CAR e Amore – 2

Metadiario – 23 – CAR e Amore 2 (2-2) (AG 1970-003)

«Milano, 16 marzo 1970. Vorrei saper scriverti delle belle lettere, lunghe, come vuoi tu, ma non sono capace. E poi stasera ho tanto sonno. Ci contavo proprio che mi telefonassi, ma conciavo a perdere le speranze, data l’ora. Dunque ieri sera, per poter attendere il pullman in pace, ho dovuto ricorrere alla compagnia di due militari della SMEF perché, come mi sono trovata sola in piazza, è cominciato un carosello di macchine che mi giravano attorno (tutti borghesi). Che schifo! Quei due tizi (entrambi meridionali) sono stati molto gentili e chiacchierando l’attesa è sembrata meno lunga. Salita sul treno (Nella era venuta a trovarmi a Orvieto, NdA) me la sono vista brutta perché era strapieno, con gente pigiata nei corridoi. La porta che conduceva al vagone letto era chiusa, per cui a Chiusi sono scesa e risalita sull’altro vagone. Per fortuna ho trovato posto in cuccetta e mi sono fatta una bella dormita. Arrivata a casa mi sono messa sul letto senza neanche spogliarmi e stamattina sono andata in ufficio così com’ero. Pomeriggio ancora ufficio fino alle 19.30, poi di corsa a casa con la speranza di sentire la tua voce. Cosa farei senza di te? Sai che mi fanno male le gambe per tutto il camminare che abbiamo fatto? Sono proprio diventata una rammollita! Inutile che ti dica quanto sia contenta d’averti rivisto anche se, porca miseria, un po’ di scalogna ce l’abbiamo sempre! Mi piace poter immaginare più o meno dove sei, cosa fai, poterti pensare un po’ più concretamente. Certo che mi fai ancora un po’ l’impressione di essere diverso da quello che conoscevo, un Alessandro nuovo. La divisa militare ti cambia anche l’espressione degli occhi. Hai sempre l’aria un po’ sparuta, spersa, e i tuoi occhi non sono più i carboncini ardenti di una volta. Forse mancano solo di volgarissimo carburante: cibo. Spero proprio sia così e che tutto il resto sia immutato. Ti desidero più di prima, vorrei tanto venire giù giovedì ma i miei mi condizionano e sai che raccontar loro delle balle non è molto facile. Fra l’altro mio padre è pieno di lavoro e non penso proprio che vadano via per il weekend. […]».

Orvieto, 17 marzo 1970, ore 12.35. Non ho potuto scriverti ieri perché ho avuto tutto il giorno impegnatissimo. La mattina ci siamo messi in fila per l’ufficio selezione, poi dopo due appelli e due ore al freddo ventoso, ci hanno rimandati a fare esercitazione perché non è venuta la commissione da Roma. Comunque, non si trattava di prove fisiche, bensì era per la destinazione anticipata. Eravamo tutti diplomati o laureati e la commissione era del Comando Militare Territoriale (Roma). Il che significa che io dovrei essere destinato in un ufficio, o al Comando, o al Ministero della Difesa. Questo naturalmente è da prendere con le molle, è rimandato tutto a venerdì, quando arriverà la commissione. Poi le prove per il giuramento, tutto il giorno, fino a che ho deciso di marcare visita. Mi hanno detto di comprare delle pasticche! Comunque oggi la tosse va molto meglio. Infatti le pasticche non le ho comperate, e in compenso ho introdotto dell’altra roba, anche una supposta. Poi sono uscito e ti ho telefonato. Questa mattina di nuovo alle 6.15 per quelle stramaledette prove che continueranno anche oggi, salvo una piccola interruzione per le impronte digitali. Ieri ho ricevuto una lettera di Cappello, mi dice che il nulla osta non è operante fino a che non è definitivamente approvata la mia idoneità alla P.S. Quindi niente licenze e congedi provvisori, come del resto ormai sospettavo. Però c’era almeno la speranza, ora neppure quella.

Ore 17.20. Ho finito or ora le prove del giuramento. Quattro ore e un quarto immobili, chi muoveva la testa o una mano era punito con l’esclusione dalla licenza pasquale. Non sono stato punito. Lo sposato di Pavia mi ha detto che sei “di una classe magnifica”, l’altra sera; naturalmente ti ha vista la sera dell’Attesa Inutile, per cui ti avrà vista sotto pressione e nel contegno più assoluto. Se non te lo ricordi, è quello per cui tutte le donne sono corpivendole, in tutti i sensi. Tra poco mi cambierò per la libera uscita. Oggi ho dovuto farmi un’altra volta la barba, con la consueta fiumana di sangue e di prurito arrossato. Finirà anche questa, tra un mese. Se verrai giovedì, entrerai assieme agli altri familiari, non so come vi metteranno, comunque ti faccio vedere dove sarò io:

Cappello nella sua lettera mi raccomanda di non andare giù d’allenamento, perché appena arrivo si comincia subito. Poi mi espone un buon numero di idee che gli girano per la testa, roba che ci sarà da fare insomma, lavori fuori, attività extra, il che significa un po’ d’impegno ma anche tanta libertà. Ci penso sempre, sai, a come passeremo il tempo a Moena. Non credo che ci saranno tanti problemi, né economici né umani. […]. Spero proprio di rivederti giovedì anche se so di chiederti troppo. Mi ha fatto tanto bene domenica scorsa.

«Milano, 17 marzo 1970, ore 0.15. Sono rientrata. Dopo cena ha telefonato un mio vecchio amico, un certo Giorgio Gerli che mi faceva la corte quando ancora andavo a scuola. Regolarmente coniugato da quasi tre anni e padre di un infante di pochi mesi, trovandosi eccezionalmente solo questa sera ha pensato bene di telefonarmi. Mi ha fatto piacere rivederlo, più che altro per vedere dopo tanti anni come era cambiato. Parlando del più e del meno, sentendo che sei genovese e sentendo poi parlare di montagna, mi fa: “Ma, non sarà mica per caso l’Alessandro Gogna?”. Ti fa piacere? E’ un mediocre sciatore, per niente alpinista, pochissimo escursionista e non ha televisione. Però le cose di montagna più o meno le segue. Abbiamo rievocato tempi passati, il perché e percome di certe cose. Mi ha fatto capire (e questo era già successo in uno degli ultimi incontri, già anni dopo il nostro flirt) che per lui non ero stata un passatempo, che se l’era presa sul serio e faceva le cose seriamente. Mi ha chiesto perché l’avevo piantato. Mi ha fatto molta amarezza però constatare che anche per lui la fedeltà coniugale non esiste, visto che, se io ci fossi stata, lui non avrebbe avuto problemi. E uno di più! Possibile che tu sia proprio la mosca bianca? Vedremo fa un po’ di tempo… Mi ha chiesto cosa significava per me il nostro incontro, a parte le rievocazioni. Ho detto che per me non significava niente altro, e con questo ha desistito. Quanto sopra nel cuore della notte, per non ritardare le vere testimonianze. […]».

Orvieto, 19 marzo 1970, ore 17.20. Quella che doveva essere la nostra Festa, il nostro tripudio, una giornata di gaudio si sta concludendo malinconicamente. Sveglia alle 7, dopo le estenuanti prove di ieri, e per fortuna mi ero addormentato alle 4 di mattina, cioè ho avuto tre ore di sonno. Non riuscivo ad addormentarmi perché la telefonata mi aveva buttato giù. E’ uno stato d’essere in cui si soffre, ma di cui si è fieri. Ti ricordi quei giorni in cui non mangiavo e dormivo malissimo? Non ho più provato una cosa del genere, o almeno non ricordo, da febbraio 1969. Era un modo di esistere totalmente diverso, un po’ sonnambulo, tristezza, malinconia, constatazione di essere impotenti e frustrati. Volere una cosa e non poterla raggiungere. Dopo un anno ho di nuovo sentito così, ma qui è più grave. Ti ho detto ciao e mi sono sentito solo, con il terrore di cadere nell’autocompassione e nell’egoismo. Avevo paura di non comprenderti ed è stato in effetti un alternarsi di sentimenti, un po’ ti vedevo imbrigliata dai genitori e dagli orari, e tu scalpitavi per scioglierti e venire verso di me, e un po’ ti vedevo sdraiata sul lettino, da sola, a fumare o a leggere, alla fin fine soddisfatta delle remore familiari, oppure a sciare, oppure invitata da qualche parte da qualcuno, più comodo, meno impegnativo. So di essere impietoso, ingiusto, ma pensavo proprio così e cercavo di trattenermi. Che brutto Nella quando ti vedo sotto questa luce! So che è colpa mia, che non ti vedo più come compagna, ma come donna libera, che può fare quello che vuole, in contrapposizione al mio stato captivo, per di più. Mi balenavano mille sospetti, atroci, quello che mi hai raccontato di aver fatto a Ferrara, le Citröen, e perché dovrei crederci, in fin dei conti cosa avresti perso, non ti conosceva nessuno, se quello ti piaceva potevi benissimo fartelo e il silenzio non si sarebbe rotto. Ferrara e Citröen chi se le ricorda? Pensavo anche: se ci fossi stato io al tuo posto, cosa avrei fatto? Avrei avito esitazioni oppure decisamente avrei rifiutato l’occasione? Sarei stato capace di controllarmi, oppure avrei fatto come tanti altri? Ci ho pensato a lungo, cercando di mettermi in tentazione da solo, ho pensato a qualcosa di ossessivo, di forte, di provocatorio. Ho studiato per ore delle situazioni allettanti, inventando. Ti faccio schifo se ho pensato per ore a tutto ciò? Se ho cercato di escluderti? Non ci sono riuscito, lo giuro. Forse non mi sono spiegato a sufficienza. Non è che io fossi arrabbiato con te e che quindi cercassi di svincolarmi accorgendomi d’essere prigioniero. No. Io volevo essere sicuro che tu sia stata capace di non agire da puttana, trovando tutte le ragioni valide, capisci? E una di queste è proprio la considerazione che io non sarei stato capace di metterti le corna. A te magari dà fastidio che io possa concepire delle espressioni, delle visioni allettanti, piene di desiderio. Ma io non le vivo normalmente, non le desidero, non le sogno quasi. E’ troppo grande l’affetto che sento per te, mi sento di allargare le braccia e di rinchiuderti completamente, vorrei coprirti, nasconderti. Ho paura per te. Sono egoista, forse, se sono così sicuro di me. Ho paura di una tua sbandata, scusami. Tu non devi però raccontarmi più bugie, nemmeno le più piccole, nemmeno quelle delle sigarette. Ricordati che ti voglio bene in buona parte perché ti rispetto. Voglio essere il servitore di una buona padrona. Se questa padrona non agisce più bene, al minimo è una crisi. Come vorrei averti qui vicino! Forse i miei occhi spenti diventerebbero ancora i “carboncini” di una volta! Sei sicura che i miei occhi non fossero accesi quando ci rotolavamo in quell’albergo, su quel letto, e io ti desideravo e tu pure me, e non vedevamo l’ora di unirci, di essere una cosa sola, ricordi? E non volevi venire su perché? Dopo non era tutto più bello e sereno? Non siamo stati felici assieme, in giro per Orvieto? Ti voglio tanto bene perché ti ritengo la più fantastica e meravigliosa ragazza. Chissà quali smorfie starai facendo, adesso. Quando ti dico che sei bella fai di tutto per non crederci e per non dare il giusto compenso in sorrisi a chi ti fa il complimento.

