Metadiario – 18 – I nodi prossimi al pettine (AG 1969-007)
Per un mesetto, dopo il Naso di Zmutt, non ebbi questa gran voglia di tornare in montagna. Mia madre aveva cominciato a stare veramente male e i medici disperavano potesse tornare indietro da quel lungo cammino di dolore cui era costretta dal suo cancro all’utero. Con Nella feci una vacanza di qualche giorno al mare di Liguria vicino a Genova, in modo da poter andare a trovare la mamma ogni fine pomeriggio. Nella scrive a sua mamma il 10 agosto: “… Sono in casa Gogna intanto che Alessandro fa la visita quotidiana alla madre e questa sera mangiamo qui perché la nonna ci ha fatto la cima… Abbiamo messo la tenda in un campeggio in collina sopra Bogliasco, dove c’è un discreto fresco e di notte si dorme magnificamente. La mattina scendiamo in paese a mangiare la focaccia con e senza cipolle, prendiamo il Corriere e poi andiamo sugli scogli sperando che l’acqua sia abbastanza pulita, cosa che ogni tanto capita, secondo da che parte ha tirato il vento durante la notte. Il grande pasto lo si fa solo alla sera, o qui o al ristorante. Una volta siamo andati a Recco in un ristorante il cui proprietario è amico di Alessandro. Ci hanno trattati veramente bene e alla fine gli hanno chiesto foto con dedica da mettere nell’album assieme ai vari Gino Bramieri, Walter Chiari, ecc. Ho conosciuto il padre di Alessandro, ma la persona più caratteristica della famiglia è la nonna (materna) alla quale non è stata data alcuna giustificazione della presenza di questa certa Ornella, non meglio identificata, in questa casa. Però, essendo una dritta d’inferno, continua a girarmi intorno, prendendo il discorso molto alla lontana, per cercare di avere una conferma alle sue supposizioni. Ha 79 anni, ragiona perfettamente, ricorda tutto, mi ha raccontato un sacco di cose ed è un’ottima cuoca. Mi ha anche aiutato ad accorciare un vestitino che ho comprato l’altro giorno a Recco, in un negozio dove si serve sempre Alessandro (un altro suo amico). Un paio di pantaloni, una camicia e un paio di calze per lui, il vestito e una maglietta per me, totale lire 14.000…“.
Poi andammo assieme a Grindelwald, sotto alla parete nord dell’Eiger. Dormimmo in una graziosa pensioncina in vista della mitica Eigerwand. Il mio scopo era di dare un occhio approfondito a quello che allora era considerato “il” problema da risolvere, la via direttissima lungo il rosso pilastro della Rote Fluh. Ma proprio mentre stavo sbinocolando venni a sapere della squadra giapponese che proprio in quei giorni era in dirittura d’arrivo. Dopo un mese di assedio himalayano, Takio Kato, Sussuno Kubo, Satoru Negishi, Hirohumi Amana, Yasuo Kato e Michiko Imai conclusero la prima ascensione della via dei Giapponesi il 15 agosto 1969. Dopo questa delusione, con Nella decidemmo di andare a Courmayeur a casa dei suoi. Lì avrei trovato anche Leo Cerruti in ferie.
Nel servizio di Famiglia Mese, agosto 1969
Nel pomeriggio del 19 agosto 1969 con Leo salimmo al rifugio Dalmazzi, il tempo sembrava buono ed eravamo ben motivati a dare una botta risolutiva alla parete nord del Mont Gruetta 3684 m (Mont Greuvetta). La parete, di circa 800 m, era stata salita una sola volta da Gabriele Boccalatte, Ettore Castiglioni e Titta Gilberti, il 23 luglio 1937: un’impresa a torto dimenticata, un itinerario sicuramente assai difficile e impegnativo, mai ripetuto. La via si svolge nel settore destro della parete, a circa 150 m di distanza dalla linea ideale di una via diretta, quella che volevamo.
La parete nord del Mont Gruetta, 800 m.
Il mattino dopo non riuscimmo ad attaccare prestissimo, non eravamo tanto carichi perché al massimo avevamo previsto un bivacco in parete. Dopo una prima lunghezza che ci servì per superare la crepaccia terminale, Leo attaccò il secondo tiro ma, dopo aver messo un chiodo, si trovò in difficoltà. Non lo vedevo, ma qualche secondo dopo con un urlo di avvertimento precipitò: era distante ormai una decina di metri dal chiodo. Questo lo tenne, ma il volo fu di una ventina di metri!
