In Ladakh per la seconda volta

Metadiario – 68 – In Ladakh per la seconda volta (AG 1976-002)

Non ricordo assolutamente nulla di quel 2 giugno 1976 quando andai a scalare sul Nibbio, in Grignetta, con Aldo Anghileri. Ci facemmo la via Comici, una via che conoscevamo a memoria, sempre un piacere farla a dispetto dell’allenamento inesistente. Evidentemente non ero proprio da buttare via, infatti qualche giorno dopo, il 6 giugno, ero nella valle del Piantonetto a salire una combinazione di due vie sullo Scoglio di Mróz, via della Torre Staccata + via Grassi. Assieme a me erano Marco Preti, Piero Ravà, Raffaele Lele Dinoia e Roberto Bonelli.

Statua buddhista all’ingresso del Ladakh
Monastero di Thiksay, Ladakh

Le mie frequentazioni torinesi mi avevano avvicinato a Roberto Bonelli, tanto in apparenza cinico quanto nobile di cuore. Indimenticabili le notti passate a casa sua, a Torino, in via Airasca 4, in un bilocale che lui aveva in affitto al secondo piano con il cesso in comune con altre famiglie. Accanto al suo alloggio era quello gemello del grande speleologo Giovanni Badino (evidentemente avevano fatto assieme l’affarone di andare ad abitare là). La casa di Badino era tenuta come un gioiello, con tanto di camino costruito andando a rubare alcune traversine dei binari di chissà quale linea ferroviaria, invece quella di Bonelli era una schifezza che lui viveva come una punizione. Così “provvisoria” da non essere neppure considerata reale. Inutile dire che il lavandino della cucina fungeva anche da cesso, per tutte le funzioni… ed è superfluo dire che anche io mi adeguai alla situazione, pur di non dover andare a far visita alla latrina condominiale. Ma comunque non si stava male in sua compagnia, anche se ci sarebbe molto da dire sulle sue abitudini alimentari, tipo quella volta che per cena mi preparò un’insalata d’aglio: solo olio, sale… e aglio.

Ladakh

Il 13 giugno andammo con Roberto e l’amico americano Roy Kliegfield in Valle dell’Orco. Tentammo una via nuova sul Sergent, interrotta per mancanza di materiale adeguato: e non ricordo più dove lo facemmo quel tentativo. Ci consolammo a fine pomeriggio salendo la Lost Arrow.

Il 20 giugno partii alla volta dell’Afghanistan con l’amico Angelo Recalcati, conosciuto il 22 marzo in una libreria di remainder in corso Buenos Aires, a Milano. Cercavo libri di montagna, mi si avvicinò quel tipo strano e sorridente e mi disse “Qui non c’è nulla, credimi”. Mi aveva riconosciuto e pensava, come in effetti era, che io stessi cercando libri di montagna. Mi chiese anche se volevo qualcosa in particolare, gli risposi d’impulso Santi e briganti del Tibet ignoto di Giuseppe Tucci. Subito mi diede la notizia che ce n’era una copia nella bancarella di Largo Augusto e che il costo era di 10.000 lire. Dalla libreria andammo col mio pulmino Volkswagen in largo Augusto alla bancarella per acquistare la copia del libro di Tucci. Recalcati mi ha recentemente ricordato che guidavo come un matto e alle sue rimostranze affermavo che non avevo ancora perso le abitudini di guidare come in Asia da dove ero appena tornato. Quindi l’ho portato a casa in via Volta dove per ringraziarlo gli ho donato due mie guide pubblicate da Tamari, acquisizione che Angelo ha registrato con precisione sul suo quaderno-catalogo, da cui la registrazione della data… Non sapevo ancora che Angelo conosceva tutte le librerie dell’usato e antiquarie d’Europa. Questo era già allora, a trent’anni, il suo mestiere e lo è ancora oggi.

