Una vita, 50 anni dopo la vita
(Enzo Cozzolino)
di Flavio Ghio
(pubblicato su Le Alpi Venete, primavera-estate 2022)
Enzo Cozzolino è stato una stella di prima grandezza dell’alpinismo. Parlarne a cinquant’anni dalla scomparsa significa che la sua luce ha conservato l’energia necessaria per attraversare un immaginario alpinistico continuamente scosso da nuove sollecitazioni. Un viaggio reso possibile dal fatto che la sua non è una luce monocromatica ma contiene varie lunghezze d’onda e in ciascuna ritroviamo aspetti diversi della sua passione.
È stato ipotizzato che queste forme convergano a un’unica meta, l’apertura di vie nuove: «Ho creduto di poter cogliere tre momenti diversi. Il primo dedicato particolarmente alle grandi ripetizioni: collaudare le proprie capacità sugli itinerari di roccia più ardui. Il secondo è caratterizzato dall’effettuazione in solitaria di vie estremamente difficili; ed anche queste non mi sembrano siano state fini a se stesse, ma gli siano servite a perfezionare ulteriormente il proprio stile e la propria tecnica portandolo a toccare limiti mai raggiunti prima nel campo dell’arrampicata pura. Il terzo finalmente è quello conclusivo in cui affronta e risolve grandi problemi alpinistici ancora insoluti (1)».
Per me, il merito di questa tesi è l’aver sottolineato che l’alpinismo di Cozzolino è percorso da una grande tensione, la cui forma non viene o non può essere indagata.
Il dispositivo storico alpinistico è una macchina della memoria ma anche un buco nero inghiottitore di storie che, se raccontate, rivelerebbero un mondo non meno significativo delle grandi imprese. Rimane così l’amaro di trovare sulla carta solo pochi tratti di un’oralità destinata a scomparire senza far rumore. Una possibilità non remota. Trieste, che è stata la culla dell’alpinismo, può diventare muta come una tomba e il suo patrimonio di storie disperso.
Questo pericolo è già sentito dagli alpinisti della generazione successiva a quella di Cozzolino. Qualcuno ha visto nell’oralità un rimedio alle lacune dei testi scritti: «Quando cominciai a frequentare la Valle da scalatore principiante, Enzo era già scomparso da parecchi anni. Di lui era rimasto il mito, punteggiato dalle consuete epiche leggende, di cui il mondo dell’alpinismo non ha mai fatto economia. […] qualcuno mi prestò uno di quei soliti libri scritti con esagerata enfasi. Beh, da tutto ciò ricavai una specie di fiaba indistinta […] quando ne sentii parlare da Giorgio che lo aveva conosciuto piuttosto bene […] cominciai a capire (2)».
Nevio Carpani, polemico e sincero, sta dicendo che Enzo viene più nascosto che rivelato – sicuramente in buona fede – dagli scritti celebrativi. Si sente la mancanza di un discorso la cui profondità non sia inferiore alle cose raccontate e tale mancanza è una conferma che ci sono significati non colti dal linguaggio alpinistico standardizzato.
Cozzolino con l’utopia del Settimo grado, non prevista da alcun copione, si stacca dal percorso monocromatico secondo il quale ci si specializza per aggiungere un altro mattone al muro.
Un esercizio celebrato dalla collaudata retorica del sacrificio e della dedizione per ribadire che, anche nella versione più specialistica, l’animo umano continuerà a esprimere quell’infinito anelare condensato nell’arcinoto: Fatti non foste a viver come bruti… su cui tutti convengono.
La tensione di Enzo Cozzolino cercava di riconciliare un alpinismo inserito nella vita con la vita inserita in un alpinismo; costantemente in bilico tra la qualità dell’esperienza vissuta e l’etica sportiva della quantità. Solo i ragazzi complicati lo fanno perché la loro vita non si svolge su percorsi prestabiliti.
A volte finiscono all’indice per i loro pensieri strani ma quando i risultati sono così importanti da rendere scandalosa la censura, la comunità travasa quel vino nuovo nelle sue vecchie botti che lo alterano con le loro muffe. Presi tra incudine e martello si riparano nella loro cittadella interiore, lontano dalla luce monocromatica di un codice estraneo a un’attività nata libera. Come ha fatto Cozzolino a sottrarsi alle forche caudine del codice? La risposta era davanti agli occhi: con il suo stile di arrampicata. Chi non lo ha visto arrampicare lo può conoscere?
