Il mio grande viaggio in Asia – 1 (Milano-Afghanistan)

Metadiario – 57 – Il mio grande viaggio in Asia – 1 (Milano-Afghanistan) (AG 1974-007)

Prima del viaggio
Come già ampiamente descritto nel capitolo precedente (UVA-56), i mesi di agosto e settembre 1974 furono molto agitati dal punto di vista affettivo: si andava dai tentativi di riconciliazione a momenti totalmente disperati in cui tutto sembrava essere perduto. Il culmine lo si ebbe con un tentativo di suicidio da parte di Nella, fortunatamente assai maldestro, conclusosi con un giorno di ricovero all’ospedale di Niguarda.

La cartina da noi usata nella prima parte del viaggio

Ma intanto (come sempre nei periodi peggiori) nasceva dentro di noi la grande idea di staccare da tutto, di partire per un lungo viaggio in Asia. Avrei venduto la mia amata BMW rossa per comprare un pullmino Volkswagen. L’avrei attrezzato in modo assai spartano. Ce ne saremmo andati lasciando 50 lire esatte sul conto corrente, la casa subaffittata a degli amici che avrebbero tenuto anche la Skippy. Cominciammo con lo scrivere a Muhammad Hassan, un afghano che al tempo del viaggio di Nella in Wakhan si era rivelato tra i migliori e più intelligenti collaboratori di Beppe Tenti. Nella era stata anche ospite a casa sua, sontuosamente ricevuta assieme ad altri compagni di trekking. Gli scrisse il 17 settembre, pregandolo di dare sue notizie e di confermare se a dicembre sarebbe stato disponibile per noi. Scrisse anche ad Ahmad Zia, altro giovane brillante e volonteroso. Entrambi le risposero, felici di avere sue notizie dopo due anni e ancor di più di poterla rivedere.

Il libro che ci fu di grande aiuto. Un must dell’epoca, oggi introvabile e forse inutile.

Inoltre, quelli erano tempi in cui, in certi paesi, occorreva presentarsi con un po’ di referenze: dunque impiegammo parecchio tempo a procurarci lettere di sostegno: l’ambasciata italiana a New Delhi, l’ufficio di Milano della Pakistan International Airlines, la Lufthansa,  una lettera del Corriere d’Informazione che certificava il mio viaggiare per loro, una lettera del Club Alpino Accademico Italiano e forse anche altro che ora non ricordo.

Questo viaggio via terra si sarebbe incastrato con la spedizione nazionale del CAI alla parete sud Lhotse. Prevista per la primavera del 1975, era stata resa possibile perché nella primavera del 1973 io avevo acquistato dal Governo nepalese due permessi, uno per il Lhotse (primavera 1975) e uno per il Dhaulagiri (primavera 1976). Il primo lo avevo ceduto già all’inizio del 1974 a Riccardo Cassin; il secondo lo avrei girato a ottobre 1974 a Francesco Santon.

Turchia, nei pressi dell’Ararat e del confine con l’Iran

Nell’aprile 1974 Riccardo Cassin, incaricato dal CAI capo-spedizione al Lhotse, fece un viaggio nel Khumbu assieme a Roberto Sorgato per una ricognizione alla parete. Ne tornò entusiasta, pieno di fotografie scattate dal campo base e anche da un aereo l’ottobre seguente. Si sapeva già che la spedizione avrebbe raggiunto Kathmandu a marzo 1975 grazie a un Hercules militare in partenza da Pisa: non ebbi difficoltà particolari a ottenere che Nella potesse tornare in Italia con quel mezzo, nonché viaggiare ancora gratuitamente a Kathmandu ai primi di giugno a spedizione finita.

Una statua dello Scià di Persia a Maku

Contraddizioni e socialità
Queste vicende convulse prima della partenza non fermavano affatto gli scontri e i riavvicinamenti nel mio rapporto con Nella. In una lunga lettera del 13 ottobre 1974, dopo aver ribadito per l’ennesima volta di non voler mai più costruire alcunché con un uomo, tanto meno con me, Nella mi scriveva:

«[… ] Mi sono resa conto che è impossibile creare un’unità in due perché le mete sono sempre diverse, perché ognuno tende dalla sua parte senza avere l’onestà (magari neanche con se stesso) di riconoscere e dichiarare la sua meta. E’ inutile rincorrere i fantasmi.

Hai incominciato un anno fa a parlare di socialità, a teorizzare su cose che non sapevi mettere in pratica neppure nell’ambito più ristretto, senza capire che alle cose si arriva per gradi e non mirando solo al risultato finale senza i passaggi intermedi (qui Nella si riferisce all’ultimo capitolo del mio libro Un alpinismo di ricerca, terminato proprio in quei giorni e da lei appena letto).

