Metadiario – 65 – Milarepa ascolta (AG 1975-007)
“Lung Hian domandò: se minacciassi di tagliarti la testa con la spada più affilata del mondo, cosa faresti? Il Maestro rientrò la testa nelle spalle. Lung Hian disse: la tua testa è staccata. Il Maestro sorrise. In seguito Lung Hian andò da Tung San e gli narrò questo episodio. Tung San chiese: cosa disse il Maestro? Lung Hian: non disse nulla. Tung San: non dire ch’egli non disse nulla, mostrami la testa che dici d’aver tagliato! Lung Hian riconobbe il proprio errore e si scusò. Qualcuno riferì la storia al Maestro, che osservò: il vecchio Tung San non ha giudizio, quell’uomo, Lung Hian, è morto da tempo. A cosa serve cercare di salvarlo? (Storia Zen)”.
Dopo il lungo viaggio, più volte sono tornato in Oriente. Ma sempre per motivazioni legate in qualche modo al lavoro, a parte rare eccezioni. Più volte ho desiderato tornare in Asia solo per il gusto di farlo e sempre qualcosa mi ha trattenuto qui. Dapprima il ricordo di bei momenti mi faceva soffrire di nostalgia, desideravo tornare indietro, stare ancora con certe persone che avevo conosciuto, rivivere le impressioni divise con Nella, ma lentamente si fece strada la convinzione che il destino mi aveva già offerto la grande possibilità di riflettere. Nella riflessione i ricordi si stingono e si smussano: sopravvivono solo quelle emozioni che allora non erano state percepite del tutto. L’Esperienza si è diluita nel tempo, così la prossima meta sarà vivere un’esperienza in un solo momento, senza diluizioni, senza bearsi di ricordi. Solo in quell’equilibrio supremo dell’istante perderò la cognizione del tempo e potrò iscrivermi a un vero viaggio, quello che nessuna agenzia può offrirti, il trekking nel passato.
Le prime settimane dopo il nostro ritorno furono assai concitate, occorreva riprendere faticosamente quelle connessioni con eventi e persone che ci potevano permettere una vita lavorativa e un ritorno alla normalità.
Uno dei filoni che non potevamo sprecare era quello della conduzione dei trekking di Beppe Tenti. E proprio in questa logica già il 7 ottobre 1975, neanche un mese dopo il rientro a Milano, ero in partenza per il Nepal, questa volta però in volo, di fretta. Diretto al campo base dell’Everest: non in partenza da Lukla, bensì da Tholo Pakhar, praticamente il vecchio trekking che si percorreva prima che fosse aperto il piccolo aeroporto di Lukla.
Decisamente era quello il modo migliore per far conoscere il Nepal e, nel mio caso, per approfondirlo. Ancora una volta percorrevo le valli nepalesi, un continuo su e giù tra gente, villaggi e paesaggi sempre diversi.
Molte imperfezioni di servizio riscontrate nei trekking del 1972 e del 1973 erano state corrette, smussate. Devo dire che filava tutto liscio.
Il nostro era un trekking piacevole, ero a capo di un gruppo molto piccolo: il padovano Gustavo Bonato (con il quale condividevo la tenda), il medico di Domodossola Piero Cassani, un padre e figlio catalani (Ramon e Ignacio se la cavavano egregiamente con l’italiano) e il «nonno» della compagnia, settantenne e in gambissima, l’accademico del CAI Francesco Maddalena, di Pordenone. Un’ottima compagnia. Prima di salire il montarozzo panoramico del Kalapattar dovevamo camminare sedici giorni.
Il trekking si svolse come da programma, attraverso Kiranthi Chap 1350 m, Yarsa 1980 m, il Chisopani Pass 2480 m, il Chanma Pass 2700 m, Sete 2520 m, il Lamajuru Pass 3425 m, Jumbesi 2640 m. Al lunch del 17 ottobre ci trovammo inaspettatamente a far sosta al fondo della Ringmo Khola 2550 m con un altro gruppetto di americani, condotti da una giovane newyorkese con la quale ci fu un immediato feeling. Qualcuno di noi fece il bagno in pantaloni corti, poi risalimmo un fitto bosco per l’erto sentiero che conduceva al Trakshindo Pass 3050 m. Mentre salivamo gli shorts ci si asciugavano addosso. Fu fatale che la ragazza, che qui chiamerò Betty anche perché non ricordo affatto il suo nome, si affiancasse a me in quella salita e continuassimo a chiacchierare. Il suo aspetto fisico era imponente, alta, piuttosto in carne, la classica ragazzona americana espansiva, per fortuna non proprio il mio tipo. Dal valico scendemmo in breve al villaggio e al gompa di Trakshindo 2900 m. Svolte le pratiche per la sistemazione del campo e per la cena andammo a gruppi riuniti in visita al monastero. Dopo il dinner ci ritrovammo con Betty e, con il favore delle tenebre, ci trovammo un luogo in mezzo al bosco. Per fortuna ci accorgemmo in tempo che il terreno era infestato dalle sanguisughe. Ci rivestimmo in fretta e furia ridendo e a quel punto andammo nella sua tenda, solo per accorgersi nel bel mezzo delle effusioni che le sanguisughe erano entrate anche lì perché lei l’aveva lasciata aperta.