Sì, se si pensa allo stile come a un linguaggio e il linguaggio trasmette sempre qualcosa.
Con il suo stile Enzo Cozzolino unisce ciò che l’intelletto separa, ovvero la dinamica del corpo e la staticità della parete. Dialogando con la verticalità ha aggiunto un significato nuovo al verbo arrampicare: unire statica con movimento rendendo radiosa la parete. Solo i grandi innamorati possono attraversare il vuoto che separa mondi diversi. La rottura di questo legame spiega l’afasia successiva alla sua scomparsa: «Si evita di parlare di lui. Il discorso si fa imbarazzato (3)».
Il simbolo si era spezzato. Sulla Napoleonica sono rimasti i bianchi calcari, muti come le pietre del San Michele descritte da Ungaretti, costretto dalla guerra a un’esperienza opposta a quella di Cozzolino. Alla fine il diaframma è caduto e le due strade si sono toccate. Dieci anni fa, per ricordare Cozzolino è stato proiettato il film Fachiri, echi verticali, di Giorgio Gregorio. In quell’occasione, una gentile signora, dopo aver assistito al film, ha scritto un ricordo su Enzo concedendomi il privilegio di leggerlo. Parlava di un’escursione alla Cima di Riofreddo. Era il 1969. Enzo, in quell’occasione, aveva compiuto la prima solitaria della via Comici all’Innominata. Al ritorno si era trovata sul sedile vicino a quello di Enzo, che le aveva fatto una confessione: qualcuno leggendo la sua mano aveva trovato un segno particolare, un segno che indicava che la sua vita sarebbe stata breve. Enzo rimase turbato. Sarebbe, quindi, stato più saggio non andare in libera e neppure arrampicare. Lui concluse con una domanda: “Se non si sfugge al proprio destino perché rinunciare alle cose amate?”. Per il mito, l’amore è un’energia che ci spinge a cercare la bellezza in tutte le sue manifestazioni. Un’energia che ciascuno conosce, anzi, l’uomo sente di essere questa energia. Seguirla non è abusare della propria libertà, né prendersi una licenza eccessiva. È cercare il senso della propria vita. Se esso sia conoscibile o meno è un’altra questione. Se la vita è ricerca della bellezza e la montagna una manifestazione della bellezza, la ricerca non può essere snaturata da una morale estrinseca: «Io riesco a godere la montagna, infatti, salendola solamente nel modo che la mia coscienza mi impone di seguire, altrimenti non riuscirei a trarre dall’arrampicata le soddisfazioni, le gioie, le sensazioni particolari, di cui vado, continuamente, alla ricerca. Se altri, arrampicando con una diversa cognizione, riescono ad avere la stessa mia felicità dalla montagna, per me non possono essere altro che amici che vanno alla ricerca del mio stesso fine, anche se in modo diverso (4)».
Enzo non scivola nel relativismo; infatti poco più sopra aveva chiarito: «Tanti alpinisti oggigiorno, forse meno idealisti di me la pensano in un modo diverso, probabilmente proprio perché non hanno gli scrupoli che ho io, scrupoli che possono essere scambiati per ostinazioni, stridenti, oggi come oggi, con una visione pratica funzionale della faccenda, caratteristiche però della mia personalità e quindi incancellabili (5)».
Quando l’uomo nella ricerca della bellezza impegna tutto se stesso, allora finirà per rivelare la forma della sua anima e quella di Enzo era definita e chiara. Chi l’ha percepita, si è avvicinato all’essenza stessa dell’uomo: ammirare la bellezza.
I distinguo, le eccezioni provengono da chi non coglie ogni manifestazione del bello e nemmeno la magnanimità di Enzo Cozzolino. La ricerca della bellezza è un cammino senza percorsi predefiniti. È un’erranza, quindi può essere interpretata come un errore. Enzo, per evitare censure e banalizzazioni, teneva per sé i suoi pensieri.