Non sai liberarti dal tuo individualismo, non sai staccarti dal ruolo che hai giocato per anni del “personaggio”. In mezzo alla gente sei a tuo agio solo quando si parla di te o di argomenti “tuoi”: montagna e viaggi. Godi quando puoi mostrare la documentazione delle tue imprese, le rivivi, ti senti grande. E poi, attraverso questo, guadagni anche l’interesse delle donne (civetta lo sei sempre stato perché sei sempre stato insicuro). Hai bisogno di essere approvato, ma non ti sei mai curato di sapere perché qualcuno invece non ti approva o non ti approvava, qualcuno che magari ti conosceva abbastanza da vicino, nella tua presunzione che questo avvenisse solo perché non ti capivano. Se invece c’è qualcuno che fa vedere le sue cose, ti senti autorizzato a ironizzare, a fare battute stronze, a fare il pirla per attirare in qualche modo l’attenzione ancora su di te. Oppure ti estranei e ti addormenti. Questa è la tua socialità, la tua apertura verso gli altri.

Ora, sempre nell’ambito delle tue teorie sulle socialità, vai a fare una spedizione quando:
1. tu stesso per primo dici che le spedizioni sono delle cazzate;
2. sarà una spedizione del tutto tradizionale come concezione;

3. i partecipanti saranno del tutto eterogenei e sinceramente non ci sarà nessuno che potrà condividere le tue “teorie” (con le virgolette ribadisco che sono solo teorie) perché chi davvero ha le tue idee se ne sta a casa nella sua socialità. Oppure ti senti investito del ruolo di missionario e vai a predicare il “nuovo” alpinismo? Sarà dura perché anche le persone che ti possono essere più vicine come formazione non capiscono il tuo linguaggio, come l’Aldino, per esempio. E poi si predica prima di tutto con azioni senza contraddizione con le idee, e magari in una cerchia di persone un po’ più vasta, non ristretta a 15, sotto un capo di 65 anni.

In un negozio di Mashad, Iran.

Tutto questo non per farti cambiare idea, ma per cercare di capire, perché veramente non capisco niente. Non capisco perché in questo momento senti il bisogno di vivere un’esperienza individualistica (anche se non miri alla vetta come un Messner, perché sarai sempre solo, tu con le tue idee e con i tuoi problemi) in un gruppo individualistico perché comunque di élite.

Purtroppo penso che alla base di tutta la confusione e rivoluzione che hai dentro ci sia un grosso problema sessuale che è rimasto più o meno sopito fino ad ora. Dico più o meno perché che ci fossero dei problemi lo si era capito anche prima. Il tuo bisogno di dire cazzate di un certo tipo in certi ambienti o di comportarti da “maschio” in mia assenza ti poneva al livello delle persone che dicevi di non approvare […]».

Kabul, dicembre 1974

All’oscuro di quanto sarebbe successo
Questa feroce critica che Nella faceva alle mie teorie su un alpinismo nuovo e più sociale fotografava esattamente una situazione che solo oggi sono in grado di riconoscere. Allora non mi passava neppure lontanamente per la testa che si possa in realtà agire in modo del tutto contraddittorio rispetto a ciò che si predica. Non avevo la minima idea di quanto quel viaggio che stavamo preparando avrebbe sconvolto il mio modo di essere.

L’affollato bazar di Kabul

Il 21 ottobre così le scrivevo:
«[…] Io non voglio andare in Oriente per ricreare delle condizioni che tu consideri perdute. Voglio andarci perché a questo punto della nostra storia è necessario che facciamo finalmente qualcosa assieme. Sono sicuro che torneremo molto cambiati, perché questo viaggio ci avrà insegnato come vive il mondo e come anche noi dobbiamo viverlo. Spero di guadagnare la capacità di essere più comunicativo, di esprimere più spesso quello che mi passa per la testa, fosse gioia, dolore o piccole cose pratiche […]. Un viaggio come questo è veramente nullificante le esperienze precedenti, è qualcosa di molto diverso. Io voglio costruire tutto quanto non uguale a prima […]. Il tuo dolore per ciò che è successo rasenta quello della madre che ha perso il figlio (l’ideale). Vediamo di farne un altro, più forte e più bello. I mezzi li abbiamo, la voglia anche. Un ideale comune che a te eviti la tua non-realizzazione e a me le frustrazioni, sensi di colpa e di nullità che mi hanno invaso dopo l’Annapurna. I mezzi ci sono perché, per ciò che riguarda la tua non-realizzazione, finalmente faresti qualcosa che ti ha sempre interessato, e per ciò che riguarda le mie remore psicologiche, spero di capire meglio l’umanità che ci circonderà, di essere più generoso e di fregarmene di ciò che non realizzerò.

Donne in chadrì al mercato di Kabul

E qui entra il discorso Lhotse. Voglio partecipare perché è stata l’ultima mia buona idea alpinistica. Non mi sento di rinunciare a questa mia idea. Giuro che, se Cassin cambiasse programma per qualunque ragione e andasse (per dire) alla Sud-ovest dell’Everest, non ci andrei. A questo devi credere. So che ti costa. Costa anche a me, molto più di quanto tu possa pensare. Ho provato tante volte a dire no a me stesso, a dire no a questa spedizione: e non ci sono riuscito […]. Ma forse di tutto questo t’interessa poco, continui a vedermi come quello che non sa mai dirsi di no. Può darsi che tu abbia ragione, ma ormai quest’affermazione non è più sempre valida.

