Metadiario – 67 – Trekking al Makalu (AG 1976-001)
Al ritorno dalla nepalese Langtang Valley, la ripresa delle attività in montagna fu assai lenta. Nella ed io dovevamo lavorare parecchio, con i trekking, con le traduzioni, con gli articoli e con le conferenze per recuperare il terreno perduto in quei nove mesi sabbatici. Mi ero accordato con Asolo Sport, Fila e Lafuma per promuovere i loro articoli nelle varie sezioni del CAI. Giravo parecchio, quindi.
Nel febbraio 1976 facemmo assieme tre belle gite con gli sci. Il 15, il poco conosciuto, ma remunerativo, Bric Paglie 1859 m nei pressi di Biella. Salimmo i 904 m di dislivello dal versante sud-orientale. Il 22 ci spingemmo in Val d’Ayas per salire da Estoul l’Anticima Sud del Monte Bieteron 2520 m; e il 29 andammo dalle parti del Monginevro, al Colle Bercia, per salire prima la Cima Saurel 2451 m e poi il Mont Gimont 2646 m.
Quanto a mettere le mani sulla roccia, niente, non c’era tempo. O, se l’ho fatto, non ho avuto tempo di segnarmelo nel diario…
Ai primi di aprile ero di nuovo in Nepal, questa volta per raggiungere il campo base del Makalu lungo l’Arun Valley. Come al solito era la guida di un gruppetto per fortuna non troppo numeroso. Raggiungemmo il villaggio di Tumlingtar 430 m in auto e iniziammo l’8 aprile, sotto un caldo inquietante, a salire verso Khandbari 1100 m, dove speravamo in una temperatura più fresca, ma invano. Il giorno dopo superammo Bhotia Pass 1920 m per mettere un campo a 1850 m. E qui si cominciava a stare un po’ meglio.
Mi accorsi che, forse per via del clima migliore, ero diventato oggetto di velato (ma non troppo) interesse da parte di una ragazza di Verona, con la quale ci fu un progressivo scambio di battute che potevano avere un solo significato. Si stava ripetendo quello che era successo in ottobre. Il mio concetto di fedeltà era sempre stato poco robusto, ma le sollecitazioni ad approfittarne erano continue, perfino esagerate. Oltrepassammo Dhanrgaon 1850 m, Num 1520 m, Gari 1200 m, Alauli 1550 m, Bunkim 1900 m, Tashigaon 2000 m, Utishe 2200 m, Kirpurla 2400 m, la cresta Arete 3070 m, Komma 3450, fino al campo di Dara 3710 m. Aveva nevicato di fresco e in abbondanza. In quelle condizioni la marcia dei portatori era molto rallentata e ci rendemmo conto che non avevamo il tempo di continuare. Dopo rapida consultazione tutti furono d’accordo, dopo un assaggio mattutino nella neve profonda di cosa avrebbe voluto dire continuare, di girare i tacchi e scendere.
Ripartimmo il 15 aprile e raggiungemmo Tumlingtar all’ora di pranzo del 18 aprile. Faceva un caldo esagerato. Dopo un bagno ristoratore in un qualche corso d’acqua fummo invitati dagli sherpa a festeggiare il ritorno dal trekking con qualche bicchierino di raksi in una specie di bettola.
Avevamo molto tempo davanti, perché di certo non potevamo sperare di salire sull’aereo per Kathmandu il 19. Tumlingtar aveva una pista aeroportuale se possibile più piccola di quella di Lukla, a tutte le ore del giorno invasa dalle mucche al pascolo, sgombrate poi in fretta e furia non appena saputo, non si sapeva come, che il velivolo stava arrivando. Nella bettola trascorremmo quasi dodici ore, interrompendo le libagioni, i canti e i balli solo per cena. Le nostre condizioni cominciavano a essere preoccupanti.