E’ arrivata la sveglia, ci siamo alzati, abbiamo fatto colazione, siamo scesi. In cortile fermi per un’ora, poi per plotoni ci siamo avviati sul piazzale, dove erano già le autorità e i civili. Il giuramento è andato abbastanza bene, poi sono uscito con l’assurda speranza di vederti. Ho depositato guanti bianchi, arma, baionetta ed elmo. Mi sono messo le scarpe da libera uscita, pensando che tu fossi nei pressi del parlatorio, insieme alle migliaia di persone. Sono uscito da solo appositamente, non ti ho vista e ho risalito il corso entrando nei negozi di fotografia. Piovigginava. La macchina che voglio prendere […] è la Icarex 35, oppure la Icarex 35S della Voigtländer, che è una reflex dunque può essere dotata di tutti gli obiettivi che si vuole, nomali, grandangolari, teleobiettivi. Ho girato quattro o cinque negozi, sono entrato nel bar nel quale siamo stati assieme con il Corriere della Sera sottobraccio, ho incontrato il salernitano (o napoletano, non ho ancora capito) con il padre e la ragazza, mi hanno invitato a sedermi. Il padre era il classico tizio che ti vuole consolare, l’unica che capiva qualcosa era la ragazza. Con una scusa sono uscito, sono andato a mangiare da solo nel ristorante più costoso, Morino. Non sentivo il sapore dei cibi, quindi l’ho fatto solo per il gusto di spendere. Sono uscito, ho letto un po’ il giornale, ho letto della morte di Toni Gobbi e di Mirko Minuzzo ferito, mi è venuto un nodo alla gola, una tristezza indicibile. Camminavo con il velo di lacrime e continuava a piovigginare. Sono entrato al cinema, davano Lovemaker, un bel film, che dovresti vedere: è in un ambiente tipo quelli vissuti da te. Il finale è un po’ cretino, ma si tratta di non più di 30 secondi in tutto il film, che è veramente bello.

Sono uscito dal cinema e sono andato in lungo e in largo per Orvieto, guardando se ti vedevo. Poi mi sono diretto alle mura, e ancora non c’eri. Sono proprio sbattuto. Entrato in camerata ho cominciato a scriverti, mentre Nino, quello di Pavia, raccontava che al pranzo di oggi in caserma ha trovato nella pasta due peli ricciuti. Chissà dove sei in questo momento. Sto scrivendo al buio. Domani sera ti telefono. Aspetto una tua lettera o, meglio, che tu venga ancora qui.

Verso il 19 di marzo ricevo una seconda cartolina di Messner:
«14 marzo 1970. Caro Alessandro, ho appena letto il tuo scritto sulla Scotoni. E adesso sei militare. E’ duro, lo so. Per il Philipp non c’è niente da fare. Troppa neve. Meglio per te. Anche a me va bene. Aspetto. Mi piacerebbe farla con te. Auguri e saluti, Reinhold».

Orvieto, 23 marzo 1970, ore 17.30. Spero che tu abbia fatto un buon viaggio e che abbia trovato da dormire abbastanza facilmente (Nella è venuta a trovarmi una seconda volta, NdA). Io ho dormito direi magnificamente e questa mattina ho avuto un risveglio quasi umano, visto che il programma era di andare al campo sportivo in tenuta ginnica. Non ti dico gli enormi sforzi fisici che ho dovuto sopportare… una ventina di esercizietti da ridere che però penso mi abbiano fatto abbastanza bene, al mattino e all’aria aperta. Poi cercavo di farli bene. Purtroppo dopo un’ora e mezza la pacchia è finita ed è ricominciata la solita routine di marce, lezioni in aula e interrogazioni cretine. Tutti vogliono la licenza, qualcuno ha delle raccomandazioni obbrobriose. Io me la sono cavata ricevendo tre giorni, quando credo che per legge non avrei dovuto avere neppure un’ora. Però non sono sicurissimo, soltanto sicuro. Prima voglio vederla e toccarla. Partirò sabato mattina. Non so se devo tornare lunedì a mezzanotte o martedì a mezzanotte. Stasera ti telefono per sapere tue notizie e poi anche in seguito per darti le novità sulla licenza. Ovviamente ti scriverò anche e, in cambio, vorrei lettere tue. Evidentemente quando cammino vicino a te sono ancora più sbadato del solito perché non vedo nessuno, mentre tutti vedono te e me (soprattutto te). Ieri sera rientrando ho ricevuto alcuni simpatici commenti. Chi diceva che io, accecato dall’amore, non saluto gli amici, chi si limitava a un semplice “ti ho visto assieme alla tua…” e s’interrompeva perché la frase non aveva motivo di essere continuata e anche perché io troncavo, gentilmente, con un sorriso ma facendo capire di apprezzare. Altri: “Ma come, da Milano già due volte?”. E io giù a gongolare, per doppia soddisfazione: 1) tu sei perdutamente innamorata e non esiti ad affrontare pericoli, fatiche e lupi per venire a trovarmi così lontano; 2) ho avuto una bella fortuna e abilità, nonché naturale fascino, per trovarne una simile. Un altro ha detto che si vedeva bene che ero abituato a stare accanto a te, ma non in divisa. Certamente più a mio agio in borghese. In generale, comunque, un solido e corale atto di approvazione, ammirazione, squisito riconoscimento di inferiorità (loro non hanno una come te). Io, nella mia finta modestia, cercavo di non far pesare troppo la mia superiorità (ben deciso comunque a non mollarne neppure un grammo). Si tratta del giudizio di otto-nove persone, compreso il romano che conosci, escluso il Voghera e il Bologna. Chiusa la fiera delle vanità, mi sono ritirato in me stesso a meditare sul perché tu attiri tanta ammirazione. Certo bello e buono non sono apprezzati solo da me. Una pallida idea di come valutarti ce l’hanno tutti, purtroppo. E la tua classe si distingue sempre. Non è un complimento, prendilo per certo. Medita che ti medita mi sono rinchiuso nei ricordi più recenti della nostra giornata orvietina. Sentivo solo che è stato bello, naturale, sentito, necessario, senza note false. Sono entusiasta di te e mentre me lo dico mi sento sempre più bisognoso della tua presenza e del tuo affetto. Scusa se ti parlo così, molto semplice e con poche parole, ma è veramente ciò che sento. Tu sei tutto per me, anche se a te può apparire non del tutto vero. Quasi quasi vorrei che tu vedessi cosa potrei diventare io senza di te. Mi credi? […].

Ornella Nella Antonioli

«Milano, 23 marzo 1970, ore 21. Sono stracca morta, già in pigiama, pronta per tuffarmi in un sonno profondo. In treno, contrariamente all’altra volta, sono riuscita a dormire poco e male. Stamattina a casa non ho più dormito, perciò in tutto avrò avuto tre ore di sonno. Per me è molto poco. Oggi in ufficio tutto il giorno, c’è parecchio lavoro e penso che avrò le giornate piene per tutta la settimana. Sono contante, di buon umore e la cosa, anche se è un brutto segno, dato il periodo, è piuttosto piacevole. E’ arrivata ora la tua telefonata. Ti prego, un po’ di bromuro prendilo, se non tra due giorni cominci a dare in escandescenze, diventi rissoso e vai nelle grane. E poi a cosa ti serve adesso non prenderlo? Mi hai dato una triste notizia per Pasqua, maledizione. Speravo di poter stare con te almeno due giorni interi. Comunque, magari vai direttamente a Genova e poi in caso ti raggiungo io là, se ritieni fattibile la cosa (magari vado in albergo, ormai sono abituata…). Non voglio rinunciare a stare con te. Adesso smetto, altrimenti mi vengono in mente le grane, con annessa tristezza. Scusami se sono breve. Ti abbraccio e vado a dormire».