Sterco di animali a seccare per farne combustibile

Quando tu mi volevi bene ero teso alla realizzazione dei miei desideri e dei miei pseudo-ideali. Adesso ho e abbiamo intravvisto quali possono essere i veri ideali. Occorre cercarli assieme, da soli non ci riusciremmo. Io da solo, o con un amico, o con Antoinette non partirei mai. Nelle mie intenzioni non è ricercare l’equilibrio perduto. Voglio qualcosa di più. Dalla tua disperazione non è possibile che non possa nascere qualcosa. Quanto a me, ti assicuro che la lezione mi è servita: basta con i dialoghi con se stessi, basta con le auto-convinzioni, basta sognare i vecchi schemi. In Oriente sarà diverso e agiremo diversamente […]. Ed è inutile tra l’altro partire con tutto a posto, macchina e soldi, quando uno dei due (o entrambi) non sta bene. Quando non abbiamo ben chiaro che tipo di esperienza trarre da una fatica e un impegno così […]».

Strada del Salang Pass

La risposta arrivò a tamburo battente (anche perché comunque eravamo sotto lo stesso tetto, in via Alessandro Volta 10). In serata mi trovai davanti queste righe:
«La tua come al solito è una lettera di una persona che fa tutto con la ratio. Purtroppo non ci vedo nessuno slancio e alcun sentimento. Hai analizzato una situazione, hai preso in esame le eventuali soluzioni e hai scelto quella che ti sembrava la migliore. Non discuto che tu sia in buona fede, che tu sia convinto che questa sia la strada giusta e che farai gli sforzi che dici per cambiare (anche se sono convinta che le persone non possono cambiare di molto, quello che c’è nel fondo se lo porteranno sempre dentro).

Quello che tu trascuri è il fatto che tra noi non c’è più amore. Forse anche prima quello che hai fatto con me l’hai fatto senza la spinta dell’amore. Se invece ce n’era un poco, è stato cancellato con la tua decisione di andare con Antoinette. Da parte mia non c’è più amore, c’è affetto, sì, perché è difficile cancellare cinque anni e mezzo come li ho vissuti io. Ma per me è inconcepibile fare le cose assieme senza quella spinta che porta a un’unione molto più completa. Saremo due persone che fanno sì le stesse cose (con l’interruzione della spedizione che porterà a una separazione ancora più completa), con gli stessi interessi, ecc., ma sempre due persone. Tu dici che questo magari contribuirà ancora di più alla mia realizzazione, ma a questo punto posso realizzarmi qui militando come femminista, per esempio, o qualche altra cazzata del genere, senza rincorrere grossi sogni. Non ho mai mirato molto in alto e non sono mai stata ambiziosa. Se decido di fare questo viaggio è solo perché m’interessa, senza grandi motivazioni. Tu invece sei razionale, i problemi sentimentali non ti toccano, non li capisci e tutto quello che fai lo fai con il cervello e basta. Beato te!».

Tipico paesaggio afghano invernale

Milano-Afghanistan
Non sono mai stato di grandi capacità manuali, però ogni tanto m’impegno e di solito in quelle poche occasioni riesco a terminare dei lavoretti in modo dignitoso. Al pullmino Volkswagen T2 finestrato, nuovo fiammante e di colore verde, tolsi le due fila di sedili posteriori e all’altezza della fila mediana fissai al pavimento una scatola di legno paniforte spesso 1,8 cm. Le sue misure erano di circa 60 cm di larghezza e 140 di profondità. L’altezza era sui 50 cm, la stessa distanza che correva tra il pavimento e la superficie del vano motore. Infine appoggiai due tavole, sempre di paniforte dello stesso spessore, sulla scatola e quindi anche sul vano motore, entrambe amovibili e fissate allo scatolone con ferri a elle. Sollevandole si poteva accedere all’interno della scatola e ai due vani così ottenuti lateralmente (ai quali peraltro si poteva accedere pure frontalmente). A tavole abbassate e accostate il letto così ottenuto era di metri 1,40 x 2,10. L’elementare allestimento interiore era completato da una serie di tendine blu e dai materassini. C’era perfino una tendina che per la notte separava il “soggiorno” dal vano guida/passeggero. Sul tetto feci montare da un fabbro un robustissimo portapacchi lungo l’intero veicolo che comprendeva ben 6 gabbiette porta taniche di benzina (che per l’Asia in generale si rivelarono pressoché inutili). Una scaletta per accedere al tetto era fissata al portapacchi lateralmente: dovevamo sganciarla e applicarla in verticale per salire.

L’ingresso della moschea di Mazar-i-Sharif

Partimmo nel primo pomeriggio di mercoledì 11 dicembre 1974: con noi avevamo una discreta dotazione di viveri nostrani, avendo stabilito di non soffermarci affatto, per i primi giorni, nei territori che avremmo dovuto traversare, rimandando ogni approfondimento alla città iraniana di Mashad. L’idea era di guidare senza distrazioni fino a là, con la sola eccezione di Istanbul. Quel pomeriggio però concludemmo ben presto, a Dolo, ospiti della famiglia Santon. Dopo Zagabria e Belgrado (neve, pioggia, fango), a Niš decidemmo di passare per la più veloce Bulgaria, evitando quindi Macedonia e Grecia.

