Una strada per uno sci sostenibile

Addio monocoltura della montagna: ora la crisi climatica impone di cambiare. Dobbiamo ripensare il futuro come i visionari che inventarono le città nella neve.

Una strada per uno sci sostenibile
(ospitalità e rispetto per la natura)
di Enrico Camanni 
(pubblicato su mountainwilderness.it il 28 novembre 2024)
Copyright: La Stampa

L’invenzione dello sci alpino, in forme elitarie nel primo Novecento e con dimensioni di massa dopo gli anni Cinquanta, non è stata una stravaganza ma una rivoluzione. Per comprenderla appieno bisogna pensare a una civiltà abituata da secoli a patteggiare con la dura legge del pendio, un mondo in cui tutto era in salita, faticoso e precario, e su quelle salite si appoggiavano i campi, le case e la vita delle comunità, e poi bisogna immaginare che un giorno quel pendio, con un fantastico salto mortale, diventi uno strumento di piacere.

Cannoni spara neve artificiale

È successo con l’avvento dello sci e l’improvvisa rivoluzione innescata dai due assi di legno: nuove montagne, nuovi mestieri e città al posto degli antichi villaggi. Lo sci è stato un gesto futuristico, lampo pirotecnico e promessa di avvenire.
Quando la città è salita in quota la cultura del consumo ha sostituito in breve tempo quella del risparmio e l’industria della neve ha rimpiazzato i vecchi saperi, portando altri stili di vita, inedite libertà e anche nuove obbedienze, in cambio di denaro e posti di lavoro sicuri. La cattiva stagione, che per i montanari era un’interminabile attesa della primavera, è diventata improvvisamente buona e l’oro bianco di prima, il latte, s’è trasformato in neve. Da allora tanta ne è scesa sulle piste, prima naturale e poi neve da cannone, e lo sci è molto cambiato pur restando uno dei pilastri dell’economia alpina.
Sono cambiate le piste, sempre più simili ad autostrade, sono migliorati gli impianti di risalita, sempre più veloci e confortevoli, si sono allargati gli sci, sempre più corti e facili da girare, sono saliti i costi e sono cambiati gli sciatori, che una volta salivano dalle pianure con un panino e una voglia di neve e si accontentavano del tesserino a punti, e adesso arrivano da ogni parte del mondo e sono sempre più ricchi e stranieri. Soprattutto è cambiata la congiuntura climatica, non tanto perché nevichi meno di una volta ma perché succede sempre più in alto e avanti in stagione. Fa ormai troppo caldo per sciare sotto i 1500-1800 metri di quota, che presto saranno 2000 metri perché continuiamo a buttare anidride carbonica nell’atmosfera.

La desolazione delle piste innevate artificialmente

Mentre scrivo questo articolo l’osservatorio di chimica atmosferica del Monte Mauna Loa registra una quantità di CO2 nell’aria pari a 423,60 parti per milione; un anno fa erano 421; 10 anni fa 397,33. Non foss’altro che per sanità di bilancio, i piani sulla montagna dovrebbero anteporre queste cifre a qualsiasi valutazione progettuale. Evidentemente il comparto degli sport invernali è tra i più coinvolti dal riscaldamento globale e l’aumento delle temperature pone dei problemi all’industria dello sci, imponendo un uso sempre più diffuso dell’innevamento programmato (circa il 90 per cento delle piste italiane è preparato artificialmente, con relativi costi a carico della collettività) e ricorrendo a palliativi come i teli di protezione dal sole sul ghiacciaio del Presena e in altri circhi glaciali dove una volta si sciava d’estate in bikini e scarponi. Oppure consigliando scelte risolutive: nelle valli svizzere non si scierà più sotto i 1800 metri perché gli elvetici hanno deciso che è meglio investire nell’altro turismo, dopo avere ripristinato gli ambienti compromessi dagli impianti di risalita e dai tracciati di discesa. Se i grandi investimenti degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta del ’900 poggiavano fideisticamente sull’immobilità del clima, come se avesse dovuto nevicare sempre e per sempre, in una bolla di ottimismo senza tempo, oggi ci scontriamo con la finitudine delle certezze, anche se i ragionamenti e le decisioni degli investitori sono ancora spesso ancorati al vecchio pensiero. Non si tratta certo di abbandonare lo sci a se stesso, e insieme a lui il vasto mondo che gli gira intorno, ma è arrivato il momento di scegliere: s’investe il denaro pubblico dove lo sci di pista ha un futuro, riammodernando gli impianti senza costruirne di nuovi, e non s’investe dove l’evidenza suggerisce che quel luogo è ormai destinato ad altre vocazioni.