Orvieto (non può essere altrimenti), 24 marzo 1970, ore 18.30. […] Anche questa sera non sono uscito, voglio andare a dormire tra poco. Ieri sera invece sono andato dal Cocco, con Marco Ferrari, Roma, studente fuori corso di architettura, con Mini-Morris, intelligenza sprecata nella mancanza di ideali. Poi ho telefonato a te. […] Questa mattina ci hanno svegliati alle 4 e siamo andati al poligono per sparare. Ho tirato 48 colpi con il fucile Garand e mi fischiano ancora le orecchie, come prevedevo. A me i rumori forti danno molto fastidio. Figurati che mi fischiavano già prima che cominciassi io a sparare, con il solo fragore degli altri. Viaggio osceno di 30 km + 30 su autocarri aperti (all’andata ore 6 di mattina), con gente che vomitava sul camion e stipati in 22. Roba da pazzi. […]

Mi sono accorto che gli altri sarebbero disposti a credere nella lealtà e nella grandezza dei miei ideali, ma ne sono ostacolati dai miei altrettanto evidenti divismi o pseudo. Quanti potrebbero essere i casi?

  1. A) Il mio ideale non è stato compreso, e allora è chiaro che le conseguenze sono due: 1) gli effetti (divismo) non sono conciliabili con la supposta purezza; 2) gli effetti (divismo) sono perfettamente conciliabili in quanto il divismo è il mio ideale…
  2. B) Oppure il mio ideale è stato ben compreso, e allora è stato male interpretato il preteso divismo.

Il caso A2 è ovviamente il più frequente. Seguono A1 e B. Credo molto nella storia, la storia farà giustizia. La storia impicca chi falsa le cose. Cosa è un divo? E’ l’individuo che antepone la propria immagine a se stesso., Per quanto riguarda l’alpinismo, io ho sempre fatto il contrario. Prima i fatti concreti o le aspirazioni giuste e grandiose, poi la pubblicità. E che le imprese non le fa deve rischiare la pubblicità negativa, cosa che ho sempre fatto. Per quanto riguarda la mia vita privata ora sto seguendo le stesse direttive. […] L’immagine è meno importante del fatto e la storia fa giustizia delle immagini false. Quelle che rispondono al vero, la storia le conserva e le abbellisce […].

La partenza per le vacanze della famiglia Antonioli

«Milano, 24 marzo 1970, ore 19.30. Sono arrivata a casa adesso e non sto bene. Sto covando la mia solita influenzetta, ma questa volta ho anche mal di gola e un po’ di tosse. Continuo a pensare a quanto meglio starò se verrò a Moena, ma ho anche paura che finisca come la storia del matrimonio: se ne parla, se ne parla, e poi non si riesce a fare. Comunque l’importante è che cominci ad andarci tu. […].

Ore 21.30. E’ venuto il Leo a cena e adesso è uscito con Marina per andare al cinema. Hanno tutti e due una bellissima faccia abbronzata… Ci sono Roberto Sorgato e tre francesi dispersi sul Monte Bianco, erano sul canalone Gervasutti, oggi sono partite le squadre di soccorso. Oggi la radio ha detto che durante una schiarita sono state viste due persone in cima al canale, ma stasera nessun’altra notizia. Questa sera che non ho sentito la tua voce mi manca qualcosa. Se riesco a smaltire un po’ di arretrati di sonno, nei prossimi giorni andrò a qualche cinema, così non penso a niente. In ufficio cominciano a rompere perché c’è troppo lavoro e io proprio non ho voglia, dopo 5 o 6 ore la mia carica si esaurisce completamente. Comunque il guadagno è notevole, per cui resisto. […] Mi prometti che farai qualcosa anche tu per facilitare la mia eventuale venuta a Moena? Intendo… con i miei. Non voglio rinunciare a stare con te, ma ho paura di tutte le difficoltà. Mi ero ripromessa di non fumare più, ma non ci sono riuscita. Però fumo molto meno».

Orvieto, 25 marzo 1970, ore 17.15. Ieri sera avrebbero voluto punirci perché eravamo nelle camerate. Cinque giorni di consegna. Così sono andato di corsa in infermeria a marcare visita e dimostrare così che ero a riposo. In effetti un tenente medico mi ha dato dei potenti tranquillanti per via del fischio alle orecchie. Ne ho preso due ieri sera e tre oggi, per cui l’odierna giornata l’ho passata totalmente a letto a dormire profondo. Tra poco mi alzerò per uscire, sempre che all’ispezione non ci sia Perini, l’unico ad avermi visto a letto. Che bella dormita! Mi viene in mente il Laroxil. Ho sognato molto, ma non ricordo niente. In compenso il raffreddore sta maturando e mi dà molto fastidio.

Ore 22.35. Sono uscito e sono andato a mangiare alla Rupe. Ero con un certo Ghezzi, di Milano o dintorni, e con un certo Martelli, di Bologna: quando sono tornato ho avuto la sorpresa di trovarmi come piantone alla porta centrale, dalle 22 alle 24: significa essere seduti a un tavolino con la luce di fronte alla porta per la quale devono entrare e uscire tutti quelli della 7a compagnia. Così sono attorniato da altri grandi servitori della Patria che piantonano la camerata n. 1 e n. 2 e i cessi n. 1. E sono tutti qui perché c’è la luce. Mentre ti sto scrivendo c’è qui una crocchia di gente che si lamenta. Uno è un aviere che aspetta ormai da un’ora di avere le coperte e poter andare a dormire. Un altro, barista genovese, che a suon di “belin” racconta come lo trattano in camerata. E’ un bonaccione , un po’ all’epicentro di tutti gli scherzi veramente schifosi, tipo pisciargli negli scarponi e altre amene cosette del tipo. Però se mette le mani addosso ti spacca, è già successo che a qualcuno abbia rotto le costole. Cosicché non vuole andare a dormire, altrimenti mena. E se mena, rompe degli arti. Siamo in piena corrente d’aria (sai quanto io la odi) e nella puzza dei cessi, molto vicini.

Stando alle ultime notizie per Pasqua, dovrei partire sabato mattina e rientrare martedì sera. Ormai sono le 23.40, tra venti minuti smonto e vado a dormire. Ho molto sonno e non riesco a pensare a te come vorrei, perché c’è gente che fa casino. Però quando mi sdraierò nella cuccetta (che è già fatta) passerò con te gli ultimi minuti prima di addormentarmi, in pace e tranquillità, nel buio cercando di ricostruire il tuo viso, le spalle, le mani, la voce.
Ora sono arrivati i caporali mezzi brilli e il casino è aumentato. Parlano di cinque o sei che hanno avuto bisogno della colletta per andare in licenza. Io avevo dato 200 lire a uno di Agrigento. […] Domani sarò piantone in camerata dalle 12 alle 18, così avrò tutto il tempo di scriverti con calma. […] Credo proprio che sabato sera saremo assieme.

Gabriella e Nino Antonioli, Venezia 1947

Orvieto, 26 marzo 1970, ore 18.40. Oggi ho finalmente ricevuto una tua lettera. Mi spiace di averti attaccato raffreddore e mal di gola, e se non è colpa mia mi spiace lo stesso. Questa mattina ho fatto quattro ore di aula leggendo per conto mio Hegel. Poi sono salito su, saltato il pranzo, quindi ricevuto la tua lettera e quella di mia nonna, che ti allego. E’ stata per me una grossa sorpresa, spero che le cose a Genova si mettano ad andare un po’ meglio. […] Dopo la lettura, per favore metti la lettera della nonna in “corrispondenza ‘69”. Povera nonna, mi è apparsa diversa, e poi è la prima che ricevo da lei. Ti confermo che non ho buoni presentimenti. A volte vedo la “baracca” di via Pareto come una nave di naufraghi condannati, per i quali non posso far niente. Non mi sento di far niente. E’ brutto e avvilente pensare di essere in buona parte responsabili delle sofferenze dei propri cari. Beh, si vede che era destino così. C’è solo da rassegnarsi ad avere una vita nostra, indipendente fino a una certa età. Poi, nella maggior parte dei casi, sono gli altri, i figli, a reggere e determinare, bene o male, le sorti. Scusami questi discorsi, ma tu sei l’unica cui posso confidare questi pensieri tristi. Nella tua lettera paragoni Moena al matrimonio nostro che, come dissero i “bravi” di don Rodrigo “non s’ha da fare”. Quando siamo assieme non ne parliamo mai però la notte passata insieme a Macugnaga è stata una delle più belle. Cosa vuoi che sia qualche mese di ritardo? Se a maggio, come sarà, ci troveremo insieme, il primo passo sarà fatto. Ci sposeremo appena finito Moena. Perché non crederlo, sperarlo e volerlo? Cosa hai paura che succeda in un anno? Che cambiamo idea? […] Pensa che quando sarai a Moena vedrai tutto più roseo, starai meglio in ogni senso. Non ci può essere una frattura, non è possibile, ne sono proprio convinto, non passa giorno senza che questa sicurezza aumenti dentro di me. Hai paura delle difficoltà? Ma allora non mi hai ancora visto scatenato, cara! Una volta in auto mi hai fatto notare di essere sempre incerto, insicuro. Forse è vero. Però ora ho veramente deciso. Tu, massimo dieci giorni dopo che io sarò arrivato a Moena, mi raggiungerai. Non siamo certo i primi a superare delle difficoltà per stare assieme. Arrivo al punto di dirti che farò tutto io, tu non devi muovere un dito […] In fin dei conti non è un trasferimento definitivo. Sarà solo una lunga vacanza annuale che ti concedi in mia compagnia. Proprio così gli dirò ai tuoi. Se capiscono, bene. E se non capiscono, pazienza. Tanto lo vedono anche loro che è così. La soluzione di aspettare un anno è assurda, non lo accetteremo mai. La rogna ha un limite e così pure il rispetto di certe convenzioni. Scusami lo sfogo. Tu mi dici che chi si stacca dalla famiglia sei tu, dunque è tuo il passo più impegnativo, più grave. Guarda che i genitori poi tante cose le dimenticano. Poi, è un prezzo che bisogna pagare. Se non ne sei convinta, è inutile che ci mettiamo a programmare, non servirebbe. […].