Bazar di Tashgorgan

La prima “lieta” sorpresa fu capire che quel po’ di soldi obbligatoriamente cambiati entrando in Bulgaria non avremmo mai potuto utilizzarli in alcun modo, in quanto la benzina noi esteri dovevamo pagarla in valuta altrettanto estera e, a un primo veloce esame, nei negozi di alimentari c’erano solo o code lunghissime o vetrine vuote. Il tempo grigio e la temperatura bassa avrebbero scoraggiato anche i più volenterosi. Perciò ben presto rimandammo la spesa di quei leva al ritorno. Al primo buio del 14 entrammo nell’incasinatissimo traffico del sabato sera di Istanbul: lo choc fu tale che preferimmo, il mattino dopo, dirigere immediatamente per Ankara. Il tempo era ostile, non nevicava ma faceva un freddo che richiese una nostra vestizione più adeguata. Con me avevo il quasi completo equipaggiamento per il Lhotse, e anche Nella era ben dotata, dunque la traversata della Turchia non diede altri problemi. Iniziammo a capire che i luoghi migliori per fermarci per la notte erano i piazzali delle aree di servizio, nascosti tra i TIR che ci proteggevano da sguardi potenzialmente malevoli. A Eleskirt cominciò decisamente a nevischiare.

A Doğubeyazit ci fu una vaga schiarita e potemmo intravvedere l’Ararat: ma poi il tempo divenne ancora più da lupi, anche perché salivamo di quota. Bazargan, la prima cittadina dopo il confine turco-iraniano, è a 1793 m. Lì ci fu il nostro primo vero contatto con la realtà locale: ricordo che ci concedemmo un piatto di qualcosa di caldo in una specie di bar-ristorante. Il cameriere gentile s’informò sul come stavamo viaggiando, noi gli indicammo attraverso la vetrata il nostro mezzo. Lui esclamò, concitato: “voloksvaghén”. E nel contempo ci ripuliva il tavolo, lasciato impiastricciato da altri avventori, con uno straccio grigio ancora più sudicio. Nella ed io ci guardammo, non c’era più ombra di dubbio che ormai fossimo in Oriente. La strada di mano in mano che proseguiva verso Marand e Tabriz 1351 m diventava sempre più bella, fino a diventare una vera autostrada. Statue e poster giganteschi dello scià Mohammad Rezā Shāh Pahlavī campeggiavano ovunque, qualche volta gli era accanto la moglie Farah. La rivoluzione khomeinista era ancora di là da venire. Pur viaggiando ancora a una certa quota (Zandjan per esempio è a 1638 m), la temperatura era più mite e meno continentale, forse per l’influenza del vicino ed enorme Mar Caspio. Al contrario di come avevamo bypassato Tabriz, così non potemmo fare per la gigantesca capitale Teheran, dove ci trovammo imbottigliati in pieno giorno nel traffico festivo (era venerdì 20 dicembre). Ne uscimmo a malapena, fermandoci subito dopo in un più tranquillo viale alberato.

Passammo il giorno dopo a Teheran per cercare di ottenere al consolato il visto afghano, senza successo, e ne ripartimmo solo la sera. Il giorno dopo valicammo un passo a 2100 m, passammo sotto al Damāvand 5610 m ben innevato ed esposto a qualche raggio di sole, per scendere poi decisamente verso la costa meridionale del Mar Caspio, dove era stata appena terminata la strada nuova che evitava la pista in terra battuta del Daht-e-Kavir (il deserto del sale). La sera del 23 dicembre arrivammo alla sospirata Mashad, e per l’occasione vi rivelerò il perché di questa scelta. Questa città infatti era nota per la lavorazione di un tipo particolare di tappeto persiano, per la vicinanza al Turkmenistan (e quindi grande possibilità di esaminare tappeti stupendi e infine per i turchesi (che sembrava non costassero nulla). Per questi ultimi eravamo stati avvertiti dalla nostra spassosissima bibbia, la guida Viaggio all’Eden, di Marco Amante e Luigi Buffarini Guidi, che a questa città aveva riservato un’esilarante descrizione di come gli astuti commercianti del bazar infinocchiassero gli sprovveduti turisti. Molti di questi meccanismi della contrattazione commerciale sarebbero stati altrettanto validi per il resto del viaggio negli altri Paesi. Viaggio all’Eden ci fu davvero utile: infatti l’Eden era Kathmandu, e il viaggio descritto era quello hippy style, quindi condotto con mezzi decisamente poveri.

Incontri per strada

Come ci aveva avvertito la guida, da più parti cercarono di convincerci che quello a cui vendevano i turchesi grezzi era il miglior prezzo al mondo, con il miraggio di portarli in Afghanistan (dove invece li lavoravano a prezzi bassissimi) per poi finalmente portarli in India, dove miracolosamente i prezzi erano decisamente alti e quindi conveniva rivenderli ai ricchi Sikh. Per due giorni preferimmo ispezionare il bazar alla ricerca di tappeti: questa era la volontà di Nella, davvero appassionata, e io la seguivo, all’inizio con un po’ di rassegnata condiscendenza, in seguito con sempre maggiore interesse. Visitammo anche due o tre laboratori: quelle donne e quelle ragazzine chine sui telai cominciarono a turbarmi come non erano riuscite le contadine del Nepal o i portatori. Vedevo la pessima condizione del loro lavoro, in rapporto agli ottimi e bellissimi risultati. Vedevo la sorridente espressione di chi in vita sua non ha mai avuto modo d’essere chiamato a rassegnarsi.