Il giorno dopo sentivo che dovevo evitarla: lei al contrario m’inseguiva di continuo. La sera del 21 ottobre eravamo a Namche Bazar. Fino a quel punto ero riuscito a non farmi ulteriormente coinvolgere, ma quella sera mi ritrovai a giacere con lei nientemeno che in un campo di patate neppure tanto periferico… Almeno non c’erano più le sanguisughe…
Nei giorni seguenti, tutto regolare, sempre bel tempo e ricerca della riservatezza. Cercai perfino di cambiare il programma del trekking, in modo da sfalsare le tappe con il suo, ma non ci fu verso.
Il 26 ottobre con tutti quelli del mio gruppo salimmo il Kalapattar di fronte ad un Everest corrucciato per tornare poi a Pheriche. Lì ero finalmente riuscito a distanziarmi dagli americani, perché loro vollero andare al campo base dell’Everest, cosa che a nessuno di noi italo-catalani interessava.
Di ritorno a Tengpoche il numero dei componenti del nostro gruppetto si era ingrossato perché lì incontrammo tutto il parentado dei due catalani.
Pur non essendo mai stato in pensiero per il buon andamento del viaggio (compagnia buona, affiatamento notevole, servizio degli sherpa eccellente), dal Trakshindu in poi ero stato teso come un elastico. Io che avevo appena giurato di “scalare la mia montagna interiore” mi ritrovavo tirato per la giacchetta in tutti i modi. Non mi bastava leggere affannosamente appena possibile, di giorno e di notte: anche il buon rapporto che avevo con i miei, con gli sherpa e con la popolazione in generale non mi consolava e non mi serviva per un po’ di pace interiore.
Quel pomeriggio a Tengpoche c’era allegria, i catalani avevano portato anche del vino e stavamo festeggiando uno dei più bei momenti della loro vita. Ramon era già stato lì e c’era arrivato in modo singolare: infatti due anni prima era stato membro di una spedizione motociclistica e la Bultaco aveva portato il rombo dei suoi motori fino al pacifico monastero di Tengpoche. Anche allora c’erano stati dei festeggiamenti e il Ringpoche li aveva ricevuti congratulandosi con gli autori di quell’insolita impresa tecnica. Anche se lama di tal levatura, immerso quasi costantemente nella meditazione, destinato quindi a ben altro tipo di imprese, magari meno appariscenti ma di certo più serie, la correttezza e l’innata superiorità lo spingevano ad essere gentile e a mostrarsi sorpreso con chi era così infantilmente felice per ciò che aveva appena fatto. In seguito, anche se non so i particolari, la spedizione dei motociclisti aiutò il monastero a costruire un acquedotto e uno dei catalani ebbe un’idea che fu molto apprezzata dai monaci e fece risparmiare tempo e danaro.
Dopo più di due anni l’acquedotto funzionava ancora regolarmente e Ramon voleva incontrare di nuovo il Ringpoche. Venne avviata una complessa manovra diplomatica per far sapere a Sua Santità che eravamo lì a chiedere l’onore di un piccolo ricevimento. Il Ringpoche fu gentile e ci ricevette quasi subito. Era un uomo alto e nobile. Il volto era impassibile e il cranio rasato accentuava l’impressione di austerità e di religioso distacco. Non tradì emozione alcuna nel salutare Ramon che invece era molto espansivo. Noi sorbivamo il tè che era stato prontamente servito e credo che tutti fossimo compresi della grandezza del personaggio che affabilmente conversava con Ramon, da lui evidentemente ritenuto il capo-gruppo. L’inglese un po’ impacciato di entrambi non favorì una chiacchierata particolarmente lunga, così dopo una decina di minuti per troncare un sopravveniente disagio, chiesi a Sua Santità il permesso di fotografarlo. Feci questo con evidente disgusto, mi turbava profondamente infastidirlo e approfittare della sua cortesia. Senza tendere neppure un muscolo del viso annuì e sei o sette lampi abbagliarono quel volto impassibile e la lucidità del cranio non bastò a rifletterli.
Mi sentivo un verme per aver anch’io catturato l’immagine e guardai verso di lui implorando me stesso di avere definitivamente il coraggio di prendere la mia strada. Ne avevo abbastanza.