E se fino ad allora avevo resistito per tutti quei giorni, a quel punto sapevo che tra me e la veronese qualcosa doveva succedere. Ci ritrovammo verso le 23 a lato della pista aeroportuale: ci reggevamo appena in piedi eppure ne ho conservato un ricordo molto preciso. Si vede che la sbornia di ruksi non è così cattiva come altre. Volammo a Kathmandu nella mattinata del 20 aprile.
All’ombra della Piramide
“Come puoi essere così sicuro che i vagabondaggi della tua vita saranno visti dai milioni di persone che verranno a visitare il luogo del tuo sogno? (Alan Parson, Pyramid)”.
Uno dei primi suggerimenti che diedi al calzaturificio Asolo Sport riguardava lo studio di una scarpetta d’arrampicata a suola liscia, allo scopo di introdurre sul mercato italiano un prodotto nostro, similare ai vari modelli stranieri, EB, PA, D sup, ecc. La direzione non sapeva nulla allora sulle nuove tendenze dell’arrampicata moderna e il buon scarpone di pelle con la vibram sotto era ancora considerato l’unico valido per salire sulle montagne. Inoltre dicevano che l’apparizione di un nuovo modello che non si rifaceva all’esperienza passata avrebbe certamente sconcertato i rappresentanti e i negozianti. Ma oltre a queste diffidenze la direzione non mi oppose altri argomenti e m’incaricò di procurare alla ditta un paio di EB.
In verità io avevo raccontato loro un sacco di bugie: tutto ciò che sapevo sulle nuove scarpette era per sentito dire e non le avevo mai neppure indossate. Fu così che, premuto dall’esigenza di fornire dettagliate informazioni sull’uso delle EB, il 1° di giugno andai con Nella in valle dell’Orco. Con noi era anche la Skippy. Un guardaparco giustamente ci bloccò e così non potemmo dirigerci verso il Colle del Nivolé. Chiusi in pullmino per discutere cosa fare, cominciò a nevischiare. Ormai era evidente che dovevamo tornare indietro e piuttosto innervosito guidai con impazienza verso Ceresole. Essendo i primi di giugno, molta era ancora la neve in alto, ma anche in basso residui di valanghe e prati ancora sbiaditi ricordavano che lì la primavera non era ancora cominciata. Alcuni stambecchi quasi si avvicinavano alla strada, ma non c’era nulla di invitante in quel grigiore cupo. Le nebbie lambivano giusto la base del Sergent, il Caporal era scoperto ma irraggiungibile. La roccia era ancora asciutta e decisi di provare le scarpette sulla Piramide, una struttura triangolare vicino ad un gruppo di case e facilmente raggiungibile dalla strada.
Non ero allenato, anzi da tempo non arrampicavo: i primi mesi del 1976 erano stati una dura lotta economica. Ritornati dall’Asia, per risollevarci dal tracollo dell’anno precedente passato tutto in viaggio, Nella ed io avevamo ricominciato da capo. Non provavo neppure una particolare attrazione per la roccia, tutto sommato ero lì per lavoro.
Sulla Piramide qualche anno prima Gian Piero Motti aveva tracciato un bell’itinerario: era solo, arrampicava in scarpette. Lo chiamò Fessura per PA (per scarpette Pierre Allain) e lo classificò di terzo e quarto grado.
Non chiedevo di meglio, ero venuto fin lì per provare le scarpette. Anch’io ero da solo e ritenevo che dove era passato Motti slegato potevo fare anch’io la stessa cosa. Inoltre, ad un primo esame della fessura, pensai che era fattibile e che non avrei rischiato nulla.
Tremila anni fa ero in fondo all’oceano, vivevo la vita di un’alga e contemplavo il Regno d’Atlantide. Sulla sabbia danzavano e ondeggiavano le ombre del regno sommerso, sirene invisibili volevano emergere alla luce.
Duemila anni fa ero sulla sabbia di un deserto, sullo sfondo erano sagome di Piramidi, una luce abbagliante circondava un magnifico principe: in sella ad un cavallo bianco attendeva le amazzoni che mille anni prima avevo visto in fondo al mare. Era immobile, indossava un prezioso abito bianco e quando le due donne arrivarono fece solo un nobile cenno.