Donne di una casa fotografate da Nella

Non comprammo nulla: prudentemente volevamo prima dare un occhio ai mercati di carpet in Afghanistan, rimandando al ritorno eventuali acquisti iraniani. Una spesa che facemmo fu invece quella di riempire di benzina le nostre sei taniche di metallo: in Iran c’era senz’altro il prezzo più basso al mondo!

La mattina di Natale, ottenuto finalmente il visto afghano, ripartimmo alla volta dell’ultimo villaggio iraniano, Taibar. Passata la stazione di frontiera, iniziava una strada nel deserto di una ventina di km che traversava la cosiddetta No man’s land (la terra di nessuno) fino al primo villaggio afghano, Islam Qala, dove ovviamente si fece ancora dogana. Improvvisamente eravamo entrati nel medioevo.

Si estrae il chapati dal forno

Il Nord dell’Afghanistan
Ormai eravamo lanciati verso Kabul. Di comune accordo decidemmo di “tirare” per arrivare alla capitale il più presto possibile, per avere più tempo per organizzare un giro nel Nord dell’Afghanistan il più completo possibile. Il ritmo della guida/sosta per pranzo e cena fu sconvolto da un viaggio continuo. Era già pomeriggio quando lasciammo Islam Qala e le sue procedure di allucinante lentezza. Lasciammo Herat a lato, proseguimmo nel deserto verso Kandahar. Ero come invasato, mentre Nella sonnecchiava sdraiata dietro io continuavo a guidare nel buio nulla interrotto circa ogni cinquantina di km da un posto di blocco di polizia. I controlli, forse dovuti all’ora così notturna, non furono mai meticolosi. All’alba passammo accanto alla mitica città di Kandahar e proseguimmo fino a Ghazni e a un valico di 2500 m per una strada di montagna agevole e sgombra da neve fino ad arrivare a una Kabul bianca e splendente alla luce del tramonto.

Era venerdì 27 dicembre. Posteggiammo in una specie di parco cittadino e passammo una notte tranquilla. Il mattino dopo, quando il termometro segnava -22° al primo sole, Nella riuscì faticosamente a rintracciare la casa di Hassan. Fu ricevuta con tutti gli onori dalla moglie, ma purtroppo il capofamiglia era assente, per via di un altro lavoro. Aveva dato il compito di scortarci e guidarci a un suo nipote, un ragazzone grande e grosso che capimmo subito non avere grande esperienza: era un bravo ragazzo, ma totalmente incapace di capire cosa volevamo noi dal suo paese che lui quasi odiava e avrebbe voluto si trasformasse all’occidentale nel più breve tempo possibile. Inoltre non era mai stato al Nord e, con la sua diversa lingua, malamente si comprendeva con i locali. Ma questo lo realizzammo dopo. Ci preoccupammo che fosse ben equipaggiato dal punto di vista del vestiario e, la mattina del 30 dicembre, lasciammo Kabul diretti a Bamyan. Il ragazzo, di cui non annotammo neppure il nome, aveva avuto da Hassan anche l’incarico di guidare, ma francamente non gli cedetti il volante neppure per un minuto. Nella sedeva tra me e lui, perciò si godeva ancora più di me il suo fastidioso odore di non lavato, un olezzo penetrante che ci accompagnò per tre giorni interi.

La carovana verso il Turkmenistan

Non avevamo le idee chiare: io ero affascinato dai villaggi che sembravano tanti fortilizi di fango secco, le mura cosparse di sterco messo a seccare per farne combustibile, in piccole oasi di verde che punteggiavano montagne regolarmente brulle e marroni, in quel momento anche striate di neve. Dopo Chārīkār salimmo tra due enormi muraglie di neve al Salang Pass 3878 m e per il lungo tunnel a 3600 m di quota traversammo sull’altro versante nella regione della Battria. Scendemmo fino a Khinjān, dove decidemmo di fermarci per la notte. L’indomani facemmo un tentativo di raggiungere Bamyian, ma un soldato ce lo impedì: non avevamo i permessi!

Le cose da vedere erano tante, così come le emozioni che ci si alternavano di ora in ora: eppure eravamo innervositi, perché stranamente non riuscivamo a superare la negatività che la presenza del nostro accompagnatore diffondeva attorno a lui. Che per qualche piccolo episodio divenne così forte da decidere di tornare a Kabul seduta stante: il divieto di proseguire per Bamyian fu ottima scusa per tornare. Passata la notte di capodanno in casa di un amico del nostro accompagnatore e dopo un tentativo di incontrare Ahmad Zia a Pul-i-Kumri dove costui lavorava, voltammo decisamente a sud per risalire il Salang Pass.