Come previsto parto in licenza il 28 marzo e arrivo a Milano in tarda serata. Non ricordo come passiamo la Pasqua, so solo che il lunedì 30 sono con Leo Cerruti sulla via Campione al Nibbio. E nel pomeriggio salgo da solo sulla via Cassin alla Corna di Medale.

Orvieto, 1 aprile 1970, ore 11.45. Qui c’è un bel sole e spero che in quel di Milano “piova orrendamente, diluvi” (mi riferisco qui al suo ciclo, NdA). Credo nel nubifragio, nella procella divina. Questa notte ho fatto in 2a classe fino a Bologna, o poco oltre; dopo, pagando 800 lire, mi sono trasferito in 1a, dove ho dormito placidi sonni fino a Orvieto. Spero che tu non sia più tossicolosa, rantegosa e mucosa.

Ho letto il settimanale Il mondo. Probabilmente i tuoi lo conoscono, come rivista, meglio di me. In tal caso però non capisco come facciano ad essere ancora abbonati a L’espresso. La differenza è abissale. Con 9.000 lire all’anno, leggendo Il mondo, si può fare a meno di qualsiasi altro giornale. Ieri sera l’ho letto per tre quarti fino ad oltre Bologna. Ho capito tutto. La lettura è piana e nello stesso tempo non banale, anzi intelligente, in perfetto italiano (a parte un incomprensibile, almeno per me, “disfava” invece di “disfaceva”). Ogni articolo ha una piccola tesi, cui si arriva con il ragionamento, con le informazioni ben dosate ed esposte con chiarezza, senza aggrovigliarle all’interpretazione dell’autore dell’articolo. Anche se non sai nulla di un argomento, riesci a comprendere perché non ci sono sottintesi, cose date per già scritte, o formule, come invece capita su L’espresso. Hai mai provato a leggere a fondo un articolo di politica su L’espresso? E’ pieno di riferimenti al passato, esempio “… come capitò nel maggio 1960 a Fanfani”. E cosa diavolo capitò a Fanfani allora? Su Il mondo, nessun riferimento: se c’è, c’è per esteso. Forse può essere colpa del lettore, ignorante, come me. Invece dico che Il mondo ha un dialogo perfetto con il lettore, che può essere ignorante o superacculturato. Ci sono meno fotografie insulse, il formato è più comodo.

Arrivato qui alle 5.55, ho dormicchiato fino alle 6.30, poi siamo andati a fare ginnastica, quindi altre prove per il cambio di comando del reggimento. Oggi pomeriggio sono piantone ai cessi n. 1, il che significa che dovrei lavarli. Non riusciranno a farmelo fare, questo è poco ma sicuro, a costo di vomitargli in faccia.

Ore 12.55. Finora ho scritto dal barbiere. Ho mandato una lettera a Cappello dicendogli delle mie meravigliose possibilità di pubblicizzare qualunque cosa, la Scuola Alpina per esempio, su rotocalchi a enorme e valangosa diffusione, oppure televisivamente. […] Magari gli interessa. […]. Per la macchina fotografica, ho deciso. Fammi il favore, telefona al Fazzini alla stessa ora di ieri sera e ordinagli per conto mio una Icarex 35S, un grandangolo Scoparex 35 mmm e un tele Superdinarex 135 mm (lire 165.000+73.000+80.000 con il 50% di sconto, quindi lire 159.000), che devono essere pronti tra il 20 e il 23 aprile.

«Milano, 1 aprile 1970, ore 19. […] Mi sento un po’ in colpa perché trascuri tuo padre, però è stato tutto così bello e sei stato molto buono. Scusa se io invece ho dato un po’ i numeri. Mi rendo conto sempre dopo d’essere stata insopportabile. Però lo sai che quando mi salgono alla testa i fumi delle incavolature non ragiono molto… ma mi dura poco. Certo che il mio equilibrio, già così instabile di natura, ha subito in quest’ultimo periodo dei duri colpi, per stress morali e fisici… […] E adesso ho il terrore di dover affrontare ben altro. Sono molto seccata, mi dispiacerebbe moltissimo e mi sembra inutile venire a Moena per stare con te con la pancia. Sarei un impiccio, non sarei autosufficiente, non potrei sciare o camminare, non potrei fare niente con te, neppure seguirti alle conferenze. Insomma sarei un peso morto e per di più noiosa, perché in quelle condizioni sarei pietosa e frignona.

Ore 24. E’ venuta l’Antonella a trovarmi, verso le 21. Ha mangiato con noi, abbiamo chiacchierato un po’ e alle 23.30 è arrivato il Mario a prenderla. Molto carina, tutta vestita di nuovo, scarpe, borsa, calze blu, impermeabile blu, foulard al collo, bella magrina e abbronzata. Mentre salutavo Mario davanti al portone, sono arrivati Leo e Marina, reduci dall’aver visto Easy rider, per cui discussione se il film sia o meno una c… Adesso si sono trasferiti tutti a casa di Leo, dove Mario cenerà a pane e formaggio. Confidavo nella tua telefonata, grazie.
Con i miei di te non si è parlato, un po’ perché non se ne parla mai, un po’ perché c’è stato un gran casino di telefonate e via vai di gente. Comunque sai che se vogliono sapere qualcosa chiedono a Marina. Mi pare che abbiano chiesto se si sa qualcosa di nuovo per Moena. Adesso vado a letto e spero di dormire. Ti abbraccio».

Orvieto, 3 aprile 1970, Ore 16.40. Ieri mattina abbiamo reso gli onori al nuovo colonnello, è stata una pagliacciata unica. Poi nel pomeriggio ci hanno fatto la seconda puntura con conseguenti due giorni e mezzo di riposo. Così ieri sera non ho potuto uscire. Non essendo andato al rancio a mezzogiorno, avevo una certa fame. Mi sono messo in coda, sono entrato nella mensa e, all’odore nauseante che c’era dentro (strano, di solito non è così forte), mi sono sentito quasi male e sono uscito subito. Sono andato a dormire dopo aver rimediato un panino col formaggio. Oggi sono ritornato alla mensa, superando grosse difficoltà psicologiche, ma ho assaggiato qualcosa. E pensa che c’era il nuovo colonnello che girava per la sala! Stasera non uscirò neppure e sono ancora incerto se andare a mangiare. Ti telefonerò alla solita ora. Oggi, stando a letto, ho scritto un po’ di lettere. Prima di tutto a Gianni Pàstine, quello della guida del Prefouns […]. Poi a Oscar Tamari, parlandogli della stessa guida. Infine ho scritto anche a Vittorio Pescia. Domani ti allegherò una brevissima lettera per Toni Hiebeler, che tu mi dovrai tradurre e scrivere a macchina. Ti assicuro che sarà brevissima. Non ti preoccupare per la firma. Dovresti farmi anche un altro favore, prendere quell’articolo sulle donne di Trento (che dovrebbe trovarsi o nella cartella marrone “articoli inutilizzati” o nella lettera ritornata dal Corriere Mercantile) e inviarlo pari pari ad Aurelio Garobbio (non precederlo con “dr.”), via Modena 20, Milano, cui scriverò domani. Non ho ancora ricevuto niente da te e mi dispiace, ma non credo dipenda da te. A me tosse, mal di gola e raffreddore sono passati. E poi dicono che l’aria di Milano non è salubre… […]. Ho pensato un discorso da fare ai tuoi, niente di speciale, però contiene tutte le ragioni che ci spingono a questo progetto. […]. Quelli di Rassegna alpina mi hanno chiesto al telefono di scrivere qualcosa per loro, domani magari […]. Su Fotografare ho letto ciò che scrive un lettore di Lucca che va in montagna e che chiede consigli su una macchina buona da poter maltrattare. La risposta del direttore è stata: Icarex 35S con Scoparex (grandangolo) e Superdinarex (medio tele): proprio ciò che ti ho fatto ordinare io! Da notare l’assenza dell’obiettivo “normale” nella risposta. Il che significa che ho visto giusto, una delle poche cose che mi hanno fatto piacere in questi giorni, a parte le telefonate a te. Non vedo l’ora di parlarti e voglio sentire la tua voce. […] Voglio dirti ancora una cosa, fidati di me, sempre. Un po’ ermetico, ma chiaro e semplice. Vorrò sempre stare con te, non posso fare a meno di pensarti e vorrei accarezzarti i capelli.

«Milano, 5 aprile 1970, ore 21.30. […] Volevo scriverti ieri sera dopo la telefonata ma ho trovato la casa piena di gente. Mi sembrava così strano d’essere lì senza di te e mi sono sentita così sola ieri sera nel percorrere la stradina verso Dolonne, dopo averti detto ciao così da lontano oggi ho tentato di telefonarti, perché avevo bisogno di sentirti, ma mi hanno dato la comunicazione pochi minuti dopo le 12.30 e tu eri già uscito. Il tempo qui a Courmayeur è stato brutto, oggi nevicava e non ho sciato. Sono venuti su ieri sera Lorenzo, Silvana e la bambina Chiara. Loro oggi hanno sciato ma io ero troppo giù per farlo. La Fiorella si è fratturata il malleolo, era ferma ed è stata investita da un ragazzino francese.

