Metadiario – 41 – Per la prima volta i nut in alta montagna (AG 1972-006)
Ci fu un tentativo nel quale fummo costretti a constatare la nostra stupidità. Eravamo in quattro, Luciano Manzoni, Piero Ravà, Miller Rava ed io, diretti alla Nord-est dell’Aiguille de Leschaux. Dopo aver attentamente soppesato e suddiviso il materiale che ciascuno doveva portarsi sulla schiena, saliti il 15 agosto al rifugio Dalmazzi e ripartiti a notte fonda, fu necessario arrivare esattamente all’attacco della parete perché ci accorgessimo che in quattro avevamo preso con noi solo due corde da 40 metri! Il tempo era bellissimo: non ci rimase che ritornare con le pive nel sacco, brontolando uno contro l’altro nelle reciproche accuse di coglioneria.
Una settimana dopo ci fu la volta definitiva. La salita è raccontata in Una vita d’alpinismo – 42.
Come nel caso dello spigolo nord-est della Brenta Alta, anche la nostra direttissima alla parete nord-est dell’Aiguille de Leschaux era ormai così logica da essere presa in considerazione. A destra c’era già una via di Cassin e Tizzoni, però era logico puntare diritti alla vetta per la successione di diedri ghiacciati e repulsivi che giustamente Cassin e il compagno avevano evitato. Due problemi questi voluti dall’uomo, su una parete già risolta, per continuare l’evoluzione dell’alpinismo. Naturalmente per avere senso, questa salita doveva essere compiuta con i mezzi classici, e cosi fu.
L’alpinismo ha un avvenire soprattutto ideale. Non si può pretendere che sulle Alpi ci siano ancora da risolvere problemi più importanti dei precedenti. E allora occorre “ingrandirli” con il nostro pensiero. Difficile spiegare ciò che sento: le quattro prime ascensioni che ho compiuto quest’anno non hanno più valore oggettivo di altre precedenti, proprio perché sportivamente noi non abbiamo compiuto di più. E da questo punto di vista potrei sentirmi un po’ deluso.
Esse sono un passo avanti nella storia dell’alpinismo solo perché per mezzo di esse si sta perdendo il significato della vittoria sull’impossibile, e si sta acquistando invece il significato della giusta scelta, «l’atto d’amore», il matrimonio ragionato tra via e alpinista, senza conquista e senza dominio com’era una volta.
Questo vuol dire dilatare il problema alpinistico: il problema non è più importante dei precedenti, ma muta l’atteggiamento con cui noi ci disponiamo ad affrontarlo, un atteggiamento più maturo, per cui non importa tanto vincere (in quell’ottica si dovrebbero aumentare i mezzi o migliorare le tecniche per salire) quanto creare un’impresa che più delle altre sia arte, amore, intelligenza, intuizione. In questo processo verrebbero sminuiti i valori spettacolari dell’alpinismo, alla ricerca di una nuova sensibilità, di un avvenire “alpinistico”.
In quell’occasione Miller ed io sperimentammo per la prima volta in alta montagna e in una prima ascensione i blocchetti d’arrampicata che avevamo trovato in un negozio di Chamonix. La lunga storia di questi ingegnosi attrezzi non aveva ancora coinvolto le grandi pareti alpine (scritto nel 1972).
Pochi mesi dopo scrissi quest’articolo, che tentava di farne conoscere a un più vasto pubblico la grande utilità.
Le noccioline d’arrampicata
(pubblicato su Lo Scarpone del 28 febbraio 1973)
Circa 13 anni fa apparvero nel materiale d’arrampicata di alcuni alpinisti inglesi degli strani oggetti: a ben guardare erano dadi per bulloni, di varie dimensioni.
Il principio era assai semplice: si passava un cordino nel foro, si introduceva il dado in una fessura, manovrandolo poi in modo che si incastrasse e poi ci si assicurava con il moschettone. Per estrarlo generalmente bastava tirare il cordino verso l’alto. Il principio si è perfezionato, sono stati costruiti oggetti che del dado iniziale hanno mantenuto ben poco: di svariate forme e dimensioni sono chiamati familiarmente nuts, e cioè “nocciole”.
Questi aggeggi sono già diffusi parecchio in
Francia e abbastanza in Italia, meno in Germania, Austria e Giappone.
Soprattutto però in America hanno avuto molto successo. In effetti gli
alpinisti di lingua inglese vanno giustamente fieri di avere inventato uno
strumento così comodo, che salvaguarda l’etica dell’arrampicata, al contrario
dei chiodi o peggio dei chiodi ad espansione.
