Metadiario – 50 – Annapurna 1973 – 3 (3-3) (AG 1973-004)
(continua da https://gognablog.sherpa-gate.com/una-vita-dalpinismo-48-annapurna-1973-1/ e https://gognablog.sherpa-gate.com/una-vita-dalpinismo-50-annapurna-1973-2/)
Considerazioni recenti
(scritto nel 2002)
Nell’autunno del 1996 la spedizione polacca diretta da Michal Kochanczyk riuscì nell’intento di salire lo sperone nord-ovest dell’Annapurna: pur giudicandolo più difficile che la cresta ovest dell’Everest, i polacchi si spinsero ad affermare che quella via avrebbe dovuto essere considerata, per la sua sicurezza, la vera via normale alla vetta. Non ho a disposizione dati certissimi, ma sembra che loro siano saliti seguendo la cresta integrale, quindi anche la famosa Cresta dei Cavolfiori, già tentata dai francesi nel 1950. Pare che le difficoltà più forti le abbiano incontrate sul risalto roccioso al di sopra dei 7400 metri (dove misero corde fisse con un lavoro di quattro giorni). In totale furono 2000 i metri di corde fissate, la maggior parte al di sopra del loro Campo 3 piazzato a 6100 m. Vetta raggiunta da Andrzej Marciniak e Vladyslav Terzyul (ucraino) il 20 ottobre 1996, senza ossigeno, partendo dal Campo 5 fissato a 7100 m.
Sono passati quasi trent’anni, di undici che eravamo siamo rimasti in sei. Ricordo che, parlandone con Carlo Zonta, questi aveva commentato: “Le fila si assottigliano…!”. E, in più, non ci vediamo né ci sentiamo mai: i nostri destini hanno voluto così.
Sembra che alla tragedia si sia aggiunta la beffa dell’inutilità di quell’appuntamento così lontano, tra le nevi e i ghiacci dell’Annapurna. Per anni la figura di Leo ha visitato leggera i miei sogni notturni: vagava triste, non sapevamo quello che gli era successo; lo vedevo cambiato, e io mi domandavo, prima di svegliarmi, che cosa avesse di così diverso da prima. Entrambi avevamo cancellato il fatto crudo della sua morte e nel sogno tutto il nostro agire sembrava avere un difetto di senso. Poi, con gli occhi sbarrati nel buio, mi domandavo ogni volta con il cuore in gola come avevamo potuto non capire, non vedere che la catastrofe stava arrivando. Ma con quali mezzi potevamo? A cosa pensavamo, in quei giorni di assedio? Ci è mai passato per la mente che la lista di quei cinque nomi di giapponesi e sherpa scolpiti nella pietra al campo base poteva essere allungata con i nostri? Per poter partire ci eravamo serviti di denaro non nostro, così ognuno di noi pensava, con diversa intensità, di dover qualcosa a quelli che erano rimasti a casa e che erano con noi con lo spirito. Questo però è solo il motivo delle feroci incomprensioni che ci furono tra noi dopo la valanga, non il motivo della morte di Leo Cerruti e Miller Rava. Più volte ho analizzato il mio diario, per scoprire un errore tecnico a nostro carico.
Ma i motivi della tragedia non sono tecnici: semplicemente siamo andati a finire in uno dei posti più pericolosi della terra senza saperlo fino in fondo e ne abbiamo fatto le spese. E le liti e le divisioni che sono seguite sono state l’orazione funebre peggiore che potessimo fare, spia del fatto che anche noi sopravvissuti non eravamo in pieno equilibrio con noi stessi. E quando, dopo anni, ci siamo stretti le mani con un sorriso nulla era più come prima.
Diario dal 2 ottobre 1973 al 13 ottobre 1973
2 ottobre, ore 9.30, campo base.
Partiamo in cinque, Angelo, Lorenzo, Rino, Carlo ed io, assieme a tre sherpa, un mail runner e qualche portatore. Piove, alle 12.30 siamo sul ponticello della Miristi Khola. Alle 15.30 facciamo campo sotto il Nilgiri nella pioggia battente.
3 ottobre. Trasferimento al villaggio di Choya dove arriviamo alle 16.30 ancora sotto pioggia e neve. Con noi sono anche il mail runner e uno sherpa.