Ha cominciato a “piovere” adesso, e ti puoi immaginare il pensiero che mi sono tolta. Spero che domani sera mi telefoni per potertelo dire a voce, però andrò ugualmente dal dr. Montel perché 40 giorni non sono cosa normale. Ti voglio bene, un bene enorme, e non vedo l’ora di poter stare un po’ con te, ma un po’ a lungo e bene. Credi che ci riusciremo? Più passa il tempo e più mi accorgo che sei diventato la mia ragione di esistere, per quanto questo possa essere sbagliato, che senza di te non sono niente, mi sento persa e sola. Per nulla al mondo rinuncerei a te. Puoi immaginare quanto questi ultimi giorni mi abbiano fatto pensare a noi due, al nostro rapporto, all’atteggiamento con cui io lo prendo e lo vivo. E sono convinta che è una cosa molto bella, qualunque cosa succeda. Ho voglia di parlarti, ma non per lettera. Spero di vederti presto. Ti amo e ti abbraccio forte forte. PS. Sai che quasi quasi ora mi spiace che “piova”? Mi ero abituata all’idea… che strizza, però!».

Orvieto, 6 aprile 1970, ore 9.35. Non so da che parte cominciare per giustificare il mio silenzio di due giorni. A parte i pranzi che mi sono concesso, vista la fame ormai nera che mi perseguitava, ho cercato di stare da solo. Sabato sera sono uscito, tramite inganni e fughe. Ho mangiato da solo, e così pure ieri, domenica, mattina e sera. La prima volta al Grillo, le altre due dalla Pia, cioè i locali più scassati di tutta Orvieto. Ciò non ha tolto che mi facessi tre belle mangiate, tali da sfamarmi. Domenica pomeriggio faceva molto freddo ed ero senza cappotto, così ho visto Quel maledetto ispettore Novak. Ho aspettato a scriverti perché volevo essere sicuro di ciò che ti dicevo.

  1. E’ chiaro che ancora in questo momento spero che non sia successo niente. Certo, sono ottimista, perché voglio prima aspettare l’esito dell’esame.
  2. In caso positivo, le possibilità sono tre: a) procedere drasticamente; b) aspettare ‘sto figlio e trasferirsi a Moena (con qualche possibilità di matrimonio, chi lo sa); c) rinunciare a Moena, io vado al reggimento normalmente e poi ci sposiamo.
  3. In base a queste tre possibilità, sai bene che io voglio agire secondo coscienza. Qualche volta in vita mia non l’ho fatto, qualche volta sì. E in questi ultimi casi mi sono sempre trovato bene. Se ho un forte impulso che mi spinge ad agire contro la ragione, contro la pratica, lo seguo, lo sai. Ho sempre fatto così. E non intendo rinunciare a questa bella parte di me. Perciò sento che, se deve saltare fuori qualcosa di nostro, questo deve esistere. Ti voglio troppo bene. Poi al telefono ti ho detto anche crudamente che una simile prova per te è troppo gravosa. Pensa che tu adesso fisicamente non sei più quella di anni fa, sei più delicata, hai bisogno di un lungo periodo di riposo, non puoi affrontare altri stress fisici. Con terrore guardo anche alla possibilità che tu possa rimanere pressoché sterile. Non lo voglio assolutamente. Certo, le ragioni pratiche sconsigliano tutto questo, lo so. Come si farà poi, ecc. Certo sarà un periodo difficile, ‘sto pargolo, bisognerà mantenerlo, crescerlo, ecc. E’ preoccupante. Ma tu pensa a cosa succederebbe se non facessimo così. Non so esprimertelo, ma sento un dolore dentro di me, ti vedo in volto e capisco che stiamo pensando la stessa cosa. Sarebbe ugualmente un ostacolo, sai, tra noi due, e non più tra noi due e gli altri.

Quello che ti scrivo non è il frutto di una meditazione momentanea, e neppure di una manifestazione esibizionistica di coraggio. Potrei anche dirti: se non lo vuoi, allora facciamo come vuoi tu. Invece no, non voglio creare ostacoli tra noi, non voglio diventare simile ai tuoi predecessori, non voglio casini tra di noi. Il casino ci sarà, ma contro gli altri, noi saremo assieme. Questo è ciò in cui credo e ti “costringerò” a fare così…

Infine la questione se andare a Moena o no. Dovendola prospettare ai tuoi, è chiaro che la soluzione da loro scelta sarebbe quella della mia rinuncia a Moena. Con il matrimonio sarebbe tutto più facile. Se mi ostinassi per Moena, mi accuserebbero di egoismo, di noncuranza per la sofferenza altrui, e via dicendo. E non avrebbero tutti i torti. Ma vediamo cosa succederebbe se io non andassi a Moena. Per un anno sposati, senza che io possa far niente per te, tu ancora dipendente dai tuoi, e senza poterci vedere. Un anno che passa senza che io possa continuare la mia attività, nel modo più assoluto. A Moena qualche lira la tirerei fuori e continuerei a fare quello che ho sempre fatto. Senza contare che poi, a servizio finito, potrei benissimo lavorare: ho due mani, due braccia e un cervello. Va a remengo ai giornali, ci sono sempre le rappresentanze. Io propenderei per questa soluzione (naturalmente tu verresti a Moena per quasi tutto il periodo di gestazione) e se là ci si può sposare, meglio.

Però, ultima cosa, per questa seconda decisione il mio è solo un desiderio, non una volontà. E’ chiaro che qui la parola non spetta solo a me, ma soprattutto a te e anche ai tuoi. Per questa seconda decisione tutti hanno diritto di dire qualcosa. Ma per quanto riguarda la prima, tenerlo o no, parlo solo io, chiaro? So di volere così. Tu al telefono mi hai chiesto se per caso la mia decisione poteva essere diversa nel caso tu non avessi già avuto esperienze del genere. E io ti ho risposto che forse sarebbe stata diversa, che comunque avrei preso più in considerazione la cosa. Dovrei vergognarmene? Non credo che la storia e il futuro si facciano con i “se” e con i “se per caso”. E’ andata così, la nostra storia non cambia. Non chiedermi cosa avrei fatto. Non lo so e m’interessa poco. Non prendere a pretesto queste sciocchezze per cercare di convincermi, ti prego. E scusami se ti voglio imporre qualcosa, non vorrei che ora ti fossi arrabbiata. Ti voglio tanto bene e queste cose vorrei avertele dette a voce.

Ornella e Giuliana Antonioli, 1946

«Milano, 6 aprile 1970, ore 21.30. Che brutto quando mi dici ciao e sento la linea che si chiude, ogni volta è una piccola sofferenza, dopo quei brevi minuti di dialogo in cui ti sento più vicino. […] Oggi sono stata malissimo tra pancia e schiena, ero distrutta. Ora va meglio, ma vado subito a letto. […] Il weekend a Courmayeur mi ha fatto bene, anche se il tempo non era felice, e ho già cambiato faccia. Sabato prossimo, se non sarà possibile che c’incontriamo, tornerò su e comunque cercherò di muovermi.
Ieri sera mi ha telefonato Ettore, per salutarmi. Pare che parta la settimana prossima, ma la cartolina non gli è ancora arrivata. Il Vallini mi ha detto che ha qualche lavoretto di traduzione dal tedesco da farmi fare. Vedremo. M’interesserebbe, perché ormai di straordinario non ne faccio più e i soldi sono pochini».

Orvieto, 7 aprile 1970, ore 14.30. Sto seguendo un’attesa lezione sull’MG, un fucile mitragliatore. Ti sto scrivendo quasi sotto agli occhi del tenente che crede che io prenda appunti sulla sua preziosa esposizione. Quello accanto a me legge Quattroruote, che poi leggerò anch’io, quando domani lo avrà finito (lo legge tutto). Alla mia sinistra, uno sfoglia di nascosto una rivista porno. Questa mattina siamo ancora andati giù in valle (km e km), con fucili, elmi, borracce e baionette. Arrivati in loco alle 9.15 e ripartiti alle 10.15, dopo una chiacchieratina tenuta dai tenenti sulle carte geografiche e topografiche, cosa che potevamo fare tranquillamente in caserma. Ma qui si fa tutto per finta, a fare l’esercitazione bisogna andare. Quando poi si è là, se non si fa nulla non è importante. La musica continua uguale, questa notte ero di piantone dalle 4 alle 6.30: non mi hanno svegliato e io alle 5.40 al primo raggio di luce ho aperto un occhio. Alle 6 avrei dovuto svegliare un caporale! Nonostante non avessi paura di un’eventuale ispezione (me ne fregavo, in quanto non ero stato svegliato), mi sono alzato come una molla. Non avevo dormito né poco né tanto. La mia permanenza nella cuccia non ha superato di tanto le sei ore. E’ stata una sensazione piacevole, come da parecchio non provavo, vista la mia recente sonnolenza al risveglio. […]. Peccato però per il raffreddore, ricominciato ieri sera, anzi peggiorato perché di nuovo non sento alcun sapore nei cibi. Questa specie di morbo dev’essere qui in camerata e io ne vengo aggredito ciclicamente: poi però sono l’unico ad avere il disturbo di non sentire i sapori […]. Al self service non ho più messo piede, neppure al rancio mi vedono. Chi continua a usufruire della mensa racconta storie allucinanti. Questa sera ti telefono, mi piace sentire la tua voce e mi piace anche, scusami, sapere che tu sei là ad aspettare la telefonata. Non per questo comunque aspetto a telefonare… Ieri sera per esempio, prima di ottenere la linea libera, sono passati cinque minuti. Poi era occupato. Se potessi, ti farei aspettare il meno possibile. Sono contento che tu stia bene, ora, dopo le “precipitazioni”. […].