Noi non riuscivamo a immaginare con quali imprese ci avrebbe stupito. Solo i lunedì, in Napoleonica, tra traversate e boulder, sentivamo da lui i nomi delle salite che davano forma ai suoi sogni. Uno spiraglio sulla sua tensione è presente nell’articolo sullo Spigolo dell’Agner. Non c’è nessuna rilassatezza per la salita solitaria appena conclusa ma una tempesta di percezioni, bisogni e progetti, attraversa la sua mente: «Dentro di me un accavallarsi di desideri disparatissimi: voglia di mangiare, di bere, di riposare, di festeggiare. Ma fra tutti il desiderio di ritornare, di provare nuovamente quei disagi, avere di nuovo i piedi doloranti, sentire di nuovo quella stanchezza per ritrovare quelle sensazioni e soddisfazioni che tanti cercano, senza trovare (6)».
Questa frase attraversa gli anni che vanno da quella lontana estate del 1966, da cui tutto ebbe inizio fino alla balenante primavera del 1972. La sua tempestosa tensione, finché ha arrampicato su questa terra, non è mai venuta meno. Il suo spirito errante, una volta varcata la soglia della cosa cercata, lasciava ad altri il compito di continuare a consumarla, perché l’erranza sperimenta solamente il nuovo.
Le sue salite possono essere presentate in due modi. Collocandole in un bel vaso affinché siano ammirate, ma da un vaso non nascono nuovi fiori. Oppure, seminate in campo aperto perché diano vita a nuovi fiori. Questa è la sola immortalità concessa ai mortali, sebbene la cronica interpretazione del passato come “tempo morto” non vede tale possibilità. Questo ha conseguenze significative sul modo di interpretare i fatti. Così il Settimo grado può essere un banale 6b, innalzato a mito per l’arretratezza del tempo passato, oppure un percorso qualitativo davanti al quale, non solo la scala chiusa ma anche le moderne scale aperte sono ugualmente cieche. Nella ricerca della bellezza, bisogna scegliere se affidarsi ai modelli proposti dalla cultura convenzionata con il mercato dei materiali alpinistici o trovarne di alternativi interpretando i segni lasciati da chi ci ha preceduto. Cozzolino non celebrava semplicemente il passato. La svolta che lo porta all’alpinismo solitario è ispirata dal passato ma nel fare questa scelta si domanda perché, a Trieste, nessuno avesse praticato una forma di alpinismo di cui Comici, venerato a parole, fu l’inventore: la ripetizione in solitaria delle vie più estreme.
Non senza ragione, Dario Marini rileva: «Durante la sua breve vita Comici ha avuto una sola grande passione, l’insegnamento dell’arte arrampicatoria, nella quale ha profuso tutto il suo tempo libero e i pochi denari. Il risultato è stato però deludente e inspiegabile: nessuno di quelli che sono stati con lui nelle imprese più grandiose ha fatto poi in montagna da solo le cose importanti che lui aveva preconizzato, nei fatti un maestro senza degni allievi (7)».
Forse per caso, forse per destino, nella loro esperienza solitaria c’è un evento comune. Comici racconta: «Sulla Cima Grande di Lavaredo […] nello sfogliare il libro vetta, vidi le parole scritte da me: “Salito da solo, su per la parete Nord impiegando tre ore e tre quarti” cancellate con matita, e, sotto quelle strisce nere, aggiunto a lettere cubitali: “Esagerato!” e poi un magnifico “BUM!” (8)».
La nota di Cozzolino sul libro del Vazzoler, dove riporta la prima ripetizione solitaria della via Da Roit alla Busazza, è ancora sbarrata da una grande X fatta da qualche incredulo.
Enzo ha cercato nel passato i segni affinché i ripetitori delle sue vie respirassero anche l’aria della storia. In un certo senso ha avuto, nei riguardi dell’alpinismo passato, lo stesso atteggiamento che il Rinascimento ha avuto verso la cultura classica greca e latina.
Le sue due vie più conosciute, il diedro del Mangart e la via dei Fachiri a Cima Scotoni, lo rivelano in modo magistrale. Kugy scrive: «Le pareti settentrionali del Mangart non mi hanno mai attirato. Non mi pareva necessario farvi dei tentativi. Non ci scorgevo alcuna “via” (9)».
Enzo sale il diedro del Mangart che Kugy aveva scartato per principio, disegnando con la sua via un tracciato congruente con l’etica kugyana.
Probabilmente, dedicando quella via a Kugy, sarebbe stato meno frainteso:
«Sono del parere che le vie giuste devono essere aperte dai monti, non carpite e imposte dall’uomo, che pertanto il classico compito alpino sta nel trovare la giusta via già predisposta. Le vie aperte a forza sono, direi, emanazioni di sentimenti egoistici: sentimenti che, inutile negare, di fronte all’eterna grandezza della montagna, hanno, mi pare, le gambe corte (10)».