4 ottobre. Piove tutto il giorno, arrivano anche i portatori e gli altri due sherpa. Qui dovremmo reclutare i portatori per il futuro sgombero del campo base: ma in realtà non è possibile, perché quando siamo partiti non era stato ancora fatto il conteggio dei colli. Ci penseranno loro, inviando su uno sherpa per sapere il numero.
Il mail runner parte per Pokhara, per la sua ultima missione per noi, avvisare il mondo della nostra tragedia. A Tatopani incontrerà il nostro ufficiale di collegamento, a nostra insaputa. Pioggia tutto il giorno.
A Choya, approfittando della sosta, scrivo a Nella una lettera. Non le racconto nulla di quanto è successo, tanto ho la certezza che arriverò prima io a Kathmandu per poterle telefonare.
«Choya, 4 ottobre 1973. Cara Nella, siamo arrivati a Choya ieri sera bagnati fradici, e ora siamo in una casa, l’hotel locale, per aspettare l’ultimo portatore e che il tempo si rimetta. L’ultima lettera che ti ho scritto l’ho lasciata al campo base, assieme a quella per papà. Dopo quello che è successo non ti ho più scritto, poi il 2 siamo partiti dal campo base. Poco fa ho risentito la prima parte della registrazione ed è stata molto utile a tutti e quattro i miei compagni. E’ stata una discussione, con una decisione finale, l’unica che si potesse prendere. Non vedo l’ora di andare a Jomosom, e poi a Kathmandu e poi a Milano. Da Kathmandu ti telefonerò per avvertirti di quanto è successo, e so che sarà terribile. Prima chiamerò te, e se non ti trovo chiamo Marina. Penso che lo farò dall’ambasciata, e sarà brutale. Ma voglio farlo io e spero che non saprete nulla fino a quel momento. Io sono distrutto da dieci giorni, una disgrazia così è troppo grande. Mi rendo conto di scrivere delle parole, e solo parole stupide. Ma ho bisogno di dire, di scrivere qualcosa, anche se poi mi stanco presto. Il senso di inutilità che sento addosso e l’ansia di esservi vicino sono insopportabili.
Ho paura anche che tu possa odiarmi per sempre, ho paura di tante cose. Ma non voglio tirarmi indietro e l’affetto che avevo per Leo lo trasferirò paro paro sulla sua famiglia, se questa vorrà il mio aiuto e se potrò servire a qualcosa. Vorrei tanto parlare con te di tutto questo, vorrei che tu fossi qui. Il nodo alla gola che ci opprimerebbe, e il pianto, sarebbero più sopportabili parlando assieme di ciò che potremo fare…»
5 ottobre. Il nostro gruppetto si avvia al gran completo verso Tukce, ancora tempo pessimo. Il nostro obiettivo è prendere un aereo da Jomosom e, viste le condizioni atmosferiche, naturalmente non abbiamo fretta. La sera ci raggiunge l’ufficiale di collegamento: con lui sono il mail runner che avrebbe dovuto raggiungere Pokhara e quello che da là proveniva con la nostra posta. Troviamo strano che il nostro postino non abbia continuato per Pokhara…
6 ottobre. Partenza con i tre sherpa, il mail runner e l’ufficiale per Jomosom. Là quest’ultimo, tramite radio, manderà un messaggio ufficiale al Ministero degli Esteri e alla Polizia. Ecco perché ha impedito al mail runner di andare a Pokhara con la notizia, che probabilmente sarebbe arrivata prima al mondo che ai suoi superiori. Acconsente però a scrivere nel messaggio che la notizia debba essere tenuta riservata e non divulgata via radio civile o stampa.
L’ufficiale esterna anche i suoi dubbi ad Angelo sul fatto che la spedizione si sia divisa. E’ chiaro che non vuole grane, noi sospettiamo perfino che non permetterà mai che un charter sia prenotato per noi. Il tempo è sempre orrendo. Alle 13 siamo tutti a Jomosom.
Ci dicono non possibile l’invio di messaggi perché l’ufficio è chiuso. In tutto il Nepal c’è il Durga, la festa in onore della dea Khali, e non si capisce bene quanto duri. Dapprima sembra cinque giorni, poi dieci, poi perfino due settimane. Ed è appena iniziata… Noi invece vorremmo, inviato il messaggio ufficiale, correre in aereo a Kathmandu e telefonare direttamente alle famiglie. Il grosso del rientro spedizione era previsto per il 12 ottobre a Choya, anche perché c’era l’intenzione di andare al C2 a filmare e al C1 a recuperare qualcosa. Ma con il tempo che fa tutto questo sembra impossibile. Sopra i 3900 m nevica. Il 12 è la data minima di arrivo a Choya degli altri nostri quattro compagni.