Nel frattempo io avevo anche conosciuto un parente del mio assicuratore, un appassionato di punte di freccia in pietra di selce. Proprietario di un Ford nuovo di zecca, voleva a tutti i costi andare con un amico in Afghanistan, dove sapeva di poter trovare tanti esemplari per la sua collezione. Mi proposi di far loro da guida, imponendo anche la presenza di Angelo.

Purtroppo non eravamo neppure arrivati a Belgrado che già io avevo compreso di aver fatto un grosso errore. I due signori, che avevano il doppio della nostra età, avevano una mentalità che definire fascista era insufficiente. Evitai lo scontro, ma dentro di me cercai il modo di defilarmi. Angelo non era mai stato in Afghanistan, lui poteva anche sopportare. A Thessaloniki feci finta di fare una telefonata, in seguito alla quale mi feci lasciare in aeroporto, con la scusa che mio padre stava male. Passai la notte all’addiaccio nei pressi dell’aeroporto di Atene e la mattina del 22 giugno arrivai a Linate.

Il 26 giugno altro tentativo di via nuova, questa volta sulla Parete dei Militi, in Valle Stretta, con Bonelli, Andrea Gobetti e Walter Fulgione. Concludemmo l’avventura con una ritirata e ci fu una notte in tenda preceduta da una sera accanto al fuoco e ricca di libagioni alcoliche. Tanto che il giorno dopo ci limitammo a salire con molta modestia lo Spigolo Grigio (e Bonelli non era neppure della partita…).

Leh (Ladakh), agosto 1976
Tenzing Norgay con un monaco, Ladakh, agosto 1976

Ma il lavoro mi prendeva sempre assai. Non potei fare più nulla fino alla partenza per il Ladakh, il 25 luglio, con un gruppo di Beppe Tenti e fortunatamente anche con Nella. La compagnia era assai selezionata, tutte persone davvero interessate alla cultura tibetana. Lodovico Sella e signora, ma anche gli amici Alessandro e Tiziana Giorgetta. Con l’esperienza fatta l’anno precedente andammo via sul sicuro, portando i nostri amici a vedere le cose più belle. Ci fu anche il fortuito incontro nientemeno che con Tenzing Norgay, lo sherpa primo salitore dell’Everest: era guida di un gruppetto di inglesi, reclutati dalla sua organizzazione trekking di Darjeeling. Fu davvero piacevole salire con lui a uno dei monasteri più nascosti, Rizong. Anche per lui era la prima volta in Ladack. Ci salutammo con la ferma intenzione di risentirci e di organizzare un prossimo viaggio nel Sikkim, che secondo lui stava per riaprire le frontiere ai non indiani.
Nel 1982 scrivevo queste note per il mio libro La parete, nel cercare di riassumere un po’ quell’estate 1976.

Alessandro e Nella assieme a Tenzing Norgay, Rizong, Ladakh, agosto 1976

La Parete dei Militi
“Nei giovani è la forza, negli anziani la prudenza (Aristotele, Etica)”.
«Soldato semplice arruolato in due eserciti nemici, orientavo la mia sopravvivenza con le astuzie del mestiere. Più che altro accondiscende­vo alle richieste di alcuni amici che, chissà perché, mi volevano con loro. Roberto Bonelli, ancora sofferente di disturbi al fegato per le troppe pastiglie ingerite in tempo militare, era il trascinatore. Andrea Gobetti, in licenza malattia dal militare perché aveva un dito massa­crato: non aveva alcuna intenzione di curarselo e accarezzava progetti di invalidità a vita. Walter Fulgione, lottacontinuista studente di fisi­ca, forse il più a posto della compagnia, non aveva molta esperienza di arrampicate e mi era molto simpatico. Piccolo e veloce, era sempre entusiasta di tutto. Era la terza volta che visitavo la parete e di gran lunga rimpiangevo i tempi passati. Subito ci buttammo su una via nuova intravista dal diabolico Roberto, che presto si rivelò essere un rischiosissimo e problematico piantar chiodi a ripetizione in una roccia marcia e ostile. Sinceramente ne avevo abbastanza di quei giochi e volentieri li lasciavo a gente più battagliera. Dopo una lunghezza, la ritirata fu generale e inevitabile, considerati i 240 metri che restavano. Il pomeriggio era avanzato, faceva caldo, era domenica e la gente se ne andava dalla valle. Decidemmo di prepararci da mangiare e da bere in pace, ma Gobetti non era in condizioni di vivere in pace e fu una serata assai movimentata. La notte fu agitata e fui molto inquieto, come da molto tempo non ero più. Qualche presentimento? La mia schiena non doleva ma io mi sentivo debole, indifeso, nessuna scorza mi proteggeva più. Solo il ricordo di sedici anni di attività alpinistica mi impediva di tremare di paura.