Sci di massa

Tenendo conto che in alcune stazioni, le più famose, la monocultura dello sci renderà difficile la diversificazione dell’offerta, spingendole a puntare su un pubblico sempre più avulso dal territorio come i turisti milionari degli Emirati arabi o del Giappone o della Russia, quando finirà la guerra, mentre le stazioni piccole e flessibili, per esempio Prali in Val Germanasca o Torgnon in Valtournenche, con impianti meno costosi, stagionalità meno vincolante e qualità dell’ambiente meno compromessa avranno più agio di variare e integrare le proposte; già oggi nelle località “minori” si può alternare lo sci di pista allo sci di fondo (sport a torto trascurato dagli italiani), lo sci alpinismo, lo sci escursionismo, le ciaspole e il turismo naturalistico, con costi accessibili, ospitalità familiare e scambi tra chi ospita e chi è ospitato. In un caso lo sciatore è catapultato in un mondo apparecchiato per lui, ma artificiale, mentre nell’altro è lui ad adattarsi al luogo, imparando ad amarlo. I glaciologi, purtroppo, assicurano che entro il 2050 non avremo più ghiacciai sotto i 3500 metri e le Alpi assomiglieranno sempre di più agli Appennini. Per contro le estati bollenti spingeranno i cittadini sulle montagne, rivalutando il turismo estivo. Senza catastrofismi, siamo di fronte a una situazione nuovissima per le Alpi, dove il turismo è arrivato solo da duecento anni e lo sci da poco più di cento. Ora bisogna fare i conti con una situazione mai vista, ma non c’è nulla di terribile nell’immaginare un altro futuro.

In discesa dal Pizzo Latta. Foto: Sergio Ruzzenenti.

Non è forse ciò che fecero Adolfo Kind e gli importatori dello sci in Italia, uomini dallo spirito utopico e coraggioso? Non furono dei visionari gli inventori delle città della neve, a prescindere dagli esiti e dalle conseguenze? E non è stato uno sguardo ribelle e geniale a scorgere nel pendio una morbida discesa, quando era ancora impregnato di fatica e sudore? L’unico futuro che dobbiamo temere è il presente che non sa cambiare.

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Una strada per uno sci sostenibile ultima modifica: 2024-12-13T05:16:00+01:00 da GognaBlog

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10 pensieri su “Una strada per uno sci sostenibile”

  1. Immaginare un altro futuro.
    Si potrebbe immaginare un futuro senza tempo libero. La montagna si svuoterebbe delle migliaia di persone che li trascorrono i giorni che, dopo anni di lotte sindacali, chiamano ferie.
    Il futuro della distonia, di una società incatenata alla stanga del lavoro. Non il futuro fantasticato dal sogno di perdere le catene.
    Il nucleo pulsante di un certo pensiero è un desiderio di punizione, di galera per tutti.
     

  2. Arno Camenisch, scrittore in romancio di una Svizzera diversa da quella che i media mainstream tendono a raccontare, così lontana culturalmente dai luoghi del jet set internazionale e dai grandi comprensori luna Park, in “ultima neve” racconta di questo mondo e delle sue persone e del vecchio skilift ad ancora che aspetta la neve.
    Vecchio skilift che può continuare a girare grazie ad una gestione flessibile e locale. 
     