Leo Cerruti nel tentativo alla parete nord del Mont Gruetta, 20 agosto 1969
La sua sagoma mi apparve in una frazione di secondo, serrai le mani sul mezzo barcaiolo. Pochi secondi dopo la sua voce mi avvertiva che non si era fatto male, ma che aveva perso lo zaino. In un attimo prendemmo la decisione di calarci alla base alla ricerca del suo sacco, che tra l’altro poteva essere anche finito nella crepaccia terminale. Lo trovammo subito, ma a quel punto ci guardammo in faccia e decidemmo che non era giornata. Lentamente tornammo a casa, a Dolonne. La via fu in seguito salita da Andrzej Mróz e Jean-Pierre Bougerol, dal 31 luglio al 2 agosto 1971.
Il resto delle vacanze passò tranquillo, feci qualche capatina a Genova da mia mamma, fino a che ai primi di settembre non andai nelle Dolomiti di Primiero con Nella, in occasione di una mia conferenza. Con Nella, non so bene in che data, andammo a scalare sulla parete sud-est dell’Anticima di Roda, nei pressi della funivia del Rosetta. Una via facile che però, per qualche motivo, a lei risultò del tutto indigesta. Alle mie assicurazioni ripetute sulla facilità di quell’itinerario, alla terza lunghezza decidemmo di tornare indietro, con qualche malumore da parte mia e sollievo da parte sua.
Il 3 settembre, con Bepi Mayerild, facemmo in sei ore la bellissima galoppata che unisce la Pala del Rifugio (spigolo nord-ovest, via Castiglioni-Detassis), alla Punta del Rifugio e al Sasso d’Ortiga (spigolo ovest, via Wiessner-Kess): un festival di roccia da urlo, vero must delle Pale. La sera conobbi Samuele Scalet.
La parete ovest della Pala di San Martino. A sinistra e in ombra, invisibile, è la parete nord
Con lui, il giorno dopo e prima della mia conferenza, andai a dare un occhio a un suo vecchio pallino, la prima ripetizione della via Solleder alla parete nord della Pala di San Martino. Anche questa via era stata del tutto dimenticata, probabilmente perché non prende mai il sole e spesso si presenta bagnata. Emil Solleder e Franz Kummer la salirono il 6 settembre 1926, noi 43 anni dopo! A fine salita, cinque ore e mezza dopo, non ci rimase che confermare le difficoltà dichiarate dai primi salitori e raccomandare ad altri ripetitori di scegliere un periodo secco dell’anno. La roccia in quel caso è bellissima e l’arrampicata lo è di conseguenza.
Rifugio Zamboni-Zappa, 5 ottobre 1969
Al nostro ritorno a Milano seguì un periodo triste e convulso per via delle condizioni ormai disperate di mia madre. Colpevolmente nel weekend del 13 e 14 settembre decisi di fare un salto nel Gruppo di Brenta, ma di certo non c’ero tutto con la testa. Per esempio non ricordo neppure con chi sono andato… Al mattino della domenica attaccammo la via Aste al Campanile Basso: mi ci ritrovai sconclusionato, indeciso. E al primo passo un po’ impegnativo convinsi il mio compagno a tornare indietro.
Il giorno dopo, lunedì 15, mia madre moriva all’età di 54 anni all’Ospedale di San Martino di Genova. Io arrivai solo qualche ora dopo. Gli amici mi furono tutti molto vicini. Sono contento di aver conservato la lettera che mi spedì Piero Villaggio:
“Pisa, 1 ottobre 1969
Caro Sandro, ho saputo solo per caso della morte di tua madre. Me lo ha comunicato Mario Piotti qui a Pisa. Non ho potuto venire ai funerali, né farmi vivo in tempo utile. Credo che tali formalità t’importino poco, ma almeno ricevi l’espressione più affettuosa della mia partecipazione a tutto quanto tu e lei in particolare avete sofferto.
Anche se non ci vediamo quasi mai, io ti seguo a distanza e ti stimo un amico. L’importante è avere una certa convergenza di idee e di posizioni anche se si opera in ruoli diversi.
Un affettuoso abbraccio, Piero Villaggio”.
Rifugio Zamboni-Zappa, 5 ottobre 1969. Esercvitazione dimostrativa sul ghiacciaio.