Mille anni fa ero sulla torre di un castello vichingo, in riva ad un mare nordico. Sotto di me, una spiaggia di scogli cosparsa di piccole capanne. Il sole era alto nel cielo, c’era una gran calma. I soldati accanto alle capanne giocavano a dadi e ogni tanto sghignazzavano. Dall’alto della mia torre vidi nascere dall’acqua delle figure minacciose e femminili. Diedi l’allarme anche se speravo che non ci sarebbe stata guerra. Ormai l’esercito di sirene circondava da ogni parte il castello, i miei soldati erano impietriti di terrore. Corsi nelle mie stanze, svegliai la Regina che dormiva e le urlai concitato di trovarmi il fucile.
«Regina, dove sono le armi?».
Poi nell’impeto della corsa uscii sul terrazzo lichenoso per assistere impotente agli eventi. In quel momento una lancia era stata scagliata dai flutti del mare. Vidi il ferro mortale compiere una lunga parabola per poi conficcarsi nella schiena di un mio soldato. La Regina stava ancora sbadigliando.
Feci una corsetta propiziatoria fino alla base della parete. La fessura incominciava sei o sette metri sopra un primo risalto facile. La roccia era fredda e ostile, ma ero abituato a non farci caso. Intorno era grigio e sonnolento, Nella stava leggendo in pullmino. Superate le prime roccette, esaminai da vicino la fessura. Occorreva afferrarne il bordo in Dülfer, salire quattro o cinque metri a quel modo per guadagnare un primo posto di riposo. Le EB si comportavano bene e avevo dato già il nome al futuro nuovo modello: «Canyon». La suola di gomma non offriva resistenza alla penetrazione della grana della roccia e dei piccoli cristalli. L’aderenza sarebbe stata proprio buona se non fosse stato per un sottile strato di lichene. Terminata la Dülfer mi riposai un momento. Non ero in forma, anzi ero un po’ spaventato perché non ero salito bene. Non ero sicuro. Guardai in alto, c’era ancora un muretto e poi la grande placca più facile. Mi avvicinai al muretto, tentai con precauzione di salire ma non mi fidavo delle suole ed ebbi paura. Non era il momento di salire, non era il luogo. Ma non era neppure il momento d’esserne dispiaciuti. Un po’ agitato presi a scendere, lento e insicuro. Nella Dülfer in discesa mi osservavo con pena, ma non avevo paura. In quel momento il piede sinistro scivolò ed io mi ritrovai sul terrazzino esiguo due metri più sotto, colpito alla schiena.
Sette metri ancora più in basso sbadigliava la Morte.
Morte sul Monte Bianco
Gli ultimi giorni di maggio era successa una cosa assai importante: la riconciliazione con Guido Machetto. Era venuto a trovarmi in via Volta 10 e, dopo una spaghettata, eravamo stati quasi tutto il pomeriggio a chiacchierare, aprendoci il cuore a vicenda. Erano stati due anni e mezzo di dolore continuo, una situazione irresoluta, ancora incombente. Mi ero accorto subito che era cambiato. E, altrimenti, perché mai mi avrebbe cercato? Il successo dell’anno precedente, con Gianni Calcagno al Tirich Mir, aveva modificato il suo atteggiamento verso il pubblico, di sicuro aveva scalzato quel malinteso senso del dovere che lo aveva perseguitato in seguito al fallimento dell’Annapurna. Si era riconciliato col mondo, e anche io rientravo nel numero… In effetti io in quel lasso di tempo non avevo fatto assolutamente nulla di quello che lui paventava io facessi, dunque in qualche modo mi ero “riabilitato” ai suoi occhi.
Insomma fu un pomeriggio davvero emotivo, al momento di salutarci eravamo entrambi molto commossi. Non sapevo certo che non lo avrei mai più rivisto.