  3. Sellaronda, Cinque Terre, Cammino di Santiago, Venezia……per spiegare le complesse radici di certi fenomeni di vorrebbe un antropologo tipo il Marc Auge’ dei non luoghi. Un’antropologia dei luoghi/attivita’ di attrazione popolare moderni.  Quando un luogo, insieme ai suoi rituali e ai suoi rituali sociali diventa “mitico” assume una forza di attrazione incontenibile presso le masse. Moltissimi vogliono andarci e provare quell’esperienza, anche se sono consapevoli che ci saranno affollamento e sfruttamento. Il “modello” una volta consolidato si autoalimenta non solo come modello di business ma nella percezione collettiva: anch’io ci voglio/ci devo andare a Portofino, a Cortina…….almeno una volta. Non è un fenomeno nuovo, era così anche in passato, i luoghi/attivita’ “mitiche” ci sono sempre stati ma le dimensioni quantitative sono nuove, perché girano più risorse, la mobilità è più facile e la comunicazione pervasiva. Una volta stabilizzato e ritualizzato il modello è difficile da scalfire, anche se la sua perpetuazione comporta difficoltà (vedi mancanza di neve). Si cerca di tenerlo in vita in ogni modo con espedienti vari, come il modello Tolemaico che non voleva morire malgrado le sue incongruenze. Si possono affermare modelli collaterali o varianti del modello meno scontate (le ciaspole, i luoghi paralleli o limitrofi trascurati…) ma riguardano seguenti residuali del pubblico. Il grosso del mercato va il quella direzione. Difficile scalzarlo nelle mente di clienti e fornitori finché non implode o viene sostituito da altri modelli e la giostra gira. Forse siamo fatti così, un po’ giostrari e un po’ bambini felici sul loro cavallino di cartapesta mentre suonano le musichette di Natale. 

  4. Effettivamente all’estero le piccole stazioni hanno degli impianti diversi da quelli che ci sono in Italia.
    .
     
    Non conosco l’impatto sulla sicurezza effettiva , ma in Svizzera l’anno scorso ho preso una piccola funivia senza porte laterali con altre 4 persone e un cane , in Italia il costo delle continue revisioni domina.
    .
    Non e’ giusto che le funivie cadano comw al Mottarone , ma a volte mi sfiora il dubbio che sia in atto per gli impianti un trend “folle” , come quello che impone a cucine, stanze , e cessi dei rifugi un livello di standardizzazione da gabinetto di un razzo Saturno , con intenti e  scopi nascosti non sempre limpidi.

  5. Ogni anno, all’inizio della stagione dello sci, si  fanno le solite analisi,  senza rendersi conto che ogni stazione ha una storia diversa e che non ha nessun senso generalizzare. Questo vale soprattutto per le piccole stazioni a quote modeste, che andrebbero gestite, applicando modelli gestionali impostati sulla flessibilità, da associazioni o club o dalle stesse strutture ricettive,  con impianti  leggeri che dovrebbero funzionare solo quando c’è la neve vera, senza dover applicare le asfissianti normative di sicurezza messe in atto, in genere da incompetenti, per lo sci lunapark dei grandi comprensori. Andate a sciare in Austria, in Francia, in Svizzera o in Norvegia per trovare applicato, nelle piccole stazioni,  cosa sto affermando. Con gli assurdi ragionamenti che si fanno da noi le piccole stazioni dove si pratica ancora uno sci a misura d’uomo sono tutte destinate a scomparire, solo i grandi lunapark possono svilupparsi, facendo dello sci uno sport che non ha più nulla a che vedere con la sua storia

  6. … e quando non ci sarà più la neve … ci sarà la plastica (magari … bianca).