Il 5 ottobre il Club dei Quattromila mi premiò per la mia salita solitaria alla via dei Francesi alla Punta Gnifetti. Fu una cerimonia spontanea, che ricordo con particolare affetto. Si svolse proprio al rifugio Zamboni-Zappa, dal quale ero partito la notte del 17 giugno precedente.
In quei giorni, proprio perché di continuo afflitto dalla mia problematica sul cosa fare nella vita, aggravata ovviamente dalla scomparsa di mia mamma e dall’incombente militare, scrissi ad Alfonso Bernardi, un giornalista e scrittore bolognese del quale avevo letto tutti i libri, in special modo quelli relativi alla storia del Monte Bianco, del Cervino e del Civetta:
“Caro Bernardi, volevo già parlarle a Trento, ma poi non c’è stata l’occasione, così ho deciso di scriverLe. Mi trovo in una situazione un po’ difficile, nel senso che devo finalmente decidere cosa fare nella vita.
Finora ho vissuto abbastanza alla garibaldina, basandomi sui seguenti introiti:
a) articoli sui giornali e settimanali (come qualche volta Le sarà capitato di vedere);
b) ho scritto un libro (e lo vendo), e ne sto scrivendo un altro (senza sapere da chi verrà stampato, forse da Baldini&Castoldi, ma vorrei ancora cercare);
c) rappresentanza di Cassin per la Liguria e quattro province del Piemonte;
d) conferenze con diapositive.
Ora è evidente che tutti questi introiti sono assai saltuari e incerti, e che presumono un continuo sperare bene nel futuro. Per di più, non è che m’importi molto del punto c), la mia vera e unica aspirazione è il giornalismo in qualsiasi sua forma, associato naturalmente al darsi da fare per tirare fuori ogni tanto un libro.
Quindi, a questo punto, lo Le chiedo: è possibile per me trovare una qualche attività? Lei mi può indicare una strada? O con Zanichelli, o in qualche altra maniera? Se Lei sarà così gentile da rispondermi, mi farà un grosso favore. Comunque, attendo sempre notizie per la presentazione del libro di Chabod. Nel frattempo, Le invio cordiali saluti”.
La risposta non tardò moltissimo, fu un’ulteriore conferma di quanto mi aveva già scritto Gino Buscaini. Mi rispondevano tutti con il buon senso, io mi limitavo a prenderne atto:
“Bologna, 19 ottobre 1969. Caro Gogna, ero a Caviola quando giunse la Sua, poi ripartii per Trento e ora sono finalmente riapprodato a casa. Prima di rispondere ai Suoi quesiti accenno alla serata milanese organizzata dalla Sezione del CAI e dalla Zanichelli per la presentazione del libro di Chabod. La data è stata fissata per mercoledì 26 novembre nella sala del San Carlo in corso Magenta.
Parleranno l’autore, Piero Nava, Lei, Bepi Mazzotti. Renato Chabod non solo nella veste propria di autore, ma di esponente dell’alpinismo accademico degli anni Trenta; Nava perché impersona ancora oggi l’Alpinismo classico, quello con la Guida; Lei, momento attuale dell’arrampicamento; Mazzotti è lo scrittore che illustra le caratteristiche del libro e lo inquadra nella letteratura alpina. L’organizzatore della serata è l’amico Renato Gaudioso.
La parete sud-ovest della Punta Cristalliera (Alpi Cozie)
Che cosa fare nella vita.
Non è facile la risposta, soprattutto non conoscendo il carattere né il temperamento del richiedente.
Però una domanda: è Lei un borghese nel senso più esatto del termine? Intende cioè costituirsi una famiglia? Condurre una vita regolare anche se a volte rischiosa?
Che cosa è per Lei l’Alpinismo?
Quali erano i suoi programmi prima dell’Alpinismo? Penso che sia necessario prendere in esame l’ultima domanda.
Indubbiamente prima della notorietà raggiunta con le imprese aveva un programma di lavoro o di studio. Credo di studio, a quanto ricordo d’aver sentito dire. Studente di ingegneria.
Gli studi sono stati interrotti, indubbiamente perché non me ne accenna nella Sua.
C’è da esaminare attentamente o da riesaminare questo punto: vale la pena rinunciare ad una specializzazione?
Il giornalismo? Sì, è bello e allettante per chi non conosce il dietro della facciata. E la facciata è quella che alletta, richiama, seduce coloro che ne sono fuori.
Giornalista? Su cinquemila circa professionisti in Italia coloro che hanno la firma su un giornale rappresentano una piccola percentuale. La massa lavora dentro, un lavoro di routine, anonimo con orari a volte logoranti.