Così Emanuele Cassarà scrisse in seguito alla caduta mortale di Guido:
“Il 24 luglio 1976, sulla pilastro Bernezat della Tour Ronde, gruppo del Monte Bianco, è precipitato e morto Guido Machetto, 41 anni. Legato alla sua corda, illeso, c’era Eugenio Gariglio, diciottenne. Machetto, guida alpina e maestro di sci, era un alpinista diverso, a modo suo controcorrente, un po’ provinciale, anche nel senso geografico: viveva a Biella, capiva che i giornalisti erano a Milano, a Torino, che da Biella era più difficile farsi apprezzare… Aveva le sue idee, parlava di alpinismo “da commando”, dunque feroce, più che sportivo, di sfida aperta, di risultati. Nelle sue conferenze molti storcevano il naso, perché usava parole anche violente, aggrediva, era insofferente di regole e classifiche che riteneva ingiuste. ‘Hai parlato su una intera pagina di Messner all’Hidden Peak’, mi aveva rinfacciato, ‘e dedicato soltanto poche righe al Tirich Mir mio e di Gianni Calcagno…’.
Come spiegargli le ingiustizie del quotidiano? La notizia dell’Ottomila di Messner e Peter Habeler, in due all’alpina, era giunta tre giorni prima del “quasi Ottomila” di Machetto e Calcagno al Tirich… Se le date si fossero incrociate, si sarebbe incrociato anche lo spazio da dedicare alle due imprese. Era venuto al giornale e mi aveva mostrato tutta la sua indignazione, anche un certo rancore.
Ci facciamo raccontare dal suo giovane compagno sopravvissuto:
“Dopo la crepaccia ci leghiamo. Il canale scarica pietre. Andiamo quasi di corsa. Poi dentro una fessura ghiacciata e sporca, arriviamo al terrazzino. Ogni tiro di corda ci assicuriamo. La prima parte si supera in artificiale, coi chiodi. Troviamo staffe, cordini, fettucce, resti di scalate e di incrodature spiacevoli. L’estate era secca, c’era molta siccità. Le pietre non erano cementate, tutto si sgretolava, gli appigli rimanevano in mano. Ci fermammo su un terrazzino quasi alla fine delle difficoltà. La via è di 350 metri, eravamo a 250 dalla base. Sono le undici. Mangiamo qualcosa. C’è un muretto corto ma scorbutico, si usciva su cenge inclinate da destra verso il basso a sinistra. Procediamo corda alla mano, di conserva. È abbastanza facile. Qui si vedono gli alpinisti, mi diceva. Al terrazzo la parete è più impegnativa. C’era una grossa lama di granito. Mi sono assicurato con fettuccia intorno alla lama. Difficoltà terzo grado, terreno rotto, a lastre appoggiate. Mi dice: parto, occhio. Poi sparisce, sulla destra, oltre il terrazzo, aggirando il muretto. La corda scorre velocemente. Mi preoccupo di non farla impigliare nella fessura orizzontale, che non si blocchi. Faccio molta attenzione. Guido non mette nessun chiodo intermedio. Un errore? Purtroppo, una norma… Bisogna invece sempre aver un po’ di paura, anche sul cosiddetto facile. Ad un tratto la corda si ferma. Starà studiando il passaggio, mi dico. Trascorrono almeno tre o quattro minuti. Io mi tengo pronto, in sicurezza. Lui sarà stato a venticinque metri. D’improvviso sento un rumore di scarponi che raschiano, poi di ferraglia. Subito penso: possibile che stia cadendo? Machetto non cade, non può. La corda viene giù molle! Mi rendo conto che Guido sta davvero volando. Lo vedo passare a un metro e mezzo da me, alla mia destra; rovina, rotola, veloce come non si può immaginare, a testa in giù, poi ruota a capriola, a mucchio. Stringo la corda intorno alle spalle, mi rannicchio, attendono strappo.