7 ottobre. Alla mattina partono due sherpa e un mail runner per il campo base con un mio messaggio per Guido e la loro posta. Lo informo che è possibile l’arrivo del Twin Otter a Jomosom e che quindi possono venire qui con tutti i bagagli. Gli anticipo anche le grandi difficoltà per averlo davvero l’aereo. Il tempo ora è migliore, ma la pista è così fangosa che nessun aereo può utilizzarla. Alle 15.30 viene stilato il messaggio per Polizia e Ministero. E’ in nepalese, e non sapremo mai se corrisponde a quanto concordato. In più non sappiamo neppure dove sia il terminale radio a Kathmandu, se alle Poste, se al Ministero, alla Polizia o chissà dove. Su questo punto l’ufficiale ci sembra o reticente od oscuro. Ci garantisce anche d’aver richiesto la riservatezza e il nostro charter.
8 ottobre. Piove bestialmente. Nessuna effettiva novità.
9 ottobre. Ancora nubifragio. Unica novità è la notizia che due americani hanno richiesto ieri un elicottero charter che arriverà domattina. Se c’è posto m’imbucherò. Ma almeno potremo parlare con il pilota. Circa nove, dieci persone stanno aspettando di poter partire. Alle 17 mi dicono che hanno mandato il messaggio direttamente alla RNAC con un telegramma via radio civile. Troppo tardi, ora. Lo faremo anche noi domani, e chiederemo o un Pilatus o un Twin Otter (tanto quest’ultimo potremmo riempirlo con le altre persone), as soon as possible. For advance, please ask mr. Penjo Ondgi or Yeti Travel.
L’ufficiale di collegamento, interpellato, dice che è una buona soluzione, ma che occorre fare lo stesso identico messaggio anche a Ministero e Polizia. A noi va bene, non ce ne frega nulla.
10 ottobre. Alle 8.30 arriva l’elicottero. Tutti sono pronti a salire, ma i posti sono solo tre oltre al pilota. I due americani, di cui uno è svizzero, sono ricercatori ecologici. Nicchiano sulla mia eventuale partecipazione. Al momento della partenza scopro che erano d’accordo con un altro passeggero, u giapponese. Parlo con il pilota che mi dice che non arriva nessun aereo di linea prima di tre giorni. Il tempo ora è rimesso al bello, finalmente. Con l’eccezione del 28 settembre, è dal 24 che faceva brutto. Partito l’elicottero, nulla succede. Alle 10.30 proviamo ad andare all’ufficio radio: chiuso. Alle 15.30 siamo di nuovo pronti a trasmettere. Questa volta il testo è in inglese e possiamo verificare. Chiediamo, senza dare altre notizie, un charter Pilatus o Twin Otter. Stesso telegramma a Ondgi.
E’ da notare che né il 7 né il 10 ottobre abbiamo pensato di avvisare l’Ambasciata Italiana: il 7 per via del terminale radio a posizione incerta, il 10 perché non ci abbiamo pensato. Si decide che il mattino del 12 partirà uno sherpa con l’ufficiale di collegamento per andare incontro agli altri.
11 ottobre. Al mattino siamo pronti a partire sulla pista, ma non arriva niente. Tempo splendido, pista passabile. Alle 14.55 io sono su un’altura a fare foto, gli altri in paese: ed ecco che arriva un velivolo. I miei compagni si precipitano, io di più. Incontro anche uno che mi chiede se sono italiano. Si presenta come Marco Baistrocchi, Incaricato d’Affari dell’Ambasciata Italiana a New Delhi. Io ho fretta, voglio salire sull’aereo, non so neppure se è il nostro volo. Allora Baistrocchi mi spiega che è stato lui a far arrivare il charter. Entriamo un momento nell’albergo, ci comunica concitato che in Italia sanno tutto, che la mattina dell’8 ottobre la Lufthansa di Roma chiedeva a quella di Kathmandu i nomi dei due morti. E che si crede che noi siamo tutti mezzi morti di dissenteria e via dicendo.
Alle 11.10 decolliamo per Kathmandu, dove nel comitato di accoglienza troviamo anche Elisabeth Hawley e il console italiano in Nepal. Ma non rilasciamo dichiarazioni e rimandiamo a domattina. Alle 17.30 siamo in consolato per le prime spiegazioni.