Ore 15.20. Sono in camerata, mentre il plotone è a fare la doccia, io penso di farla questa sera all’hotel Posta. Ieri ho fatto anche lavaggio calze, solo un paio… saranno asciutte tra tre giorni e potrò metterle. Come ti ho detto ho scritto ad Aurelio Garobbio, a Venezia, a Samuele Scalet. Per l’articolo sulle donne, vedo che hai la testa dura, forse più dura della mia, e questo mi fa piacere. Se credi aggiungi qualcosa tu, altrimenti inviamelo che poi glielo rispedisco rifatto (o intatto). In ogni caso comunque bisogna far prestino perché ad Aurelio ho detto che gli arrivava subito, lui si è raccomandato, ma si sa che io sono impegnato “a fare la guerra”. […]. Oggi pensavo che, se l’accettazione è immediata, non dovrebbe essere interesse dell’esercito tenermi ancora una settimana, vedremo. Oggi ho scritto a mio padre e ho ricevuto una lettera da lui. E’ un po’ che è a casa, mangia dagli zii, forse andrà a lavorare tra una settimana. La nonna è ancora in ospedale, in osservazione, ma le notizie non sono allarmanti. Quello di Voghera forse lo sbattono a Trieste, non si capisce bene… lui era convinto di andare vicino a casa. In questi giorni cominciano a partire, gente che si aggruma di fronte ai cartelli, le chiacchiere, le illazioni più inutili, le furberie pretese, le sicurezze fasulle. Tutto viene a galla, se mai ce ne fosse stato bisogno. Prima partono i raccomandati, è la regola, ma solo quelli “di ferro”. Gli altri marciscono nel dubbio se la loro raccomandazione sia servita o no. Il terrore di uno di Sondrio, che sospetta d’essere stato destinato a Trapani o a Sassari. Nella 6a compagnia c’è stato un caso di piattole, prontamente ridotto al silenzio ma non debellato. Speriamo bene non si diffonda. Domenica che fai?

Le tre sorelle Antonioli, da sinistra Ornella, Marina e Giuliana

Ore 16.25. Imboscatura perfetta. Nel registro potrebbero scrivere: “presente all’adunata, visto che la lezione sarebbe stata tenuta da un altro tenente che non lo conosceva, con abilità e scelta esatta dei tempi, si assentava rendendosi irreperibile: medaglia d’oro”. Allora, domenica che fai? Hai già qualche programma? Qui ci sono delle bellezze naturali e artistiche, come ben sai, e non dovresti perderti queste occasioni… Pensa che magari non ci tornerai mai più (di sicuro non con me, questo posto lo cancellerò). […]. Beati quelli che amano la Patria. Il nervosismo qui aumenta progressivamente. Ci si scambiano parolacce con tutti, alcuni vengono presi e puniti, ma poi sono sempre i soliti, quelli che fanno più casino. Il caposquadra è quello che mi fa incazzare più di tutti. Pazienza, tanto ti sento stasera, spero di trovarti.

Orvieto, 8 aprile 1979, ore 15.30. Questa mattina ho atteso circa quattro ore che il capitano si facesse vivo nel suo ufficio. Ottima tattica d’imboscamento. A tutti dicevo: “Devo parlare col capitano. E tutti regolarmente evitavano di perseguitarmi. Solo nel pomeriggio ho potuto abbrancarlo in cortile, non ho potuto parlargli a dovere, comunque mi ha detto che non appena avesse avuto il foglio ci avrebbe pensato lui. So bene cosa significhi nell’Esercito questo tipo di risposta, quindi ho insistito sul carattere di urgenza. Al che mi è sembrato di vedere un po’ di luce in quel cervello. Dopo di che, facendo finta di niente in piena ora di lezione, passo davanti a Perini, oggi ufficiale di picchetto, cioè al portone centrale, lo saluto elegantemente ma in tono appena beffardo ed entro sotto i suoi occhi stupiti nell’Ufficio Maggiorità, cioè in quella palazzina di fronte alla caserma (ma sempre dentro le mura, ovvio). Lì ho saputo che il foglio da me firmato era stato inviato già da questa mattina (quindi con la massima sollecitudine) all’ufficio del Battaglione (cioè l’ufficio che coordina le quattro furerie delle quattro compagnie). Allora sono andato al Battaglione chiedendo di un certo caporale (non stronzo), il quale aveva il foglio sulla scrivania. Gli ho spiegato la situazione e mi ha assicurato che avrebbe immediatamente provveduto a trasmettere il foglio alla fureria. Al che sono corso in fureria, preannunciando l’arrivo di un foglio con oggetto cose me riguardanti. Li ho pregati e scongiurati di metterlo subito in evidenza per il capitano appena arrivato. Ora sto aspettando e vedo cosa succede. Ma mi sa che se ne parlerà solo domattina. Questa sera infatti verso le 18 partiamo in tuta mimetica, fucile, elmo, borraccia, ecc. (km e km) per il fondovalle (non Orvieto scalo, bensì molto più distante). Così faremo anche le marce notturne e altre puttanate così. Quindi non ti potrò telefonare e mi sforzerò di mangiare qualcosa questa sera al rancio (oggi ho saltato). Mi sento molto solo e molto triste. Dietro ci sono altri quattro imboscati che parlano tra di loro, io preferisco sdraiarmi sulla mia branda senza potermi fare il letto. La loro voce non mi dà fastidio. Prima di andare giù in mensa voglio passare ancora in fureria, per sapere se è arrivato il benedetto foglio. Questa mattina avevo pensato che i caporali della fureria forse potevano diventare più mansueti se gli si offriva una Marlboro. Le ho chieste in prestito a Morini questa mattina e mi sono presentato con queste regalie: lo stesso oggi. Non ne ho approfittato per fumare anch’io. Così con me sono diventati di una gentilezza squisita e non mi cacciano fuori dall’ufficio come avessi la rogna. Poi aspetterò per vedere se c’è posta, spero tanto ci sia qualcosa di tuo. E’ da tempo immemorabile che non ricevo più niente (da sabato, credo). Cosa hai fatto a Courmayeur? Ieri sera con un po’ di apprensione ho sentito che di nuovo stai poco bene. Mi dispiace veramente tanto. Non ci posso fare molto, l’unica cosa che potrei fare è di non chiederti di venire giù domenica. Ma d’altronde ho la presunzione di credere che se vieni ci guadagni in salute psichica. Perché non ti vengono i “brutti pensieri”, tasto abbastanza dolente. […]. I fumi di collera che ti assalgono, ti divorano, ti spingono alla sigaretta e a chissà cosa d’altro non mi sono mai stati simpatici. Ieri sera quando mi dicevi di telefonarti prima, così potevi uscire e “cogliere le occasioni che ti potevano capitare” mi sono ricordato di Leo quando, in quel di Monza, mi diceva che questo nella donna è un po’ il pepe, senza ci sarebbe qualcosa di meno. Penso sia vero. Ma è anche vero che tu non perdi il vizio di dormire poco. Arriverai alla tomba con circa 20.000 ore di sonno arretrato. Evidentemente ti va bene così! A parte gli scherzi, cerca almeno di evitare almeno le situazioni in cui già a priori puoi sapere che non sarà una serata divertente. A che ora sei andata a letto quella sera con Giuliana e l’esimio? Qui io non riesco mai a sapere niente, tutto vago e impreciso, non mi dici mai le ore, gli inizi, le fini, i particolari che chiariscono le situazioni. Ti stai comportando molto male, giovane… Dovrò punirti. Se però vieni qui domenica dimentico tutto, hai questa sola possibilità di salvezza. Tu sai sempre circondarti di un’aura di mistero, porca miseria, non dico di segreto, ma di mistero. Non riesco mai a capire nulla. Beh, basta con i rimproveri, in fondo anche tu hai i tuoi lati buoni, non voglio certo sminuirli. Però se ti dilungassi un po’ di più non sarebbe male.

Tra poco si parte, non alle 18.30 ma prima. Sarà una menata colossale, e adesso devo indossare la tuta e scendere per mangiare e partire. […] Ma prima faccio il salto in fureria. Ti telefono domani sera (giovedì) per sentire i tuoi cinguettii e non quelli di Marina che mi annuncia con voce contrita che sei già uscita, tralasciandomi la destinazione.

Orvieto, 9 aprile 1970, ore 13.30. Ieri sera è stata una gran pagliacciata, come al solito del resto. Appena sbattuto giù il telefono con ira, sono corso su a vedere se c’era posta e ho trovato una tua lettera, molto bella perché conteneva alcune belle cose che mi hanno fatto sentire amato. Oggi poi ho trovato una specie di foglietto tuo, che forse voleva essere una lettera (ti auguro di no). Sembrava una nota per la lavandaia, un manifesto per caporali… Comunque, via, poteva bastare visto che se erano le 21.30 eri in casa dunque hai fatto la brava. Scusa il modo casinoso col quale ti scrivo, ma qui c’è un casino infernale.

