglio, lo spinsero a osare. Prima di partire si voltò a guardarmi per un istante e lo sguardo fu più eloquente di mille parole. Vi lessi una sorta di cupio dissolvi e al tempo stesso un’inesprimibile richiesta di perdono per ciò che consapevolmente si stava accingendo a fare: mettere a repentaglio entrambe le nostre vite. D’altronde era un rito e i riti, talvolta, possono comportare sacrifici. In quel momento non eravamo più due scalatori che praticavano lo sport preferito: eravamo Ettore e Achille presso le mura di Ilio seguiti dallo sguardo attento della Moira, la dea del destino, unica in Omero, triplice in Esiodo.
Lo vidi salire rigido, incerto, titubante. Non vide un chiodo ottimamente piantato e si agganciò invece a uno, ben più in alto, malamente smartellato da sotto in su che anche un principiante avrebbe capito non sarebbe stato in grado di trattenere il volo nemmeno di una piuma. Come temevo Carlo impostò il passaggio nella maniera sbagliata ma, dopo un primo tentativo, ebbe forza sufficiente per scendere di qualche metro a riposarsi. A quel punto vide il chiodo ben piantato e vi si assicurò. Gli Dei vollero esserci propizi nel dramma. A quel pezzo di ferro, lungo credo non più di otto centimetri, dobbiamo la nostra vita. Carlo ripartì e sbagliò di nuovo. A quel punto lo vidi fare una mossa del tutto sconsiderata che lo portò a scalciare per aria e, ansimando, attaccarsi a una zolla d’erba che ovviamente non tenne. Urlò «ocio che svoeo!», e volò. Io già da qualche frazione di secondo aspettavo quel momento ed ero pronto a frenarne la caduta. Ricorderò per tutta la vita quella scena: lui che si libra nel vuoto, il rumore cupo di un corpo di ottanta chili che piomba verso il basso, il breve clangore metallico del primo chiodo, quello piantato male, divelto in un lampo, la corda che entra in tensione trattenuta da me e dal chiodo “buono” e, infine, il tonfo sordo del corpo di Carlo che sbatte contro la roccia dopo 12 metri di caduta libera, poco sotto il terrazzino dove gli stavo facendo sicura. Attorno a noi il silenzio regnava assoluto scandito solo dai battiti impazziti del mio cuore. I miei occhi correvano dai chiodi di sosta a quello che aveva trattenuto la caduta nel terrore che da un momento all’altro uno dei tre cedesse.
Allora non esistevano telefoni cellulari, che peraltro io non posseggo nemmeno oggi. Chiamare aiuto significava urlare come ossessi nella speranza che qualcuno, un escursionista o un cacciatore, passasse da quelle parti. Ma era marzo, un mercoledì pomeriggio e la parete era per metà avvolta dalle nubi. Bisognava scendere, punto e basta. Ora toccava a me. Era arrivato il momento del mio rito di rinascita.
Carlo era sotto shock ma non sembrava infortunato gravemente anche se poi, col tempo, quel trauma alla schiena si sarebbe sommato ad altri con cui avrebbe dovuto fare i conti negli anni a venire. M’inventai un’improbabile carrucola per recuperarlo. Mentre centimetro dopo centimetro lo tiravo su, con un occhio controllavo i due chiodi di sosta che si erano leggermente piegati, con l’altro monitoravo la tenuta del chiodo di passaggio che aveva resistito e al quale era affidata la nostra salvezza. Se avesse ceduto non credo che i due chiodi di sosta sarebbero stati in grado di reggere un secondo strappo che, questa volta, non sarebbe stato frenato da me ma si sarebbe abbattuto in maniera statica e tranciante direttamente sulla sosta.
La forte tempra di Carlo si palesò pienamente in quel frangente e nelle due ore successive. Stringendo i denti riuscì ad agevolarmi nel recupero e raggiungere la sosta. Per prima cosa lo abbracciai e lo rincuorai. Poi gli chiesi se se la sentiva di farsi calare per circa duecento metri passando alcuni rinvii nei chiodi, così da garantire l’obliquità della calata. Mi fece cenno di sì col capo.
Iniziai allora a calarlo chiedendogli di dondolarsi verso monte il più possibile così da ripercorrere la linea effettuata in salita. Ce la fece e riuscì ad ancorarsi alla prima sosta dove si accasciò ed ebbe un mancamento temporaneo. Impostando la prima delle cinque corde doppie da 50 metri, lo raggiunsi. Ripresi a calarlo e lo raggiunsi di nuovo: così per altre 4 volte senza mai parlare se non con gli occhi e, forse, col pensiero. Non fu facile: una tensione alle stelle mi accompagnò per tutta la discesa. Non so ancora come ma, finalmente, verso le 17.30, quando ormai la luminosità aveva assunto toni crepuscolari, raggiungemmo la base della parete. Zoppicando, imprecando, appoggiandoci l’uno all’altro, arrivammo alla mia R4 rossa, parcheggiata per fortuna a meno di 20 minuti dalla parete. Eravamo salvi.