Alla luce delle attuali informazioni, la questione pare si sia svolta in questi termini.
1) La notizia del 7 ottobre non è stata tenuta riservata, o per qualche giornalista in continuo agguato presso le Poste, dove in effetti è il terminale radio, o a causa di una fuga di notizie dal Ministero degli Esteri (non funzionante per via del Durga e mezzo deserto), oppure ancora perché l’ufficiale non è stato ai patti.
2) La notizia è arrivata in Italia in giornata e al mattino era su tutti i giornali. Ma era incompleta perché senza i nomi delle vittime, con quali conseguenze sulle famiglie e sull’opinione pubblica si può immaginare. Così si spiega il messaggio di Lufthansa Roma l’8 mattina per chiedere i nomi.
3) Nel frattempo, la città di Kathmandu non sa nulla. Solo a New Delhi sanno e quindi stanno addosso a Firmani, l’addetto al consolato italiano di Kathmandu. Baistrocchi va a Kathmandu, perlustra il Ministero in cerca di qualcuno e viene a sapere il 10 tardi o l’11 presto del nostro messaggio del 10 ottobre e nulla di quello del 7. Assurdo che non gli abbiano detto nulla, ma forse era vero che c’era scritto che doveva rimanere riservato. Ma in ogni caso si trattava di un’Ambasciata che stava chiedendo…
4) Una nostra lettera del 17 settembre indirizzata a Mark della Lufthansa in cui lo si pregava di inviare un telex con alcune notizie alla Lufthansa di Milano arriva a Kathmandu solo il 5 o 6 ottobre. In essa era compresa l’informazione (da tradurre in linguaggio telex) che “half expedition is sick in stomach (dissentery for poisened food)”. Ma sembra che il telegrafista nepalese abbia esagerato il fatto come si trattasse di epidemia: c’è perfino da pensare che in Italia non sappiano neppure se è stato un incidente o la dissenteria! Un quadro raccapricciante. Era stato Gianni a scrivere, senza prevedere come altri avrebbero trasformato la notizia. Anche Mark deve averci messo del suo.
5) Baistrocchi, e perché era preoccupato per noi e per pressione del Ministero degli Esteri italiano, prenota un charter (precedendo quindi Ondgi) per l’11 e uno per il 12, pensando che tutta la spedizione sia a Jomosom in condizioni critiche e che dunque ci fosse molta fretta, per evitare il peggio.
12 ottobre. Conferenza stampa alle 9.00, tutto regolare. Sul Rising Nepal del giorno dopo la nostra intervista sarà pubblicata in tono assai pacato. La disgrazia deve aver toccato parecchio la sensibilità di tutti.
Appuntamento con Baistrocchi alle 12. Facciamo il messaggio per il ministero italiano. Carlo ed io partiremo oggi alle 17, con arrivo previsto a Milano alle 9.10 del 13 ottobre. Gli altri partiranno il 15.
Dunque questa mattina abbiamo finalmente modo di precisare in Italia, dopo altri messaggi di pressione, che stiamo tutti bene e che i primi due arriveranno domani alle 9.10. Ma le cose vanno diversamente. Siamo già in attesa all’aeroporto e ci viene comunicato che il volo Kathmadu-Delhi è soppresso. Impossibile partire il 13 perché il volo è full. Alle 16 facciamo altro telex di disdetta! Piove tutto il giorno.
Non abbiamo alcuna idea di dove siano i nostri amici, se a Choya (molto improbabile) o ancora al campo base. Predisponiamo una serie di telegrammi per saperne di più.