Nella in salita al Resegone, 8 dicembre 1976

Il mattino dopo Roberto si alzò svogliatamente e decise di non arrampicare. Io mi mossi in prevalenza per far piacere a Walter, non certo per compiacere Andrea, il cui comportamento cominciava ad essermi sgradito. In tre andammo alla base dello Spigolo Grigio, la più classica salita della parete, non difficile, ma neppure banale. Comun­que un’arrampicata esposta. Avevo gli scarponi rigidi, i miei compagni volteggiavano dietro di me, leggeri, agili. Forse avevano dormito meglio di me. Forse erano semplicemente più giovani, quindi più forti.

Alessandro in salita al Resegone, 8 dicembre 1976

Ero arrivato alla resa dei conti, lo sapevo: su quella traversata esposta ebbi paura come poche altre volte. Ma la qualità della paura emergeva nella massa dei ricordi, perché la ragione mi diceva che da quegli appigli e da quegli appoggi non sarei mai caduto: erano troppo grossi, solo un infarto avrebbe potuto staccarmi da lì. E tale era la forza con cui mi avvinghiavo alla roccia che faticavo a spostarmi, un qualsiasi movimento doveva essere preceduto da apposita opera di persuasione interiore. Andrea e Walter non dicevano nulla, non osa­vano dire all’«accademico» che forse era meglio che andassero loro davanti. Quasi alla fine di quella penosa ascensione mi aspettava l’ultimo e più ostico gradino, solcato da un evidente diedro fessurato sul fondo. Un passaggio a dir la verità ben protetto da due chiodi, o uno, non ricordo bene. So solo che l’occhio esperto vide subito traccia di ripetuta chiodatura in un ben preciso posto della fessura, guarda caso proprio in corrispondenza della mano tesa in alto… C’è una specie di codice di disonore che impedisce di chiodare là dove i «locali» ne fanno a meno. Un leggero venticello stormiva sulle pareti del diedrino ancora in ombra. Il mio corpo era al sole, la valle era solitaria e muta.

Nella in salita al Resegone, 8 dicembre 1976

Quasi meccanicamente estrassi il chiodo della misura giusta, lo inserii nella fessura e, senza martellarlo, mi ci appesi per fare il passaggio. Ormai con una mano saldamente bloccata al di sopra del muro, con la mano non impegnata silenziosamente recuperai il chiodo complice. Non dissi nulla agli amici, se non che mi ero trovato molto male e che per tutta l’estate non avrei più arrampicato. E quando si mette in conto un’estate, non si sa mai dove si va a finire. Pini rinsecchiti, abeti scheletrici, pietraie immani di Valle Stretta mi siete testimoni che ho mentito e che il peso di questa piccola menzogna ricadde su di me decuplicato. In agosto arrancavo su altre pietraie, quelle dei monasteri tibetani del Ladakh: sentivo le gambe pesanti, la mente ingombra. Ero teso e spiavo ogni minima inquietudine dei clienti, con l’unico scopo di caricarmi anche dei loro fardelli. Tenzing Norgay sorrideva, sapeva che io la più alta montagna del mondo non l’avevo ancora salita».