Su questo punto però io penso si possa muovere una notevole obiezione: le
nocciole, usate come generalmente si fa, e cioè incastrate e poi disincastrate
senza violenza alla roccia, salvaguardano è vero il principio direi
“scoutistico” del passare senza lasciare assolutamente tracce, in modo
da far trovare a chi ci seguirà quasi le stesse difficoltà e soddisfazioni: ma
non reggono al giudizio troppo ottimistico degli inglesi, che le vogliono far
passare per gli strumenti che moralizzeranno l’arrampicata. Secondo me infatti
sono mezzi come tutti gli altri, forse meno complicati, ma senza nessun
aggiuntivo morale rispetto al vecchio caro chiodo piantato nelle fessure a
sacrosante martellate.
Comunque i vantaggi offerti dai nut sono veramente grossi: voglio quindi passare in rassegna ciò che oggi offre il mercato.
Le taglie e le forme dei nut in commercio continuano a crescere. La gamma Chouinard è stata estesa oltre i suoi limiti inferiore e superiore precedenti (si hanno così dieci taglie) con l’introduzione di più grossi Hexentrics e di una nuova gamma piccola chiamata stoppers in sette misure. Di conseguenza i nut Chouinard ora variano da mm 3,2 con regolare progressione fino a cm 8,25: questa è la più completa gamma oggi realizzata da un solo costruttore.
Gli Hexentrics più larghi sono notevolmente leggeri in considerazione della loro misura e comparativamente più economici.
A parte l’uso convenzionale per sicurezza nell’arrampicata libera, essi sono chiaramente costruiti per essere usati in artificiale in fessure che avrebbero altrimenti richiesto l’uso dei bong, cioè dei grossi cunei metallici. I buchi di passaggio del cordino sono un po’ troppo stretti per poter usare quelli di diametro grosso (colpa comune a tutti i più larghi Hexentrics).
Gli stopper comprendono una varietà di sottili nut, a doppio cuneo. I 4 più piccoli sono montati su funicelle metalliche. Queste sono corte allo scopo di minimizzare il braccio di leva che necessariamente una fune metallica ha sul nut. Nel loro disegno e costruzione questi prodotti mantengono l’alto standard della produzione americana.
Sebbene siano stati in produzione non poco tempo, i nut Forrest sono rintracciabili solo in Inghilterra: ci sono due varietà di base, i Foxheads e i Copperheads, entrambi montati su una corda metallica singola e non sul normale anello metallico. In più il filo è estremamente flessibile. Mentre questo riduce la possibilità di fuoriuscita del nut una volta sistemato, rende leggermente più difficile il controllo manuale della messa in posizione.
I Foxheads sono modellati a doppio cuneo (al contrario dei più vecchi Moac che sono invece a cuneo singolo) e sono ritrovabili in tre misure. Il più grande può essere in plastica e in alluminio. La testa in alluminio è stata vuotata per alleggerirla. Si potrebbe nutrire qualche dubbio per il cavo singolo, ancorato nel cuore del nut. Forrest dichiara che questo ancoraggio è stato sperimentato a fondo.
I Copperheads sono in 5 misure, con la testa a cilindrino metallico, con misure da mm 4,8 a cm 12,7 di diametro.
Usa singola misura di copperhead è era prodotta da Clog, altro fabbricante. In generale questi copperhead servono moltissimo in artificiale: possono essere usati dove le fessure hanno inizio o nelle piccole nicchie dove è impossibile mettere chiodi. Per assicurazione in libera sono versatili come i più convenzionali esagoni e nut a doppio cuneo. Eccezione fa il più piccolo copperhead, incredibilmente sottile, ma un capocorda per arrivare ad altre fessure può ugualmente servirsi di questo aggeggio per proteggere un movimento o due.
I nut martellati sono una controversia nel contesto dell’etica dell’arrampicata: perciò l’introduzione della serie copperhead può dare inizio a forti discussioni. Tali nut, dei quali il solo beneficio si ha quando sono martellati, sono generalmente accettati come gli equivalenti etici dei chiodi e non importa la leggerezza nei colpi di martello. Di conseguenza il loro uso è da essere deprecato in situazioni in cui già i chiodi sono inaccettabili. Il loro ruolo nelle grandi vie artificiali (specie in quelle americane) è ovvio, ma siccome al presente ci sono sulle Alpi ed anche sulle palestre inglesi poche vie completamente artificiali tanto da richiedere l’uso dei copperhead, fortunatamente i costruttori non aumentano la gamma di questi. È comunque possibile che essi non siano a conoscenza, o facciano finta di non esserlo, di questo problema etico.
Leggendo la confezione dei crackers Peck, si è consigliati di martellarli, ed è impossibile ignorare l’indiscriminata e priva di scrupoli diffusione in tutta Europa di corredi di chiodi ad espansione nel commercio a dettaglio.
Una felice eccezione si può trovare in una recente edizione di un catalogo dell’americano Chouinard, in cui si è fatto un serio tentativo di difendere l’etica.