Ore 15.35. Ho provveduto a farmi tagliare i capelli (solo dietro), imboscandomi quindi per tutta la seconda ora e radermi i peli fastidiosi che potrebbero impedirmi di uscire questa sera. Ora sono a posto. Come vedi sono “impegnato” nella terza lezione, il tenente Jommi (quello con i baffi) sta blaterando e io o scrivo o mi asciugo il sangue che mi sporca ancora adesso la faccia. Sono stato in fureria e ho letto bene il foglio che è lì fermo per il capitano. C’è scritto che io mi devo presentare domenica 19 alle ore 17 alla Scuola Sottoufficiali di Nettuno (Roma). Ho letto anche che da lì provvederanno a inviarmi alla Scuola Alpina. Il che vuole dire che a Orvieto non ci torno più. Il che vuole dire che le due feste del 25 e 26 aprile al 90% dovremmo stare assieme. Stando alle ultime notizie dovrei avere tre giorni di licenza, molto probabilmente i giorni 16, 17 e 18. Così al ritorno vado direttamente a Nettuno. Cercherò di farmi fare il biglietto per Milano e ritorno, invece che per Genova. Qui molti stanno partendo, la maggior parte per Roma. Dei due sposati della camerata ne parte uno domani (non quello di Voghera) per Roma. Peccato, cominciavamo a prenderci gusto nel prenderlo in giro: “in questo momento tua moglie sarà col lattaio, con il postino, ecc.”. Vedevi che diventava rosso porpora, ma non è siciliano, è di Perugia. Uno spettacolo. Poi va via Latina, quello che era scappato, poi la “recluta Bartolini ragionier Giuseppe”, così chiamato per una lettera da lui ricevuta con quell’indirizzo. Poi vanno via altri quattro, di cui non ti ho mai parlato. Tre giorni fa hanno preso i nomi con le varie caratteristiche (chi ha permesso di portare le scarpe ginniche, chi non può fare sforzi, ecc.). Il mio nome non figura né nel primo né nel secondo elenco. Perciò al self-service non andrò più, perché loro si regoleranno su quell’elenco e basta. Niente più piantonamento di cessi, cucina, ramazza, ecc. Non che mi ci sia spezzata la schiena in precedenza, ma ora ho la sicurezza matematica di scampare a ciò che odio di più. E questo servirà per una settimana intera, poi me ne vado. Invece all’orizzonte si profila un’altra minaccia: quella di montare di guardia. Magari tu sabato vieni giù e, scesa dalla corriera, ti avvii verso la caserma, e chi vedi nella garitta che ti saluta con l’arma e lo sbattere dell’anfibio? L’Alessandro, con elmo e baionetta, e ti scapperà da ridere, ma non potremo uscire assieme. A parte gli scherzi, non credo che prenderanno proprio me, né sabato né domenica. Certo è che, se arrivano parenti, la grazia è quasi certa.

Ore 16.35. Sono andato ai cessi a lavarmi le mutande e ho fatto un bucato perfetto. Adesso sono in camerata, nell’ora in cui è più facile imboscarsi l’ultima, quando tutti, caporali e tenenti, ne hanno pieni i coglioni. Proprio in questo momento uno mi ha chiesto con quante “t” si scrive “controbattere”. Spesso mi chiedono queste cosette, almeno 6 o 7 persone, e non tra le più cretine, perché quelli che ignorano se ne fregano, tanto errori in più o in meno… Si vede che il mio italiano è il migliore (se poi ci fossi tu, allora si rivolgerebbero a te…). Quando dico di spegnere lo zaino nessuno mi contraddice (questa battuta si riferisce al modo di dire genovese “chiudi la luce” al posto di “spegni la luce”, dunque logicamente “spegni lo zaino”…, NdA). Si vede che è merito di Hegel, sono ormai arrivato a metà e vado più speditamente che all’inizio. E’ uno sforzo notevole, perché non ricordavo niente dello studio liceale. Qui stasera e stanotte ci sarà un casino tremendo. Quelli che partono domattina saranno sbrandati e bagnati con sacchetti del supermercato pieni d’acqua, ma solo i più menosi (due), quelli che per giorni e giorni ci hanno sfranto i coglioni.

Ore 18.15. Mi hanno convinto a giocare a poker e ho vinto 400 lire. Quindi ti devo salutare perché devo mettermi in rivista per la libera uscita. Comprerò Il mondo, mangerò e poi ci risentiremo al telefono. Ciao, spero tanto di vederti sabato alle 18.30. Abbiamo bevuto anche un po’ di vino. Gioco e bacco, dunque. Mancano solo venere e tabacco (quest’ultimo solo per me). Vorrei che tu fossi qui con me, non mi va di mangiare con i soldati. Se tu ora fossi qui ti spremerei come un limone…

Gabriella Bergmann Antonioli

«Milano, 9 aprile 1970, ore 21.30. Ti ho appena sentito al telefono e mi fa sempre bene parlare con te, ma la giornata è lunga e c’è tanto tempo per pensare alle cose meno piacevoli. Tu hai ragione quando pensi che è abbastanza assurdo questo mio tormentarmi senza averne in fondo i motivi: abbiamo buone speranze per il futuro, mi scrivi delle belle lettere, fai di tutto per farmi sentire amata, appena puoi corri da me… eppure… eppure i tarli nel cervello sono tanti e il ricordo di certi tuoi atti mi brucia ancora moltissimo. Il tarlo rode e dice: se ha raccontato una balla allora, se ha avuto il coraggio di farlo così sfacciatamente, tradendo la migliore buona fede (perché non avevo il minimo sospetto, è questo affronto alla mia credulità che mi dà più fastidio), chissà quante altre volte può averlo fatto. E se “lei” è venuta qui diritta sparata, sicura del fatto suo, vuol dire che un precedente, anche minimo, anche una sola frase, c’è stato. E se adesso “lui” mi cerca è perché non ha nessun’altra.

A te parrà assurdo questo mio ritornare continuamente al passato, ma non dimentico facilmente (e ciò ti sia di ammonimento per il futuro) e sento un gran bisogno di vendicarmi, cioè fare la stessa cosa che hai fatto tu: tradire la tua fiducia, raccontarti una balla enorme quando tu sei lontano mille miglia dal pensare che io possa aver fatto una cosa diversa da ciò che ti ho raccontato. E’ la mia teoria (che a te pare tanto strana quanto infondata, non vera, non valida) secondo la quale una cosa, nel momento stesso in cui viene raccontata, perde automaticamente importanza, o almeno una parte di significato. E poi sai bene che per me la reciproca fiducia è basilare tra due persone. Io ho bisogno di sapere, di essere sicura, che quello che mi si racconta, qualsiasi cosa sia, importante o no, è vero. Per il solo fatto che mi viene riferito deve essere vero. Altrimenti per me non esiste né amore né affetto, né stima, niente. Lo so che questo mio modo di ragionare è sbagliato, che non si può dire tutto, che certe volte la verità è meglio tacerla, che può nuocere. Ma per me è così e basta. Può essere che un giorno cambi idea, che il passar del tempo e le circostanze m’inducano a cambiare parere, ma per ora per me è molto preferibile una situazione come è l’attuale tra Antonella e Lorenzo piuttosto che quella di due coniugi che si cornificano a vicenda di nascosto. O magari, peggio ancora, le corna le fa uno solo e l’altro è cornuto e contento, ignaro di tutto e convinti di soddisfare pienamente la propria metà. Sai che mi dà fastidio ogni volta che si parla di Pallino con la francese? (è stata qui lo scorso weekend, naturalmente in “Castelfidardo Street” (Leo Cerruti, il fratello Claudio ed io abitavamo in via Castelfidardo, 8, NdA). La “selvaggia” ha invece il fidanzato in visita in via Gran Sasso. Il Claudio ha sloggiato ed molto incazzato perché dice che tutti vanno a scopare in casa sua meno lui.

Sono le 11, anzi le 23. Mi sono messa a cercare l’articolo sulle donne in montagna e naturalmente non l’ho trovato. Ho trovato invece delle interessanti lettere scritte a Silvana, Roberta, Giuliana, Paola. Strano, queste ultime due non le avevo mai sentite nominare. Mi è concesso sapere chi sono? E a quando risalgono? E gli sviluppi delle situazioni. L’articolo per Garobbio lo cercherò domani. Ho deciso di non venire sabato a Orvieto. Ho potuto notare che ti innamori molto facilmente, capisco che non sia stato lungo e difficile farlo anche con me. Altra cosa che non sapevo è che andavi a Serravalle per i tuoi incontri… Sono un po’ troppe le cose che vado scoprendo, penso proprio che a Moena non verrò».

Ornella Antonioli fotografata da Lucio Pallino Marimonti (1967)

Orvieto, 10 aprile 1970, ore 13.35. Sono ancora in aula. Questa mattina al campo sportivo abbiamo fatto il percorso di guerra, sai, quello che si vede nei film. Solo che mentre nei film è fatto bene, qui è stato grottesco. […]. Ho pensato molto alla tua tensione. Scusa se non ho capito la causa, però ho tante scusanti. Per telefono non potevo vederti, tanto meno guardarti negli occhi. Già a volte anche quando siamo assieme ai primi round mi è difficile capirti. Per telefono non ho fatto a tempo! A cosa era dovuta l’incazzatura? A una mia lettera? Ti sono nuovamente riapparse le brutte cose? Oppure? So che poi ho aggravato le cose facendo lo spiritoso, ma ti prego di non arrabbiarti. In fin dei conti le stesse cose te le avevo già dette più volte e tu le avevi sempre prese per quello che valevano, cioè per complimenti un po’ spinti detti per celia. Sono anche capace di dirti cose più belle, sai? Ma per telefono è più difficile. Spero tanto che tu oggi non sia più arrabbiata. Ma magari non sei solo in collera, sei anche offesa. Quando ti dico che vorrei che tu venissi qui, scommetto che tu pensi: “Ecco, questo ha voglia di …., quindi siccome non si può arrangiare, allora mi prega di andare da lui. E siccome sa che non sono del tutto insensibile alle sue preghiere, sa che ha buona probabilità di convincermi, quindi alla fine si sentirà chissà chi… adesso gliela faccio vedere io, me ne vado a Courmayeur, così impara a fare il furbo! Però, poveretto, le altre volte è stato buono con me, siamo stati bene assieme. Alessandro non è uno che voglia fare i suoi comodi e basta… Beh, vado. Porca puttana, devo anche dirlo ai miei, come faccio? No, no, vado a Courma, tanto poi ci vediamo la settimana prossima. Ma poi a Courma che faccio? Se è brutto come domenica scorsa? Quel dritto mi dice che a Orvieto è bello, ma magari sta piovendo… A che ora parte il treno? Alle 10.55”.