Dopo quella volta arrampicammo ancora tante volte assieme, fino al 2007, quando aprimmo la nostra ultima via sulle Dolomiti di Brenta. Non abbiamo mai più, in nessuna circostanza e per nessuna ragione, parlato di quell’incidente. Avevamo superato il rito ed eravamo rinati. Che altro? Lui aveva forse compreso che la gioventù non si riacquista attraverso il rischio estremo. Quanto a me, avevo superato lo scoglio del sentirmi in sua presenza come un figlio dinanzi al padre. La vicenda ebbe però un singolare corollario. Dal giorno successivo all’evento iniziai a perdere la barba a chiazze. Chiazze che si fecero via via sempre più vaste e irreversibili al punto tale che dovetti togliere anche il resto della peluria col laser. “Alopecia da stress”, la definì il medico. Non sono più guarito. Carlo molti anni dopo andò a ripetere e a terminare quella via. Io, lassù, non ho mai voluto tornare e ogni volta che salgo alle Fugazze dalla Val Leogra evito di incrociare lo sguardo con quel lembo di Pasubio.
Carlo è ancora vivo, in barba alla guida Berti e alle numerose guide pubblicate successivamente fra le cui pagine è apparso più volte il suo nome, non di rado affiancato al mio, cosa di cui vado molto orgoglioso. Lui non so se sia altrettanto orgoglioso ma spero almeno che non gli dispiaccia. Così come spero non gli dispiaccia che gli abbia dedicato questo ricordo che vuole testimoniare tutto il mio affetto e la mia stima per lui. Carlo ha continuato ad arrampicare sino alla pandemia e sempre ad alti livelli realizzando, spesso assieme al figlio, numerosi sogni di gioventù, fra cui il diedro Philipp-Flamm al Civetta credo a sessantacinque anni suonati! Poi ha fatto quello che, come mi disse sin da quando lo conobbi nel 1980, aveva sempre sognato: tornare a vivere a Venezia, abbandonare corde, chiodi e riti di rinascita per vagabondare in serenità con un “sandalo” fra velme e barene nella sua laguna.
Tornando indietro con la memoria al tempo trascorso con lui e alle tante salite fatte assieme, mi rendo conto di quanto Carlo sia stato importante per me. In lui avevo trovato quella parte di figura paterna con cui condividere la stessa passione per l’alpinismo e gli stessi rischi che in mio padre, alieno se non addirittura avverso da sempre al mondo della montagna, non avrei mai potuto trovare. D’altronde, a conferma di ciò, mi rendo conto di non aver nutrito mai il benché minimo rancore verso di lui per aver messo a repentaglio la nostra vita in quella circostanza. Ma il monito di Comici ad ascoltare sempre la voce interiore, da allora in poi è divenuto per me un imperativo categorico che ho sempre imposto a me stesso e tutti coloro che si sono legati alla mia corda.
Racconto bellissimo, le scene si sono create nella mia mente. Grazie per la conduvisione
Grazie ❤️❤️❤️❤️
Una bellissimo racconto, di quelli che raramente si leggono e si scrivono.
Bellissimo racconto.
Il solo uderle e il vicino soio rosso sono salite di puro alpinismo che le nuove generazioni abituate allo spit non salgono più.
Grazie a Eugenio per aver saputo condividere delle emozioni e dei momenti tanto intimi.
Grazie Eugenio, mi hai fatto emozionare . Domani sono due anni dal mio incidente, ed in parte mi sono immedesimato. Soprattutto mi hai mostrato l’altra parte, il mio compagno di cordata. Sapevo di avergli procurato un grande stress, ma tu lo hai descritto magnificamente e con molta gentilezza.
Semplicemente splendido, scorrevole, niente enfasi, trasmette l’empatia di un rapporto non usuale. Uno dei più belli in questo blog, da molto tempo.
Con quali parole descrivere le angosce esistenziali di Carlo Andrighetto?
“La vita fugge, et non s’arresta una hora,
et la morte vien dietro a gran giornate.”
E la medicina?
“Volgi gli occhi verso le montagne.
Di là verrà la salvezza (per un po’).”
Ho detto.