Sulla parete sud-ovest della Punta Cristalliera, via Ghirardi-Gay, 14 ottobre 1969
Gian Piero Motti sulla parete sud-ovest della Punta Cristalliera, via Ghirardi-Gay, 14 ottobre 1969
Vi sono all’interno delle redazioni dei veri valori che non possono esprimersi perché non riescono a entrare nel “giro” dei grandi, sono degli esclusi perché non hanno chi li appoggia, chi li aiuta, chi li metta in luce. I posti migliori sono sempre occupati e solo la morte fisica dell’occupante libera quella sedia o poltrona.
Vi è poi l’aspetto politico della questione, a cui non accenno. L’alpinismo, l’esplorazione, sono merce di scarso valore commerciale, ancora oggi. Si veda nel campo editoriale, occupano gli ultimi posti nella graduatoria e della produzione e della vendita.
Come si entra in un giornale?
Per raccomandazione, per l’appoggio di un azionista, di un uomo politico. Vi sono scuole di giornalismo, una vera beffa per i giovani che le frequentano. Non uno è entrato in una redazione.
Vi sono naturalmente le eccezioni che nel nostro settore sono rappresentate da Walter Bonatti e Carlo Mauri. Ci può essere il posto per un terzo in un campo così limitato?
Purtroppo le mie conoscenze e relazioni con i detentori delle leve del potere sono nulle. Sono entrato in un giornale perché possedevo una specializzazione: la stenografia ad alta velocità. Trenta anni orsono era una specializzazione ricercatissima e non appena bussai all’uscio fui accolto a braccia aperte. Ora la stenografia sta morendo sopraffatta dalla meccanizzazione e dal progresso.
Ha provato a bussare alla porta della Rizzoli? L’Europeo non ha gli specialisti Bonatti e Mauri.
Vada a proporsi, se non lo ha fatto. Si porti tutto il materiale, articoli, libri, soprattutto fotografie. Non dimentichi che tanto Bonatti quanto Mauri sono in quei posti perché fotografi, cominciarono così, come fotografi di soggetti irraggiungibili dai comuni fotoreporter. Poi si sono affinati: Bonatti so che studia moltissimo e quando propone un lavoro si documenta minuziosamente.
Gita con Emanuele Cassarà (a sinistra) alla Rosa dei Banchi, 15 ottobre 1969
Emanuele Cassarà verso la Rosa dei Banchi, 15 ottobre 1969
Ora ritorno alla prima domanda. Se Lei ripudia la borghesia e la vita borghese allora è tutt’altra cosa. Può vivere dell’alpinismo facendo quasi il barbone, rinunciando a tutto.
L’esempio più calzante è Kurt Diemberger: ha ripudiato l’insegnamento (è laureato in economia), ha ripudiato la famiglia (moglie e due figlie) e vive facendo conferenze vendendo qualche volta belle fotografie. La sua casa è diventata ormai una vecchia Volkswagen. Ma in lui c’è lo spirito, I’animo dello zingaro. Cerca di realizzare se stesso, ma proprio stanotte (è qui da me da una settimana per terminare il suo libro per la Zanichelli) mi confessava che anche per lui c’è il problema di programmare una linea di condotta, un’attività. In lui lottano ancora i felici ricordi dei tempi della scuola con le lunghe vacanze e il vagabondare per le Alpi e le inderogabili esigenze di dare ordine alla propria vita e attività. Presto o tardi dovrà riconoscere il proprio fallimento.
Ma non credo che Lei voglia rompere con la società. Gary Hemming si è sparato, un altro esempio doloroso. Perché non riprende lo studio?
E’ faticoso, lungo il cammino. Certo oggi tutti vogliono bruciare le tappe, ma sono tanti che finiscono vittime del loro stesso fuoco.
Il mio consiglio? Ritornare all’Università. Chiudere il proprio ciclo per non entrare a far parte della grande famiglia degli sradicati, dei fuori posto, dei complessati, dei vittimisti per vocazione.
Mi sono molto dilungato, forse ho perduto di vista il bersaglio, ma ho cercato di farLe un quadro vero della situazione, come io la vedo con tanti anni di faticose esperienze. A presto, comunque, potremo riprendere il tema e discutendo si può arrivare a chiarire ogni cosa. Con le più vive cordialità, Alfonso Bernardi”.