Ancora il chapati

Mettemmo le catene. Era già buio e per qualche motivo, ingannato dalla neve, oltrepassai di qualche centimetro a sinistra la sede stradale (strano, perché la guida in Afghanistan era a destra) e mi ritrovai con il pullmino pericolosamente inclinato verso il fossato, più o meno a 25°. Di ritornare in sede stradale con i nostri mezzi neppure pensarlo. Usciti all’aperto ci ritrovammo in mezzo alla neve, al buio e con una temperatura di -25°: e, per la nostra sicurezza, non potevamo rientrare. Nella bofonchiava qualcosa sulla mia stupidità per aver deciso di guidare di notte, cosa in Afghanistan da chiunque sconsigliata: io intanto mi affannavo a recuperare i sacchi piuma, perché prevedevo un lungo bivacco a bordo strada. Dopo circa tre ore notammo un lumino intermittente che scendeva dal Salang verso di noi: capimmo che era lo spartineve. Andava tipo a 5 km/h e infatti impiegò quella che ci sembrò un’eternità ad arrivare da noi. Nel frattempo avevo dotato l’anello metallico presente sotto il paraurti anteriore di un doppio giro di corda da alpinismo. L’omino che scese tutto infagottato dallo spartineve, dopo qualche parola con il nostro accompagnatore, valutò la situazione, girò il mezzo con complicata manovra, poi cercò di agganciare il pullmino. Il gancio di cui lo spartineve era dotato era di dimensioni enormi e non ne voleva sapere di entrare nell’anello di dotazione Volkswagen T2. L’omino era riluttante a servirsene, forse non si fidava delle mie corde, ma alla fine non ebbe alternative. Risalì sullo spartineve e, con molta cautela, riuscì a trascinare il pullmino in sede stradale. Dopo una generosa mancia (mai soldi furono elargiti con maggiore gioia), risalimmo semiassiderati in auto e proseguimmo, senza ulteriori incidenti, fino a Kabul.

Ospiti in una casa. A destra, Hassan e Nella.

Kabul
Nell’attesa che Hassan fosse disponibile, passammo cinque giorni a Kabul ispezionando accuratamente tutti i negozi di tappeti e facendo amicizia con alcuni dei proprietari: lo stesso Hassan ci accompagnò da qualcuno di loro. La giornata iniziava nel parco cittadino e trascorreva regolare tra piccoli acquisti al bazar e prolungate visite ai negozi e alle “fabbriche” di tappeti. Cominciammo a sviluppare un nostro gusto, partendo ovviamente dalla distinzione tra lavorati in lana e quelli in cotone (ghilim). Imparai a vedere la qualità dei nodi, l’accostamento dei colori, i disegni tipici e, naturalmente, l’invecchiamento artificiale dovuto alla continua esposizione al sole… Le visite seguivano un rigido protocollo, dal classico saluto as-salam aleykum cui deve essere risposto aleikum as-salam, all’offerta della tazza di tè con cardamomo, cui seguivano numerose altre; dal dispiegamento dei tappeti all’illustrazione della loro qualità, fino alla contrattazione che poteva arrivare a limiti inauditi per noi occidentali. Capimmo presto che alzarsi e fare finta di andarsene durante una trattativa non era solo inutile, era considerato scortese: meglio stare seduti e ribadire la propria offerta, sempre sorridendo.

Musica in un tchaikhanà

Le giornate erano quasi tutte di bel tempo, la temperatura sempre rigida, considerati anche i 1791 m di quota. Quando non facevo fotografie, ci concedevamo qualche rice pudding nei locali hippy del quartiere di Shar-i-Naw, oppure qualche tè bevuto nei pittoreschi e quieti tchaikanà, dove avevamo modo di osservare e apprezzare lo stile di vita lento, misurato e dignitoso di chiunque, povero o ricco che fosse. Per strada le donne erano ricoperte da capo a piedi dai loro chadrì: di loro non si poteva vedere nulla, a parte l’eleganza, mentre loro di sicuro ci osservavano attraverso le sottili fessure della griglia nel tessuto ricamato.

Uno dei problemi più ricorrenti era espletare le nostre funzioni. Nel parco ad ogni momento saltava fuori qualcuno, era quasi impossibile se non in piena notte. Urinavamo in un vasetto dell’Ovomaltina, quanto al resto ogni tanto ci concedemmo di entrare in un albergo. Anche se una volta, data l’urgenza, Nella la fece in una scatola dentro al pullmino! Soffrire qualche giorno di diarrea è inevitabile, e quello era il momento.

Ma a questo riguardo il ricordo più indelebile è un’avventura davvero ai limiti dell’assurdo che si è consumata nel quartiere di Shar-i-Naw, quindi piuttosto lontano dal rifugio del nostro pullmino. Improvvisamente sentii di aver bisogno di un bagno. Mi guardai attorno e l’unica possibilità che vidi era un bar tipo hippy (dove peraltro eravamo già stati una-due volte, senza usufruire dei “servizi” però). Manifestai la mia urgenza al ragazzo, tra l’indifferenza di due sdentati junkee stravaccati per terra su un lurido tappeto. Quello m’indicò sorridente una porta, verso la quale mi avviai quasi di corsa. Fui fermato dal premuroso garzone che m’indicò una pigna di carta da giornale. Ne presi un po’ ed entrai aprendo la maniglia con il gomito, come mia abitudine.