13 ottobre. Continuano le indagini per capire i meccanismi di queste false o incomplete informazioni. Non può essere colpa del famoso mail runner, perché siamo arrivati prima noi con il telegramma. Baistrocchi ci mostra una copia del Corriere d’Informazione del 7 ottobre, ore 12, che riferiva della disgrazia senza i nomi. Così si giustifica la richiesta della Lufthansa di Roma dell’8 mattina. Infatti: nostro telegramma del 7 ottobre ore 15.30, ora nepalese. Se ammettiamo che la notizia sia stata trafugata all’istante, possiamo ipotizzare che in Italia lo si sia saputo e l’Associated Press lo abbia diramato più o meno tra le 10.30 e le 11, vista la differenza di fuso orario. In tempo perciò per essere pubblicata sul Corriere d’Informazione delle 12. Poche righe aride: «La spedizione alpinistica italiana tesa alla conquista del picco dell’Annapurna, nel Nepal centro-occidentale, è stata funestata da una sciagura, perdendo due suoi componenti travolti da una valanga nel sonno…». Beh, almeno non hanno parlato di dissenteria… In Italia, però, undici famiglie hanno vissuto ore angosciose. Per quale motivo il messaggio non diceva il nome delle vittime? Ma soprattutto: perché un ritardo simile nell’informazione? Noi sappiamo che il ritardo si spiega con semplicità: l’Annapurna è fuori del mondo, lo si avvicina volando da Katmandu a Pokhara e poi marciando due settimane per valli senza strade. Ma in Italia non ne hanno idea. La mattina dell’8 ottobre, Ornella telefona a Franco Rho del Corriere della Sera con un filo di voce. Conosceva la verità? Sapeva chi era stato ucciso dalla massa di neve? In quel momento stesso, Moyrn Belkind dell’agenzia Associated Press rendeva noti per telex i nomi: Rava e, appunto, e Cerruti.
13 ottobre, ore 18. Mi cerca l’Associated Press alla ricerca di fotografie. Rispondo che non ne abbiamo e che non è bene che ci facciamo fotografare sorridenti qui a Kathmandu. Fotografie sarà possibile averle quando arriverà qui il capo-spedizione. Purtroppo mi scappa che partiremo il 15: forse è meglio non fare alcun telex domani, così evitiamo l’assalto giornalistico a Roma.
Oggi Angelo è stato all’ambasciata per i certificati di morte. Decidiamo anche che saranno Angelo e Rino a rimanere a Kathmandu in attesa dei nostri compagni per coordinarne il ritorno.
Il martedì 16 arriviamo all’aeroporto della Malpensa, Lorenzo, Carlo ed io. Ci sono parecchie persone ad aspettarci, tra le quali Claudio Cerruti, fratello di Leo, e naturalmente Cipriana Boschetti Rava, assieme a un fratello di Miller. Qualcuno di loro mi domanda se penso si siano accorti di quanto gli stava succedendo. Il dolore e la commozione che sto provando si va a sommare con quella loro:
– A quell’ora avevano sicuramente finito di mangiare, forse stavano chiacchierando in attesa di addormentarsi… Avranno sentito un po’ di rumore…
Un feroce nodo alla gola m’impedisce di dire altro.
Qualche giorno dopo arrivano anche gli altri compagni. Tra di noi purtroppo cala un gelo spaventoso. Gianni sparisce per Genova e ogni volta che lo rivedrò sarà un incontro penoso. Guido lo rivedrò a Biella: l’appuntamento è in un campo appena abbandonato dagli zingari, in una giornata plumbea e fredda. Una specie di redde rationem che poteva anche concludersi in una scazzottata, un mezzogiorno di fuoco dove verbalmente non ci risparmiamo assolutamente nulla. Neppure il bellissimo e toccante ricordo di Miller che il CAI di Biella organizza il 28 ottobre al Monte Mucrone cambia le cose. Un pesante silenzio, un ignorarsi che è purtroppo durato due anni e mezzo, fino a quando, giusto un mese prima del suo tragico incidente alla Tour Ronde, Guido mi verrà a cercare a casa, per passare un intero pomeriggio ad aprirci i cuori e abbracciarci. Dopo la morte di Guido è venuto del tutto naturale il riavvicinamento con Gianni, con il quale sarei poi andato a scalare le vie di ghiaccio nella Scozia nel 1978. Un grande amico ritrovato. E anche con Carmelo, se pur con grande ritardo, nel nuovo secolo.