Qui Kugy sembra indicare le cause del nanismo storico di molte salite OGM, più devote ai nuovi idoli che rispettose della montagna. In questo contesto, è naturale che anche la sua via più conosciuta, la via dei Fachiri, non sia stata compresa.
Se nel calcio tutti i discorsi ruotano attorno ai goal, in alpinismo ruotano attorno alla difficoltà. Una volta stabilito che la via degli Scoiattoli (Lacedelli) presenta passaggi più difficili della via dei Fachiri, il fascicolo è archiviato. Non si è capito che quanto è avvenuto in Civetta – tra la via di Solleder aperta nel 1925 con 12 chiodi e la via di Comici aperta nel 1931 con 35 chiodi – si è ripetuto a parti invertite sulla Cima Scotoni, tra la via degli Scoiattoli aperta nel 1952 con 140 chiodi e la via dei Fachiri aperta nel 1972 con 12 chiodi, per caso o per destino, lo stesso numero di chiodi della via Solleder.
Qui Enzo entra nella storia con un percorso inverso a quello di Comici.
Questo può sconcertare chi afferma che per crescere bisogna tenere lo sguardo rigorosamente fisso in avanti?
A una domanda impossibile si può rispondere solo con un dialogo impossibile, chiamando in causa Socrate, avversario dei luoghi comuni:
“Socrate: E come, Carissimo, chiameresti coloro che si accostano alla montagna per amore della difficoltà?
Kugy: Potremmo dire che sono dei Gradisti.
S: E, secondo te, come potremmo chiamare quanti si avvicinano alla montagna per amore della bellezza?
K: Si potrebbero chiamare Alpinisti.
S: E se potessimo stabilire quale sia il gruppo di maggior peso, non potremmo conoscere in anticipo come evolverà il fenomeno?
K: Naturalmente, o Sommo, ma il risultato dipenderà dal criterio con cui decideremo di misurarli. Se sceglieremo come criterio l’attenzione dei media, indubbiamente il primo sarà il gruppo più ascoltato, invece se il criterio sarà quello di determinare chi riceve l’attenzione del silenzio, indiscutibilmente il secondo”.
Note
1 – Spiro Dalla Porta Xydias, Se tu vens, Lint, Trieste, 1978, pag. 1.
2 – V. 38 pensieri su La risposta di Cozzolino ad Andreotti, in Lo Scarpone, 1 febbraio 1972
(cfr. GognaBlog, 13 settembre 2017).
3 – Paolo Rumiz, Enzo Cozzolino, in Alpinismo Triestino, n. 131, 2012.
4 – Enzo Cozzolino, Etica della scalata: Riflessioni, in Lo Scarpone, 1 maggio 1972.
5 – Enzo Cozzolino, Etica… ibidem.
6 – Enzo Cozzolino, Da solo sullo spigolo dell’Agner, in Rivista Mensile del CAI, aprile 1970 e Allein uber die Agnerkante, in Der Bergkamerad, ottobre 1970.
7 – Dario Marini, La figura di Emilio Comici nel contesto dell’alpinismo italiano in Alpinismo
Goriziano, n. 1/2022.
8 – Emilio Comici, Alpinismo Eroico, Hoepli. Milano, 2014, pag. 145 (1a edizione 1942).
9 – Julius Kugy, Dalla vita di un alpinista. Tamari, Bologna, 1967, pag. 103.
10 – Julius Kugy, La mia vita, Eurograf. Tarvisio, 2011, pag. 83.
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Je ne connaissais pas ce grimpeur.
Il m’a plu.
Quest’indirizzo editoriale, secondo me, deve essere mantenuto e potenziato, magari con pubblicazioni cartacee per le sezioni CAI e per l’USCAI. Sperando che siano lette? Non credo, ma come testi di una libreria sezionale per consultazione, allorquando si fosse nella necessità di conoscere, verificare, apprendere le “fonti.” Fonti, cioè documenti, sorgenti di essere noi oggi, oggi, genti di montagna con un’etica di lungo lnghissimo periodo, cos’ ome la scienza storica in generale propugna. Anche per non buttare nel buio dell’oblio le nostre radici. Bravissimi e buon sereno lavoro. Franco Trapani.