Mi va bene, perché la corda quasi al termine si impiglia nella fessura, si incastra, ma non di colpo, a freno. Quasi non sento la pressione. Senza quell’incastro della corda sarei volato giù con Guido. La sicurezza a spalla è un altro errore. Non serve a nulla, è solo alibi. La corda va fissata a un chiodo col nodo del mezzo barcaiolo. Guido non urla, gli esce soltanto un’esclamazione di stupore, di dispetto, come un lamento: ‘oh!’. Si ferma cinque metri sotto di me, a qualche palmo da una cengia. È appeso alla corda, in piedi, sul vuoto. Lo chiamo. Non avevo pensieri in testa. Non mi risponde. Sono le dodici. Lo calo sulla cengia, pesava molto; poi la corda s’abbandona. Fisso un chiodo e lo assicuro. Mi slego e scendo un po’, a due metri da lui: di più non oso avvicinarmi. Perde sangue dalla testa, ha la faccia al cielo. Mi sento una folle paura dentro, perdo ogni capacità e ogni sicurezza”.
Due alpinisti, da sotto, vedono tutto. Vanno a chiamare il Soccorso. Anche dalla Punta Helbronner vedono. Arriva l’elicottero, ma passa un’ora, lunghissima.
“Sento soltanto il vento. Il silenzio è totale, ma lo scopro adesso che Guido è immobile. Mi terrorizza la sua immobilità, quel suo passare dal movimento al niente. Mi fa paura il suo corpo inerte. Mi fa paura quel silenzio. Capisco com’è facile morire in montagna, se è successo proprio a lui, a Guido Machetto. Non so se mi piacerà ancora arrampicare“.
È sempre inutile andare a cercare “come” è morto un alpinista. Si potrebbe sempre rispondere: perché l’alpinismo è anche morte, anche se non è mai morte preventivata.
La morte di Guido Machetto è da considerare anche una sconfitta delle sue idee? Cosa ci suggerirebbe lui di scrivere adesso dinanzi al suo corpo disteso in questa camera mortuaria di Courmayeur?”.
Il 3 dicembre 1976 l’amico biellese e giornalista Mario Pozzo, anche lui nella lista nera di Guido a dispetto della forte precedente amicizia, mi scrisse:
“[…] Per me Messner che sale in stile alpino il G 1 non ha certo fatto il progresso che fa un qualsiasi nepalese assumendo coscienza della sua dignità e ribellandosi.
Mi è venuto in mente Messner perché ho visto proprio poche sere fa la sua proiezione sul Lothse e sul G1 che mi ha lasciato perplesso al punto di farmi dubitare sulla validità e sulla coerenza di alcune considerazioni che intendevo svolgere sulla maturazione di Machetto. Mi spiego. Mentre giudicavo una evoluzione rivoluzionaria l’idea del “commando” di Guido, ho la sensazione che il passo avanti di Messner sia tale solo da un punto di vista atletico e sportivo, mentre dal punto di vista filosofico viaggi nella direzione opposta. I dubbi sorgono constatando che comunque esistono evidenti analogie fra il G1 di Messner e il Tirich di Machetto anche se, soprattutto per il rapporto di cui dicevo prima, i due parlano un linguaggio profondamente diverso anche in termini di cultura.
Tu cosa ne pensi? Non ti stupisca questo mio improvviso farmi vivo. Mi ero staccato da tutti voi per prendere fiato e non creare nuovi imbarazzi. So che Guido aveva ristabilito con te un rapporto cordiale. Con me si era sgelato soltanto negli ultimi giorni. […].
Purtroppo il racconto della caduta del compagno fa inquietare e riflettere.Non dovrebbe mai succedere o almeno solo se si cade nello strapiombo come nelle palestre e gare di arrampicata.Li’quasi quasi si lasciano cadere con noncuranza.
Alcuni miei conoscenti mi hanno raccontato di un loro compagno caduto cercato alungoe recuperato dopo giorni.. c’era tra loro un tacito accordo autocensurante dei dettagli ,meglio non far sapere e far prevalere la pietas.Per i soccorritori spesso e’un grave fardello da sopportare..
se è per quello oltre alle gitine scialpinistiche , nei ricordi c’è rimasta anche la veronese….