Considerazioni finali
(da La parete, 1982)
Ero disgustato, ferito, amareggiato. Solo dopo molto tempo fui in grado di capire che lo erano anche loro. Naturalmente Guido non andò a Bangkok e naturalmente le cose in Italia andarono diversamente da come pensava Carmelo. Per anni ho taciuto, per anni riascoltando talvolta brani di conversazioni e discussioni ho accumulato motivi a mia colpa e a mio danno, mentre le critiche che già allora facevo agli altri impallidivano poco a poco. La tempesta aveva lasciato i segni, la nave andò ancora avanti, ma faceva acqua ormai e doveva affondare. Quando s’inabissò definitivamente vidi con chiarezza che potevo raccontare, perché ora non correvo più il rischio di raccontare perché gli altri mi dessero ragione. Ora non mi importa un gran che di avere ragione o torto. Sono molto più interessato al fatto che impari a mai tacere i fatti, anche se ciò può costare lo smantellamento dei propri idealismi. La nostra avventura all’Annapurna ebbe una fine che allora, dopo la tragedia, mi sembrava squallida. Oggi la vedo come l’esperienza più umana, più vera, più dissacrante che io abbia mai vissuto. E per questo devo dire grazie soprattutto a coloro che erano sulla barricata opposta. Da quello scontro feroce nacque gradualmente il mio disincantamento per l’ideale. Capii che l’ideale è solo una tappa. Le idee più radicate, sulle quali si reggono tutti gli «ismi», nascondono sempre delle ombre, delle quali bisogna riappropriarsi, ma che le stesse idee tendono ad escludere. Dietro la pace c’è la violenza, dietro l’amicizia, sottile e perfida, c’è la competizione e l’invidia. Fortunato chi se ne accorge in tempo. Nel mio libro precedente Un alpinismo di ricerca concludevo le mie teorie con le due fatidiche parole a stampatello: rivoluzione totale. Dialetticamente ero passato da valori matematici dell’alpinismo a valori estetici e, dalla loro contrapposizione, all’alpinismo ideale. Ero fiero di ciò che avevo pensato, di ciò a cui ero giunto con l’esperienza e con il ragionamento. Ma c’era troppo ragionamento, volevo far quadrare tutto, come due più due deve fare quattro… In seguito non potei più evitare di pormi la domanda: quale rivoluzione totale? L’idealismo mi spingeva a credere che dopo la rivoluzione toccasse a noi ricostruire secondo le modalità che sarebbero state stabilite prima dello sconvolgimento. L’Annapurna e i suoi strascichi m’insegnarono che non toccava a me ricostruire un bel niente. Ciò sarebbe stato solo un atto d’orgoglio. L’unico atto che mi si richiedeva era il continuare l’esplorazione di me stesso senza pretesa di successo.
Tutte le mie idee erano sotto processo ormai. Di quale amicizia potevo mai vantarmi? Ero realmente capace di «contemplare»? E cosa potevo dire sul fatto del vedere o meno Dio? Non era per caso un valore artificiale quello che era stato dato a certe mie imprese? Come mai mi accorgevo che il confronto con gli altri era per me la cosa più importante, anche se non l’avevo mai confessato apertamente a me stesso? Ero realmente in grado di «sentire», di «vivere» certi momenti in montagna, o non erano magari soltanto parole, retorica travestita? Quanto esibizionismo c’era in ciò che dicevo o scrivevo? Cos’era quella confusa sensazione che mi suggeriva continuamente che nessuno credeva in me? Ero capace di amare qualcuno? In certi momenti mi sembrava che sotto alla mia volontà esteriore ci fosse solo il vuoto, che tutte le mie azioni fossero dettate in ogni momento dalla presenza degli altri. Ideali come maschera, dunque. Sottovalutavo anche la capacità dell’interlocutore, dell’amico, della ragazza, dell’uomo d’affari, di vedere al di là delle maschere. In buona fede non sapevo neppure di presentare agli altri continuamente una maschera di idee poco nuove. Dunque, la rivoluzione.
Dapprincipio tenni saldo sulla questione dell’azione. Rivoluzione, appunto. Quindi movimento. Il «creare» era per me un’esigenza di base, la rivoluzione doveva essere applicata alla creazione, non a me stesso. Molto tempo sarebbe passato prima di cessare l’azione e le creazioni. Smettere d’arrampicare, disertare completamente l’idea che fa da pietra angolare. Pare che non ci sia alpinismo senza movimento.