  7. La vignetta di Natangelo in prima pagina del FQ di oggi esplica meglio di tutti i commenti possibili ed immaginabili.
    Lo sci sostenibile o meno credo sarà uno degli ultimi nostri umani futuri problemi…

  8. Il Superski , e il Trentino in genere è un modello turistico di successo , a me è sempre piaciuto sciare là , anche se oramai di pista ne faccio pochissima..
    Quando la città è salita in quota la cultura del consumo ha sostituito in breve tempo quella del risparmio e l’industria della neve ha rimpiazzato i vecchi saperi, portando altri stili di vita, inedite libertà e anche nuove obbedienze, in cambio di denaro e posti di lavoro sicuri. La cattiva stagione, che per i montanari era un’interminabile attesa della primavera, è diventata improvvisamente buona e l’oro bianco di prima, il latte, s’è trasformato in neve. .Concordo in pieno con questo orietamento di Camanni..Un formidabile “game changer” estivo , per i turisti montani piu intraprendenti è stato lo sviluppo delle e-mtb , che hanno consentito , con pro e contro , l’accesso alle pendenze ed ai notevoli dislivelli anche a chi ciclista non era..Per contro dubito che l’uso degli impianti di risalita per utilizzare i percorsi estivi da downhill lungo le piste possa avvicinarsi a compensare economicamente la mancanza della neve ..Il fatto di trasformare rustici rifugi in ristoranti gourmet , farà salire il pil , ma non di tanto , e mi mette un filo di tristezza che posti meravigliosi debbano arrendersi a beghini spaccacazzo che chiedono la spigola o l’aragosta a Corvara.
    .Non vedo grosse soluzioni che rimpiazzino il motore economico dello sci su pista ; nel mio piccolo mi tengo la meraviglia di bambino e il fatto che le botti piene con le mogli ubriache non le hanno ancora inventate..

  9. Gli investimenti delle numerose società (ve ne sono anche più di una nelle 4 valli che il Sellaronda coinvolge), sono ogni anno più consistenti. Nuovi bacini idrici per trattenere acqua in quota da utilizzare per la produzione della neve, nuovi impianti a portata oraria maggiore per sostituire i precedenti, piste più ampie e sempre più ristoranti (che non si chiamano, in molti casi, neppure più “rifugi” , che dava l’idea di qualcosa di spartano allontanando i turisti più esigenti) e skipass sempre più caro (ora siamo oltre gli 80€ per il giornaliero, anche se per piu giorni il prezzo scende un po’) assicurano un fatturato stagionale sempre più alto che traina anche le altre località adiacenti collegate a quello che è il carosello sciistico più grande del mondo: circa 1500 km di piste “sci ai piedi” con un unico skipass.
    Che sia sostenibile o no, non ne ho idea. Certo che da da mangiare a centinaia di migliaia di famiglie e lavoratori stagionali. Dal punto di vista della sostentabilità è un modello ancora funzionante che sembra non risentire di nessuna crisi climatica. Personalmente non lo approvo, infatti lo evito, ma non posso dire che sia fallimentare e neppure in declino. Che sia o meno sostenibile lo dicono i numeri in positivo e se il prezzo da pagare in termini ambientali ed energetici fosse anche alto, si paga. Intanto i soldi ci sono.

  10. Quasi tutto vero e condivisibile, ma il modello Dolomiti Superski resta ancora valido. Nonostante non utilizzi più gli impianti di risalita da 5 anni, vivo lungo quello che è l’itinerario sciistico più frequentato e conosciuto al mondo: il Sellaronda. Nonostante sia costantemente superaffollato, rappresenta il sogno dello sciatore gaudente. Piste sempre perfettamente innevate, impianti veloci, niente code e panorama bellissimo e sempre diverso ne fanno una vera giostra d’oro. Lungo i suoi circa 50 km di sviluppo ci sono decine di ristoranti, dal self service (sempre più raro) al gourmet (sempre più diffuso). I menù variano dai canederli allo spaghetto all’astice fino alle ostriche e caviale.
    I russi lo hanno sempre frequentato, anche durante la guerra. Hotel (le pensioni sono ormai bandite) e residence sono full da Novembre ad Aprile, grazie anche alla marchetta UNESCO di cui le Dolomiti si fregiano, anche se non tutti i massicci non vi rientrano. Intanto questo al sellarondista cosa importa?
    Quando i miei figli erano piccoli, se combinavano qualcosa di negativo, tra le punizioni più severe minacciano di portarli a fare il Sellaronda la domenica. Loro tornavano agnellini diligenti pur di sottrarsi a quel supplizio. Anche da adulti, non l’hanno mai percorso con gli sci.

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