Anch’io ho iniziato al CAI di Modena come il buon Fabio, anzi poco tempo prima in modo indipendente con amici che avevano già iniziato, ma quando lo feci io si era già superato il fossato: le mie prime scarpe (anni 80) erano un paio di Boreal a collo alto… Bei tempi
Bellissimo racconto comunque, mi dovro’ decidere prima o poi a comprare un libro del Capo 😉
Curioso che nei ricordi (45ennasli circa) di un alpinista “impegnato” a siano rimaste tre scialpinistiche da 900-1000 m D+, come Bric Paglie, Bieteron e Saurel+Gimont. Roba da tranquillini. Le tutine di oggi, gli impegnati odierni, i “No Limits men” che si eccitano solo con cose nuove, estreme, esasperate, dovrebbero riflettere sul fatto che la montagna può lasciar traccia emotiva e mentale a prescindere dalle sue connotazioni tecniche e atletiche. Buona giornata a tutti!
Al CAI di Modena le prime pedule da arrampicata a suola liscia furono chiamate le «muoripresto» dai miei istruttori.
Influenzato da un appellativo cosí inquietante, io, giovane alpinista ligio agli insegnamenti e ai giudizi di chi sapeva piú di me, per diversi anni continuai ad arrampicare con la suola rigida Vibram, persino sulla calcarenite della Pietra di Bismantova.
Chissa’se e’ stato scritto qualcosa sulle esperienze di”passaggio” da pedule e scarponi di cuoio spesso a suola rigida con lamina in acciaio e le scarpette a suola liscia gommosa.Ne devono essere capitate di tutti i colori, compresi incidenti piu’o meno gravi. In val di Fiemme e Fassa alcuni alpinisti con palmares di prestigio della zona le usavano come scarpe da passeggio per dare la forma , riforniti a prezzo di costo da famosa ditta calzaturiera locale : poi avvene la diffusione seriale con altri collaudatori-agenti promotori- consiglieri tecnici.
In un Negozio di Predazzo un abile confezionatore di-selle per cavalli e cinture con campanaccio per mucche, aveva pure l’angolo di attrezzature alpinistiche e sciistiche mescolate alla rinfusa. .Pure su uno scaffale polveroso e ragnatelato alcune pedule mai usate dalla suola di feltro, alla Comici, ma alla richiesta non le vendeva, le teneva per ricordo.Almeno vendeva le ultime giacche a vento di tela antistrappo firmate Desmaison..con cartellino prezzo di 10 anni prima insensibile all’inflazione…una pacchia . Teneva fasci di sci accoppiati con spago Kazama giapponesi che nessuno voleva e pure scaponi sci di cuoio nero con lacci e solo due ganci al gambaletto…scatole di attacchi Silvretta a cavo e pelli di vera foca con serie di inghiette, il tutto con ragantele,polvere del tempo o pelverino di cuoio.
Allora rocciatori FFGG e guide “Aquile ” usavano ancora sicurezza a spalla nelle esibizioni pro turisti alla palestrina di-roccia al Passo Rolle.
Le ferrate si affrontavano con cordino a 8mm e un solo moschettone e senza caschetto.Molti miracoli con ex voto per grazia ricevuta.
Apparvero nella rivista del CAi anni 76-77 articoli sui freni dissipatori a 6 buchi e sulla sicura dinamica all’italiana.
Nelle compagnie serali in birreria e pizzeria della Val di Fiemme e Fassa o incontri casuali ci venivano presentati Rocciatori Fiamme Oro o GDF. Dopo un solo primo incontro con stretta di mano e successiva casalinga spalmata di pomata all’arnica, decidemmo ,noi solo umili dilettanti scalatorini per caso , di dare solo una pacca sul braccio ed evitare stritolamenti.
Precauzione utile quando si scendeva per qualche serata al festival del Cinema di Trento..e c’era sempre qualcuno che ci presentava a guru famosi.Meglio la paccao il piu’figo saluto a mani giunte alla buddista o tibetana detto Namaste’.