Altro punto fondamentale delle mie idee, oltre all’amicizia, era l’alpinismo sociale. Un giorno un amico comunista mi disse: «L’alpinismo? È una fuga dalla realtà!». Rimasi sconcertato a quella definizione. Non era neppure nuova, ma io non l’avevo mai sentita. Secondo il mio ideale precedente di potenza, la fuga dalla realtà era un merito, un estraniarsi dalle miserie del mondo per vivere in una dimensione eroica e creativa. Ma quel giorno la definizione mi lasciò stordito, la parola fuga mi appariva in tutto il suo senso di codardia, vedevo me stesso un traditore quasi dell’ideale marxista. Passarono gli anni e in seguito altri significati attribuii a quella definizione. Quale realtà? Fuga verso dove? E da che pulpito viene la predica? Certamente si può parlare di fuga se per realtà si intende quella fittizia baracconata che è il nostro vivere sociale, ennesimo ideale che sfugge alla vera realtà. Perché devo cercare il reale nell’insieme degli uomini, quando non conosco neppure i primi elementi della mia stessa individualità? Questo rifugiarsi nel sociale, nel comunitario, non sarà un ulteriore travestimento del solito sfuggire alle proprie responsabilità non di cittadino – ma di uomo? Quale rivoluzione mi posso attendere da una massa di miei simili che allo stesso modo mio attendono che la rivoluzione la facciano gli altri? Ogni ascensione che svolgo, che tento o che conduco a termine, è un’azione senza scopo dichiarato. Non devo divertirmi, o soffrire, o esaltarmi o vincere. Ogni ascensione non deve essere nient’altro che ciò che deve essere e cioè un’esperienza irripetibile, sempre diversa. Solo così si può dipanare quel contenuto naturale di me stesso che è il mio destino in questa dimensione temporale. Le fantasie, i sogni, i déjà vu mi ricordano che il tempo esiste solo in questa dimensione, che noi un giorno abbandoneremo, ma bisogna essere preparati… Stiamo incarnando un mito, un sogno di una grande mente universale, non bisogna opporsi a questo grande disegno; anche se gli ideali ci sono serviti per arrivarci, essi sono solo uno strumento.
Ma il ragno seguita a tessere la sua ragnatela paziente, i castori s’ingegnano alle dighe e noi sulla riva del mare ci ostiniamo a capovolgere sul bagnasciuga secchielli di sabbia bagnata. Mentre l’onda impietosa distrugge i castelli a noi bimbi, invece che contemplare con orrore l’acqua spumeggiante faremmo meglio a guardare gli occhi divertiti di nostra madre.
12
Conobbi la madre di Miller Rava mentre era degente all’ospedale di Biella. Un giorno incontrai pure lui mentre recava visita lla mamma. Quando seppi della sua tragica fine ne fui affranto!
Nella tranquillità di una domenica mattina di recupero ho finalmente letto con calma le tre puntate. Il racconto, una sorta di auto-analisi in pubblico, è molto interessante. Si percepisce il bisogno, a tanti anni di distanza nel tempo ma non nell’anima, di fare i conti, grazie ad una maturità spirituale faticosamente conquistata, con un episodio cruciale nella vita dell’autore. Esplora, senza reticenze, alcuni lati oscuri, individuali e collettivi, dell’alpinismo. Lati oscuri che spesso vengono negati e nascosti per presentare una visione edulcorata, più socialmente accettabile di questa attività. A volte i racconti di montagna assomigliano a libri devozionali o le biografie degli alpinisti a vite dei Santi, a scopo educativo. Come se l’educazione fosse più efficace se fondata sulla rimozione. Qui si applica con coraggio l’avvertimento del saggio di Kusnacht: a volte l’inconscio compensa in modi inaspettati e imprevedibili le esagerazioni dell’io. Molto istruttivo: questa è davvero “scuola di vita” più che la raccolta delle figurine dell’album Panini dell’alpinismo. Grazie della sincerità e della condivisione.
Una buona Lettura…! la parte finale , emozionante..! Grazie…! “Alessandro “…per averci regalato tutto questo…!!
Dietro la maschera cè la verità di noi.
Confessarlo richiede non avere più negli occhi la visione egoica dell’importanza personale, piuttosto quella della bellezza.
Sapremo arricchirci di tanto?
Smettere la maschera?
Merxi.
Grazie di aver condiviso questa lunga e sofferta storia. Grazie per aver mostrato una parte di te così importante.
Sono rari i Grandi Alpinisti che hanno la capacità, la cultura e l’onestà intellettuale di parlare anche dei propri fallimenti che ritrovo negli scritti di Alessandro Gogna, sono interessanti non solo da un punto di vista dell’azione fine a sé stessa, ma portano ad una analisi personale anche chi legge, io lo ringrazio per questa condivisione.
Bellissimo scritto, soprattutto nelle considerazioni finali.
Esperienza toccante, che mi ricorda a tratti quella avuta da altri grandi alpinisti sempre in Himalaya, come Messner e Bonatti.