La rassomiglianza del tenente “baffo” Jommi, che sta parlando, con Ettore è impressionante. Ha anche lo stesso tipo di stempiatura, occhi uguali, baffi, cranio, ma la corporatura è leggermente più allungata. A proposito, ti ha ancora telefonato, eh? Non doveva telefonarti più, no? Perfino le labbra sono uguali. Sei ancora uscita assieme a lui? Ho notato che rispondi sì o no al 30% delle domande con punto interrogativo che ti faccio. Male, male. Questa sera ti telefono e spero che tu sabato venga giù. Pensa a quello che hai provato sabato scorso quando facevi la strada di Dolonne. Ti sembrava impossibile che io non ci fossi. Questa domenica non ti capiterebbe… Va bene che potresti anche non essere sola, però… Dai vieni, sarebbe l’ultima volta. Io ci scherzo, ma soffro veramente la tua mancanza. Ti sento così lontana, anche se vicina col pensiero. Mi hanno strappato via da te, non sai quanto odi l’Esercito per questo. Per fortuna il 10 maggio, o 15 al massimo, tu verrai a Moena. Quella data la sento sempre più vicina […]. Ci pensi? Noi due da soli…

Ore 16.25. Ora ci stanno illustrando il fucile mitragliatore Bren, ma siccome gli oratori sono due caporali, c’è solo casino. Poco fa in cortile ho visto (e succede da qualche giorno) trenta allievi caporali. Pelati quasi a zero, girano sempre di corsa, scandendo con il lungo passo queste sillabe, fino alla morte: “chi non resiste non va in licenza, chi resiste non va lo stesso, chi resiste è solo un fesso”. Lavaggio del cervello, semplice, integrale e distruttivo. Impressionante. Quelli si piegano a ciò che vuole il Comando. Adesso ci hanno comunicato una bella notizia: stasera non si esce. Perché il colonnello ci farà delle domande per controllare l’operato degli istruttori. Però alle 21 ti telefonerò lo stesso. Ora è arrivato il tenente Perini, e si cerca di recuperare furiosamente il tempo perso di settimane. A questa sera, a meno che tu non sia uscita per chissà dove…

Grigna, Ornella Antonioli sul Canalone Caimi, 1 marzo 1969

Orvieto, 11 aprile 1970, ore 13.30. Ho ricevuto or ora il tuo espresso e mi affretto a rispondere. Per salvare il salvabile, dirai tu, invece ti rispondo perché sia chiarita una volta per tutte la questione “Roberta, Silvana, Giuliana, Paola, le ultime due sconosciute”.

Roberta. Penso tu abbia trovato la lettera di addio. Non l’ho mai spedita. A Serravalle sono sempre passato solo in treno o in automobile. Vero è che volevamo andarci perché là c’è la casa di un mio amico. Ma come ben sai io ero riluttante, e la cosa non è successa. Degli incontri veri ti ho raccontato tutto, dunque se leggi bene la lettera vedrai che a Serravalle non siamo mai stati. Spero d’essere stato chiaro e di non aver lasciato alcun dubbio. Fai conto che io trovi una delle tue lettere in cui pensavi di dare un appuntamento, senza che questo poi si concretizzasse.
Silvana.  forse che non te ne ho mai parlato?
Giuliana. Dovresti aver notato che è il seguito della lettera scritta a Silvana, o il contrario, non ricordo bene. Ti ho raccontato o no che Silvana l’ho conosciuta per lettera? La seconda lettera riporta Giuliana per puro errore. Se cerchi bene nella mia corrispondenza vedi che per avere il nome di Silvana ho scritto a Ettore due volte, lui me lo ha dato. E’ tutto scritto.
Paola. Si chiama Paola […], Genova. L’ho vista una volta in val di Fassa e, arrivato a Genova, le ho scritto. Non ho mai ricevuto risposta. In fondo alla lettera dovrebbe esserci una frase del tipo “ricordarsi Boga al Medale”. E’ perché la stessa lettera l’ho inviata a Silvana, anzi è stata esattamente la prima lettera. Frasi e ricordi, sensazioni, tutto assolutamente inventato. Nessun collegamento con la realtà. Mi sembra anche di avertene parlato, una volta, di quella lettera di fantasia.

Ritengo con ciò che i fatti siano stati chiariti. Resta da capire perché ho agito così e perché non ho gettato le lettere. Che ragioni potevo avere? Forse che tu non hai mai tenuto le tue lettere? Forse ero solo così. E non è detto che non possa essere diverso ora. Uno non può cambiare, o crescere? Credi che io allora fossi felice? Sono furioso. Cosa cazzo c’entra Moena?  che io non sia capace di rinunciare a Moena per te? Me ne frego di Moena, se non ci vieni tu. Allora preferisco rimanere nell’Esercito, così possiamo sposarci, chiaro? Mi fa incazzare che tu non sia venuta giù a Orvieto perché hai letto quattro stupide lettere che io avevo tenuto e dimenticato. Ma lasciamo perdere, tra pochi giorni ci vediamo. La mia licenza sta per essere firmata, sono tre giorni e mi rimane solo da sapere quali. Fa sparire questa lettera, non la voglio più vedere.

«Milano, 16 aprile 1970, ore 22. Grazie di avermi chiamata. Sono molto stanca e ho un gran sonno anche perché a tavola ho bevuto un po’ e la cena si è conclusa con una gran fetta di zuppa inglese. Ti scrivo per dirti che sono piuttosto preoccupata perché tutti qui sostengono che sarà difficile tu riesca a stare nella PS solo per il periodo di leva, che se metti la firma è come un contratto di lavoro. Leo sostiene che il col. Cappello ti vuole accalappiare e che una vola che ti ha là non ti aiuterà certo ad andartene dopo un anno, anzi ti metterà i bastoni tra le ruote. Poi sostengono che se fai il corso Sottoufficiali automaticamente è come se tu facessi la carriera e dunque non puoi andartene dopo un anno. Ti prego di appurare queste cose, cercare di sapere come può andare a finire, senza fidarti di vaghe promesse e di “si potrà” e di “si vedrà” o “troveremo una soluzione” perché poi che se lo prende in quel posto sei tu. Ora, se a te l’idea di stare lì tre anni non dispiace, allora è un altro paio di maniche, ma se invece non ne hai alcuna intenzione, cerca di mettere le cose in chiaro subito, almeno per sapere di che morte…

E soprattutto cerca di aprire bene le orecchie quando ti spiegano la faccenda, di stare attento a quello che ti dicono e, almeno per cinque minuti, di evitare di vagare con il pensiero fra alte sfere, come è tua abitudine. Cerca per una volta di non essere troppo ottimista e fiducioso. L’ottimismo è ottima cosa, ma a volte crea delle grandi complicazioni e uno rischia di trovarsi nelle grane quando meno se lo spetta e senza sapere come. Se Cappello parla di “militari di carriera” vuol dire che per lui non è affatto chiaro che tu voglia stare lì solo un anno. Cerca di sapere se per potersela svignare sia meglio stare guardia semplice piuttosto che sottoufficiale o ufficiale. Sono lunghi tre anni con addosso una divisa e il rischio è grande anche agli effetti dei nostri rapporti. Scusa le prediche ma ho troppa paura. […].

Allora, cerca di non farti silurare, è molto importante: si tratta di due anni di vita. Non sono sicura che tu abbia bene imperato di don fidarti mai di quello che ti dicono e ti promettono. Se puoi vedere nero su bianco è meglio. Ciao, tesoro. Ti voglio tanto bene e spero di averti qui la settimana prossima».

Allegato alla lettera era il ritaglio di giornale qui sotto riprodotto. Si trattava solo di un disegno di legge. L’incostituzionalità delle limitazioni al matrimonio di tutti i militari ebbe un faticoso iter che vide fine positiva solo all’alba del XXI secolo.

La corrispondenza Orvieto-Milano ebbe fine con il mio appuntamento a Nettuno e con le visite mediche per poter accedere alla PS. Andò tutto come previsto, ci fu la tradotta a Moena dove mi ambientai per i primi giorni, subito prima di una bella licenza nella quale ebbi anche modo di salire con Lino Calcagno la via Taveggia alla Corna di Medale (1 maggio 1970) e la cresta Segantini alla Grignetta con Nella (3 maggio). Quindi ripartii alla volta di Moena, allo scopo di organizzare una buona estate alpinistica e soprattutto cercare una casa per Nella e per me.

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CAR e Amore – 2 ultima modifica: 2019-09-25T05:13:58+02:00 da GognaBlog

7 pensieri su “CAR e Amore – 2”

  1. sorprendente,

    fin quasi imbarazzante.

     

    ma è Alessandro Gogna,

    quello de LA PARETE…

  2. Non e’ cosa di tutti giorni rendere pubblica una corrispondenza di vita e sentimenti intimi personali, con la ricchezza di sfumature che solo le amate lettere e la loro calligrafia sanno dare. Quanti bei ricordi. Quanta distanza dai messaggi, le chat, i social di oggi, che bruciano e banalizzano il dialogo e i rapporti tra le persone. Grazie.

  3. Florida Nella

    Mano ferma sulla bilancia della burrasca

    Sguardo leggiadro

    Il tempo raccoglie gli audaci

    Amore esteso oltre il passo comune

    E soffre chi resta

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