Romano Palvarini sulla via di Guglielmo al Becco di Valsoera, 7a ascensione, 19 ottobre 1969
Alessandro Gogna sulla via di Guglielmo al Becco di Valsoera, 7a ascensione, 19 ottobre 1969
Romano Palvarini sulla via di Guglielmo al Becco di Valsoera, 7a ascensione, 19 ottobre 1969
Alessandro Gogna sulla via di Guglielmo al Becco di Valsoera, 7a ascensione, 19 ottobre 1969
Approfittando di una delle mie puntate lavorative in Piemonte, con Gian Piero Motti andammo su una sperduta montagna di quello che in seguito diventò il Parco Naturale Orsiera-Rocciavré: la Punta della Cristalliera. La salimmo il 14 ottobre in quattro ore e un quarto per la parete sud-ovest, via Ghirardi-Gay, un bell’itinerario con parecchie lunghezze di corda impegnative. Era la terza ascensione della via. Il mattino dopo andai con l’amico giornalista Emanuele Cassarà a fare una gita in Val Soana. Volevamo raggiungere la vetta della Rosa dei Banchi, ma dopo qualche ora di cammino desistemmo perché era tardi. Fu comunque un’escursione proficua: lontano dagli uffici di Tuttosport Emanuele era senz’altro più tranquillo e ricettivo. Il guaio è che gli mancava l’esperienza alpinistica personale, dunque per quanto si sforzasse non ebbe mai le idee chiare. Voleva a tutti i costi conciliare lo sport con l’alpinismo, cosa che poi tentò tanti anni dopo (1985) di realizzare con l’invenzione di Sport Roccia a Bardonecchia.
In una nebbiosa domenica di ottobre, il 19, con l’amico Romano Palvarini e assieme a Silvio Fraschia e Beppe Musso, salimmo in poco più di quattro ore la via di Guglielmo al Becco di Valsoera (6a ripetizione), la famosa via aperta da Gian Piero Motti e compagni. Una via bellissima, su roccia da sogno.
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È bello ricordare di quando le persone si prendevano il tempo necessario a scrivere. La velocità odierna implica meno riflessione nello scrivere ma i più la vedono come una comodità. Chissà….
mi ha commosso leggere la lettera che nonno Fonso ti ha scritto.
Come sempre schietto e diretto.
Conosco le sofferenze enormi che anche lui patì – tra la fine della guerra e la fine degli anni Cinquanta, prima di trovare la strada del giornalismo e della scrittura.
Bella la testimonianza su Kurt …e voglio pensare che l’esortazione a migliorarsi e studiare tu, caro Alessandro, l’hai raccolta per il meglio.
in questa sincera affermazione di Manera , mi ci rivedo.
Grazie Ugo della tua breve testimonianza. Benché lunga e ricca sia stata (e sono certo sia ancora) la tua esperienza tra le montagne. E anche tu, come Alessandro, ci arricchisce con le tue parole.
Molto interessante il carteggio tra Alessandro e Alfonso Bernardi, improntato a chiarezza e sincerità da ambo le parti. A cinquanta anni di distanza l’argomento mi appare ancora della massima attualità. Chi, come noi, in gioventù viene colpito dalla forsennata passione per l’alpinismo estremo, simile ad una droga, si trova a porsi la domanda di allora di Alessandro: Cosa faccio della mia vita per non abbandonare il grande alpinismo? E’ successo anche a me ma non ho impiegato molto a cancellare i dubbi ed a scegliere una mia via. Ho iniziato a lavorare a 14 anni come apprendista meccanico ed ho terminato la carriera lavorativa come direttore di stabilimento; non ho mai amato il lavoro e me ne sono sempre fregato della carriera. Il lavoro è sempre stato per me il mezzo per guadagnare a sufficienza per praticare l’alpinismo che volevo ed, in seguito, garantire sicurezza alla famiglia che poi mi sono creato; sono sempre riuscito a non lasciarmi schiavizzare dal lavoro. Arrampico da oltre 60 anni e non ho rimpianti. Se dovessi ritornare ai 20 anni credo che sceglierei la stessa strada. L’unico rimpianto che ho è che sono vecchio e non sono più capace a scalare come vorrei. Se avessi scelto una strada professionistica forse avrei realizzato qualche impresa in più ma non credo sarei più soddisfatto della mia carriera alpinistica.
Un racconto intenso. E la realtà che circonda tutti noi non è cambiata. Forse l’imbuto si è fatto ancora più stretto, esistenziale e professionale.