Ci alzammo con gran tramestio e uscimmo tutti dopo un accenno di inchino. Quattro o cinque di noi si trattennero nel cortile per fare altre foto. Un monaco mi toccò sulla spalla e con mia sorpresa mi ricondusse all’interno: in piedi in fondo al corridoio mi attendeva il Ringpoche. In mano aveva dei piccoli fogli di carta di riso stampati in caratteri tibetani con matrici di legno. Non sorrideva ma aveva un aspetto più conciliante. Mi porse quei fogli dicendomi che quella era la storia di Milarepa.
– Dovresti leggerla, perché ti sarà molto utile.
Ringraziai confuso e lui non aspettò che io mi ritirassi.
Sul libricino vi erano poche illustrazioni, ma sulla prima pagina era raffigurato Milarepa nel gesto canonico di porre una mano all’orecchio per l’ascolto. Questo motivo è ripreso in tutte le illustrazioni sacre buddhiste in vendita anche nel bazar di Kathmandu.
La sera del 28 ottobre ci stavamo accampando a Khumjung, quand’ecco che rividi apparire gli americani che evidentemente, per raggiungerci, avevano fatto una mezza tappa in più.
Era quella evidentemente l’unica sera in cui si poteva ancora fare festa assieme ai nostri. Nel giro di due giorni saremmo tutti ripartiti da Lukla in aereo per Kathmandu.
Ci ritrovammo in una casetta sherpa che fungeva da locanda rudimentale, lì bevemmo una quantità smodata di raksi, una specie di grappa di miglio e riso, fortemente alcolica. A mezzanotte c’era ancora qualcuno che si mangiava chapati e stufato di gallina, innaffiati con generosità dal raksi. Alle due però tutto taceva, la maggior parte era tornata alle tende, nell’oscurità qualche sherpa si era appisolato sui cuscini del locale. Anche Betty ed io ci appartammo e anche lì successe l’inevitabile. La mattina dopo ci fu lo scambio di indirizzi, io le diedi quello di Genova, ma non le risposi mai.
Nella ed io dovevamo provvedere alla scarsa illuminazione del nostro soggiorno di Milano e decidemmo di costruire uno scheletro di fil di ferro e di ricoprirlo con grandi fogli di carta di riso, decorati con motivi religiosi. Il montaggio del “lampadario” fu assai laborioso, le lampadine necessitavano di un contrappeso e non trovammo niente di meglio che il manico di una pentola. Quando si accendeva la luce, Milarepa si illuminava e subito tendeva la mano all’orecchio nell’ascolto perenne delle lontane voci dello spirito.
“Questa è la parte della mia storia, che narra in che modo riuscii a incontrare il mio Guru, il che costituisce il primo dei miei atti meritori (Milarepa)”.
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Luoghi che ho attraversato decine e decine di volte. Atmosfere conosciute e situazioni tipiche: dal sesso al misticismo.
Tra i tanti, il ricordo di una serata a Tyangboche nell’Ottobre del 2001, a meno di un mese dall’attentato alle torri gemelle. Nella primavera dello stesso anno mi ero fermato col mio gruppo per il Mani Rimdu e l’atmosfera era di festa affollata, mentre in autunno c’eravamo solo noi e un gruppo di francesi in tutto il Khumbu e la desolazione che si percepiva nelle persone locali era spessa. Ma quella sera a Tyangboche sembrava che gli abitanti volessero dimenticarsi con noi del momento di disorientamento che stava vivendo tutta l’umanità. Dal monastero molti lama si recarono al nostro lodge portando ettolitri di Tchyang buonissimo (una sottospecie di birra ottenuta dalla fermentazione del riso che di solito ha un sapore non proprio gradevole, ma non fu così quella sera) e una scassata chitarra. Dopo il tramonto sulla punta dell’Everest, sul Lhotse e sull’Ama Dablam, iniziammo a cantare Nel blu dipinto di blu e, per par condicio, La vie en rose subito dopo. Inutile dire che la serata decollò non poco e i monaci, che poi fornirono pure abbondanti dosi di rakshi, si lanciarono, dal più anziano guru al più giovane novizio, in balli sfrenati al ritmo di qualsiasi canzone cantassimo. Apprezzarono moltissimo ‘U Sarracinu, di Carosone, che dovetti suonare e cantare a squarciagola assieme a tutti gli astanti che nel ripeterla avevano ormai imparato il testo napoletano a memoria, non meno di una dozzina di volte. La mattina seguente ci fu un’alba muta e nebbiosa che ci aiutò a scivolare in discesa fino a Phortse Thenga senza dare nell’occhio. Dal monastero giungeva un silenzio assordante, segno che anche i lama avevano accusato la serata. Quando sacro e profano sono umano.