Combattimento di dromedari

Per fortuna calzavo gli scarponi invernali doppi della Galibier, dato il freddo. Spalancato l’uscio, mi si aprì una stanza di discrete dimensioni (5m x 5m): al fondo, accanto alla finestra aperta, campeggiava una tazza da cesso. Nessun altro arredo. Il mio sguardo si soffermò su quell’oggetto da quale debordava un’orrida miscela di piscio, acqua e merda. Queste sostanze ingombravano l’intera superficie della stanza, con formazione di pozzanghere profonde anche qualche centimetro, senza soluzione di continuità. Sulle quattro pareti, grottesche strisce marroni colavano sinistre. In piedi, con alle spalle la porta richiusa, osservavo i miei scarponi già a puccio in quel fetido liquame. Ragionai che quel terrificante lago si era formato un po’ per tracimazione dalla tazza, ma soprattutto perché nessuno osava più raggiungerla e si fermava prima a cagare e pisciare per terra. Io ero entrato quando ormai neppure un centimetro era asciutto: forse qualche inserviente si limitava a diluire con qualche secchiata d’acqua. Feci un passo o due per guadagnare un punto dove lo spessore del liquame mi sembrava inferiore.

Combattimento di cani

Ormai non ne potevo più, dovevo assolutamente liberarmi. Mi calai sovrapantaloni, pantaloni e slip, poi mi accucciai, un po’ impacciato dalla carta di giornale che avevo in una mano. In un barlume di lucidità pensai che a quella distanza avrei provocato di sicuro schizzi, allora mi rialzai a metà. Ma ancora pensai che, alzato il dislivello tra culo e melma semi-liquida, avrei aumentato anche la violenza dell’impatto, dunque avrei provocato schizzi più potenti. Terrorizzato dall’eventualità di epatiti terrificanti e di chissà cos’altro, trovai la soluzione: cagarmi sulla mano ricoperta di congruo strato di carta di giornale. Per fortuna, data la consistenza non proprio liquida, riuscii a mantenere il controllo e l’operazione riuscì. Dopo il primo getto, scagliai carta e merda sul muro. Poi ci fu un secondo attacco, e ancora ripetei la manovra, ma questa volta fu più difficoltoso perché la consistenza era inferiore e quindi un po’ più problematica. Ricordo che riuscii anche a risparmiare un po’ di carta per una sommaria pulizia del culo.

Buskashi

Battria e Nuristan
Il 7 gennaio 1975 finalmente partimmo, guidati da un uomo che sapeva il fatto suo, simpatico, intraprendente, intuitivo. Hassan era davvero la guida ideale, infatti lo lasciai subito guidare, fiducioso delle sue qualità anche come autista. Era già stato tante volte nella parte settentrionale del paese, conosceva la lingua diversa, ci proponeva delle cose che in genere c’interessavano sempre. Cercai invano di spiegargli che agli incroci era del tutto inutile azionare le quattro frecce, ma non ci fu mai verso… Quella sera, dopo aver valicato il Salang Pass, pernottammo a Pulikumri: come già avevamo fatto con il precedente accompagnatore, d’ora in avanti avremmo scelto una specie di locanda e, mentre lui avrebbe dormito su un charpoi, noi avremmo posteggiato nel cortile. Il giorno dopo ci spostammo, attraversando le meravigliose gole, a Tashgorgan. Ci fermavamo in ogni cittadina, Surk Kotal, Samangan, Takhti-i-Rostem. L’atmosfera che si respirava era quella della grande occasione della propria vita, un mondo che ti entrava dentro, con la forza dei miliardi di suoi granelli di polvere, della sua luce, degli odori e degli occhi della sua gente.

Lo sforzo del cavaliere per avere il possesso del trofeo e portarlo a meta

Avemmo modo di assistere a due buskashi (quello di Cental davvero grandioso), un bellissimo anche se assai violento gioco di grande forza e abilità dove due squadre si scontrano disputandosi il corpo di un caprone. E poi il combattimento tra cani, perfino quello tra due dromedari in amore. Tra spazi in odore d’infinito, nella purezza di un’aria che ci entrava nelle profondità dell’anima. Qualsiasi momento era da vivere, sia in movimento che nella quiete di un tchaikana, osservando la barba di un anziano o le grate per gli occhi dei vestiti colorati delle donne. Ogni tanto mi sorprendevo ad osservare con attenta sospensione i fossati che costeggiavano le strade e in cui l’acqua scorreva: acqua per tutto, fogna e sorgente. Mi perdevo nella mia tazzina colma di albicocche e gelsi secchi, nel vapore fumante del nostro tè. E poi facevo tante foto, tantissime, mi sembravano una più bella dell’altra: ignaro che, per necessità, dopo dodici mesi le migliori le avrei svendute alla signora Battaglia dell’Istituto Geografico De Agostini, dopo una trattativa già persa in partenza perché con quella donna le tecniche della contrattazione non funzionavano, neppure quelle orientali che avevo imparato così bene…
Ogni tanto entravamo in qualche casa: Nella riusciva anche ad accedere alle cucine, di fronte alle donne sorridenti.