I copperhead non dovrebbero essere usati in arrampicata libera, ma solo in sostituzione dei chiodi ad espansione dove questi fossero necessari.
Però la responsabilità finale è dell’arrampicatore, cui spetta ogni decisione. A lui è dato scegliere tra un declino pauroso dei livelli di arrampicata libera e tra un aumento dello standard artificiale.
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Sono in possesso della brutta copia di una lettera che Miller Rava scrisse di suo pugno all’amico giornalista Mario Pozzo. Con quelle informazioni Pozzo confezionò l’articolo sotto riportato. E’ divertente, a distanza di tanti anni, rileggere cosa scrisse Miller scherzando al fondo delle note: “Falla apparire come la più difficile salita di questa stagione (deve essere effettivamente vero!) (ed è probabilmente vero!) (Beh, è vero) (Anzi, dirò di più: è la più difficile!)”. E concludeva: “Mi raccomando, in prima pagina (o in ultima)!”.
Grande prima di Rava al Bianco
di Mario Pozzo
(pubblicato su L’Eco di Biella del 28 agosto 1972)
Quest’anno qualcosa, nel grande alpinismo del Bianco, l’ha detto anche Miller Rava: via diretta alla Nord-est dell’Aiguille de Leschaux, con Alessandro Gogna, 22 e 23 agosto. Era ora! Era ora per il Miller che continuava a viaggiare da Biella a Courmayeur e riusciva puntualmente a infilare un temporale o una nevicata, era ora per Gogna che, con quella decisiva, ha attaccato la parete sei volte, ed era ora anche per la Leschaux e la sua parete nord-est che a guardarla sembra non chieda altro che di essere salita tutta lungo la verticale che scende dalla punta al Triolet.
Ritta sulla cresta di frontiera, fra i bacini del Fréboudze, di Leschaux e di Triolet, l’Aiguille de Leschaux 3758 m è una delle punte alpinisticamente più interessanti del Gruppo del Bianco. Conquistata la prima volta esattamente cent’anni fa da una cordata inglese (James Aubrey Garth Marshall e Thomas Stuart Kennedy con Johann Fischer e Julien Grange, 14 luglio 1872, NdA), può essere considerata un grande monumento all’alpinismo biellese. Due delle sue vie più belle sono infatti state tracciate da Guido Alberto Rivetti: sulla cresta sud-ovest, con Francesco Ravelli e Angelo Abrate nel 1923 (28 luglio, NdA) e sulla cresta nord-ovest con Ravelli e il biellese Gustavo Gaia nel 1927 (31 luglio, con le guide Adolphe Rey e Alphonse Chenoz, NdA). La parete nord-est, formata da un ripidissimo scivolo di ghiaccio nella parte inferiore e da un muro di rocce verticali in quella superiore, è alta 800 metri. E’ stata attaccata la prima volta nel 1937 (27 luglio, NdA) da Gabriele Boccalatte e Agostino Cicogna. Dopo aver vinto lo scivolo di ghiaccio, la cordata deviò però a destra e raggiunse la punta dalla cresta nord-ovest. Due anni dopo Riccardo Cassin e Ugo Tizzoni aprirono una via estremamente logica, che non raggiunge direttamente la vetta, ma si congiunge alla cresta nord-ovest nella grande spalla di destra, un centinaio di metri sotto la punta (14-15 agosto 1939, NdA). Il problema della parete non era risolto. All’inizio della stagione è cominciato l’assedio. Gogna ci ha provato sei volte, con lo stesso Rava, con Guido Machetto, Piero Ravà, Luciano Manzoni, tutti i migliori del momento. Per cinque volte il maltempo lo ha costretto a tornare. Ma Gogna è un «testa dura», uno che non molla. Come il Miller. E una «fessura» di bel tempo (una delle poche di questa stagione) i due hanno finito per trovarla. Lunedì sera salgono al rifugio Dalmazzi. Alle 4 del mattino si muovono per raggiungere la parete. «La prima parte della via, costituita dallo scivolo di ghiaccio, è in comune con la via di Cassin – spiega Miller Rava – si arrampica dentro uno stretto colatoio che verso l’alto diventa quasi perfettamente verticale. Poi un tratto di misto, prima di raggiungere il centro del problema, il salto di roccia finale: 400 metri di diedri e placche verticali. Si procede con estrema lentezza lungo strani diedri, con appigli rovesciati e lame di roccia trattenute dal gelo. L’ambiente è quello delle grandi pareti nord, le condizioni non sono delle migliori, nei giorni precedenti è nevicato, la parete è sporca, il freddo è intenso, come in inverno (“Miller Rava è avanti, sulla seconda lunghezza del diedro ghiacciato: mi guarda, incerto se fermarsi, vorrebbe che andassi avanti io. Ho paura. Però gli do ugualmente il cambio”, annoto su Un Alpinismo di Ricerca, NdA)».