La mischia per impossessarsi del trofeo

Uno dei miei pallini era quello di mettere piede in URSS, precisamente in Turkmenistan per magari arrivare fino alla mitica Samarcanda in Uzbekistan. Hassan era ovviamente scettico, ma si lasciò convincere a tentare. Scegliemmo un itinerario secondario, nella speranza che la dogana d’inverno fosse chiusa. Ci recammo a Sheberghan e poi ad Andkhoy. Qui il tempo, che era sempre stato bellissimo, virò alla tormenta. La temperatura si alzò di parecchio. Speranzosi iniziammo il tratto di una cinquantina di km che dirigeva a nord verso la frontiera. Nevischiava, ma la neve non si fermava sul terreno. La terra battuta di cui era composta la sede stradale era diventata uno strato di fango, cui si aggiungeva la pappa della neve. Per continuare fummo costretti a mettere le catene. Subito dopo raggiungemmo una carovana di una ventina di dromedari carichi di chissà cosa che procedeva lentamente nella nostra stessa direzione. Imbiancati della neve che la bufera gli soffiava addosso erano irreali, come pure le due o tre figure che li cavalcavano, simili a statue illogiche.

Volti contratti nello sforzo

Quando fummo sì e no a due terzi di strada la bufera aumentò di violenza, il fango si fece più profondo. Avevamo paura di non poter più andare avanti, ma neppure indietro. Facemmo dietro-front, incrociammo la carovana e, molto faticosamente guadagnammo Andkhoy.

Dopo undici giorni di viaggio rientrammo a Kabul il 17 sera. I giorni seguenti cercammo in tutti i modi di ottenere il permesso di entrata nel Nuristan, una regione pashtu, molto montuosa e selvaggia, nella zona sud-orientale del paese e al confine con il Pakistan. Ma non riuscimmo ad averlo, perché ci ripetevano di continuo che era troppo vicino al confine e che era pericoloso perché in quel momento tra i due paesi vi era tensione.

Piuttosto cocciuti, decidemmo di provarci ugualmente, sempre con l’aiuto del nostro fido Hassan che, anche se scettico, aveva evidentemente deciso d’essere il nostro angelo custode.

Il vincitore ringrazia il pubblico

Ripartimmo il 21 gennaio, dormimmo a Kama e la notte dopo ad Asmar nella valle del Kunar. Fummo ospiti del sindaco, ma poi fummo fermati, gentilmente ma sotto la minaccia delle armi. Il tempo era brutto, freddo, grigio e ventoso. La sera del 23 gennaio, ripercorrendo lentamente la pessima strada, tornammo a Djalālābād, dove fummo ospiti di altri parenti di Hassan. Ci furono preparati i migliori piatti della cucina afghana e ci lavarono pure la nostra roba più sozza. La mattina dopo tristemente li salutammo, con la promessa di rivedersi l’estate dopo.

Il mio grande viaggio in Asia – 1 (Milano-Afghanistan) ultima modifica: 2020-11-09T05:02:41+01:00 da GognaBlog

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6 pensieri su “Il mio grande viaggio in Asia – 1 (Milano-Afghanistan)”

  1. Bello, il viaggio con i suoi particolari punti di vista, tra cui il dettaglio del lancio della merda sul muro. Un episodio che comunque trovo che abbia molto a che vedere con la libertà di una liberazione totale, impensabile a casa nostra e ancor più oggi.

  2. Molto bello, vero, senza veli, ti immmerge nel modo di viaggiare e di amare di altri tempi, attraverso un mondo che non esiste più. Allora la libertà la sentivi dentro, la vivevi, non era solo una parola. Il ritmo ed il realismo crudo del  racconto mi ha fatto pensare ad un altro viaggio celebre a Kabul: quello della “Via crudele” di Ella  Maillart, in piena guerra mondiale, in auto dalla Svizzera, con una giovane amica. Mi ha anche fatto pensare ad un viaggio su quel glorioso pulmino da Milano a Sondrio, con Nella e Sandro, per una scialpinistica invernale al Piz Rodes, pochi anni dopo…
     

  3. Racconto avvincente, pur nella sua mancanza di emozioni forti come certi racconti di alpinismo possono darti. Ma bello per l’esperienza, per i racconti e la vita vissuta.
    Viaggio inestimabile e “intestinabile”… Perdona il gioco di parole Alessandro 🙂 

  4. Ad una certa età, penso non ci si curi più molto di come siamo apparsi agli altri o di come si appaia oggi. Semplicemente si ricorda, senza filtri, con qualche rimpianto e ci si confronta con il vissuto. Ognuno a modo suo.
    Questo blog si chiama Gogna. Che lui decida di mostrarsi fa parte delle cose, credo. È interessante e merita la nostra discrezione. 
    Riguardo il viaggio avrei voluto sapere di più e per questo attendo il seguito. 
    Piccolo particolare sullo spassoso episodio dell’irraggiungibile tazza del cesso. È un argomento spesso importantissimo e chiunque abbia affrontato viaggi e spedizioni in luoghi difficili o estremi, lo sa molto bene… 

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