Alle 21.30 la cordata si sistema su un minuscolo terrazzino, l’unico della parete, e alla luce delle pile frontali, sistema il bivacco. C’è il posto per stare seduti, Rava abbastanza comodamente, Gogna un po’ meno. Miller, che la notte precedente non ha chiuso occhio, riesce a dormire qualche ora, il suo compagno invece veglia. I due alpinisti vedono in lontananza alcuni nuvoloni che si avvicinano. Il freddo è terribile, oltre i dieci gradi sotto zero. Al mattino, mentre il tempo sta cambiando rapidamente, la scalata riprende. Restano da superare circa 150 metri, ma sono i più impegnativi. L’esposizione della parete, la continuità delle difficoltà impegnano al massimo il capo cordata, costretto a piantare parecchi chiodi ogni tiro per garantirsi un minimo di sicurezza. La parte del secondo non è certo meno dura. Parecchie soste (cinque per l’esattezza) vengono fatte sulle staffe… «Si resta fermi per dieci, venti minuti, mezz’ora prestando la massima attenzione ai movimenti del compagno. Il freddo sembra paralizzarti, i muscoli si irrigidiscono, la stanchezza intorpidisce». Alle 10 la cordata è in vetta. Nuvoloni grigi incominciano a scaricare neve che renderà dura anche la discesa, per la via normale.
Ma l’impresa è fatta, un’impresa notevolissima che può essere indubbiamente annoverata fra le «perle» della stagione alpinistica. Gogna, con la Leschaux ha fatto un poker formidabile: III Pala di S. Lucano, spigolo nord-est della Brenta Alta, Sud delle Jorasses (con Machetto) e Leschaux, una stagione che basterebbe da sola a garantire al genovese un comodo posto nella storia dell’alpinismo. Gogna ha ora tolto l’assedio al Monte Bianco e si prepara a partire per una spedizione, in Nuova Guinea, alla quale dovrebbe seguirne un’altra in Patagonia.
Miller Rava è partito invece per le Dolomiti per concludere la sua stagione, ovviamente meno intensa di quella del campione numero uno dell’alpinismo italiano (Miller lavora come consulente, tecnico per un noto negozio sportivo di Biella ed è costretto a limitare la sua attività ai giorni festivi e alle ferie) con la ripetizione di un paio di vie di VI e prendersi cioè una rivincita con le Dolomiti dopo lo sfortunato contrattempo che gli ha impedito di essere con Gogna nell’attacco finale allo spigolo della Brenta Alta.
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ciao Roberto,
che ti devo di? anche per la loro forma, noi le chiamavamo così.
Delle vie alla Pania dal Rif. Rossi te ne ricordi qualcuna in particolare?
Marcello ti ricordi scialpinismo sul Gross Venediger, entrambi senza bussola e altimetro, io davanti con in mano la carta dell’Alpenverein aperta e tu che mi tenevi al guinzaglio con la corda in mezzo alla bufera che non si vedeva un tubo??
Grazie Filippo !
Ciao e resistiamo in clausura con bellissime giornate !
Paolo, nell’occasione dell’Ideale, Bassi era con Stefano Fruet. Ciao
Alberto mi tocca dare ragione alla Guida: scocche erano e scocche rimangono. Mi hai fatto tornare in mente certe vie dal rif. Rossi alla croce della Pania, ciao.
Scocche è piuttosto tecnico.
Poi qui siamo in Toscana e per giunta camaioresi?
A proposito di nut, ricorderò per sempre il nut rosso di plastica con fettuccina gialla al quale erano rimasti appesi, solo a quello, Bassi e il suo compagno (non riesco ancora oggi a memorizzarne il nome) che era scivolato sulla bagnatissima fanghiglia e aveva strappato dalla sosta Roberto, nel 1980 quando come primi italiani salirono “tutta” l’Ideale in Marmolada in giornata.
Mi ripeto, scusatemi, ma sono le mie “cose” di montagna.
Il “polmone” della Vespa è la prima volta che la sento. Noi le chiamavamo scocche. Che ridere…
Quanto a sentirsi coglioni per essersi dimenticati qualcosa di importante della propria attrezzatura, penso sia successo a molti. Per quanto mi riguarda mi ricordo in particolare quella volta di parecchi anni fa quando dovevo andare a fare una salita invernale sulla Pania della Croce. Andai a casa del mio amico, dove avremmo preso la sua macchina con la mia vespa. Misi lo zaino sulle spalle e infilai gli scarponi nel bauletto del polmone posteriore della vespa. Arrivato a casa del mio amico, tra una chiacchiera e l’altra caricammo gli zaini, ma i miei scarponi rimasero nella vespa e me ne accorsi solo un ora dopo quando, parcheggiata l’auto, i miei amici tirarono fuori i loro scarponi.