Rifugio Azzoni, vetta del Resegone, 8 dicembre 1976

Tra le mie peregrinazioni torinesi trovavo anche il tempo di non trascurare gli amici milanesi, come quando il 4 settembre andammo a scalare sul Sasso Remenno. Con Nella e con me erano Bonelli, Ivan Guerini ed Ettore Pagani con la moglie Mary. Stessa cosa il giorno dopo, una vera abbuffata di massi e di sassismo, con Guerini che ci illustrava ogni passaggio, con i mille nomi di sua invenzione. Il 6 settembre, stufo di spellarmi le dita sul granito dei sassi, salii con Nella fino al bivacco Manzi. Quando, dopo la lunga marcia in un pomeriggio torrido, arrivammo al bivacco, l’unica contenta per gli odori che vi regnavano era la Skippy, che davvero non credeva al suo naso… Avevamo in programma di dormire lì, ma non se ne parlò neppure e in fretta e furia tornammo a valle…

Dopo l’Annapurna quasi non avevo più visto Vasco Taldo, che ai miei occhi era ed era rimasto il “gigante buono”. Il 10 settembre, assieme, scalammo la via Boga alla Corna di Medale.

Panorama verso Grignetta e Grignone dalla vetta del Resegone, 8 dicembre 1976

I miei suoceri avevano in affitto una casa a Dolonne (Courmayeur), perciò ogni tanto ci andavamo. Ricordo che il 16 settembre salii con Alessandro Giorgetta e Giorgio Mallucci una non meglio identificata via n. 9 al Mont Chétif, in mancanza di altre mete possibili. Forse il tempo non era buono, forse era ancora fuori discussione fare alpinismo nel Monte Bianco… Di fatto mi limitai a salire con Nella e Tiziana Giorgetta al bivacco Estellette, il 19 settembre.

E passato anche quel mese il lavoro riprese a un ritmo anche maggiore. Sembrava proprio che per me per l’alpinismo di un certo tipo non ci fosse più spazio.

12 dicembre 1976. Tiziana Weiss sulla Parete Bianca (Val Rosandra)

Emanuele Cassarà aveva organizzato con Tuttosport il 1° Convegno Nazionale sull’Alpinismo moderno. L’incontro, davvero allargato alla “crema” degli alpinisti italiani, si tenne a Torino il 27 novembre. In qualche modo ero venuto a sapere che la mitica Tiziana Weiss sarebbe arrivata da Trieste con il treno verso le 16.30. Visto che l’avevo conosciuta per caso quando ero andato dalle sue parti nel Carso a fare una conferenza, decisi d’impulso di andare a prenderla alla stazione ferroviaria di Porta Nuova. Quella sorpresa non le dispiacque, la sera eravamo in collina nella casa di Gobetti, dove per l’occasione il vino scorreva a fiumi.

L’8 dicembre, approfittando di una nevicata notturna, con Nella feci una bellissima gita al Resegone, con partenza da Morterone.

L’anno si chiuse con una sporadica uscita triestina. Cogliendo l’occasione di una serata che dovevo tenere a Udine, tornammo a rivederci con Tiziana: il 12 dicembre scalammo assieme in val Rosandra, dove non ero mai stato. Con lei e Piero Mozzi salii la Parete Bianca, la via delle Ballerine e la via Comici al Montasio.

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In Ladakh per la seconda volta ultima modifica: 2021-03-26T05:49:00+01:00 da GognaBlog

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3 pensieri su “In Ladakh per la seconda volta”

  1. Solo il ricordo di sedici anni di attività alpinistica mi impediva di tremare di paura.

    è dura provare queste sensazioni.

  2. Giovanni Badino fu mio professore di Fisica 1 all’Università di Torino vent’anni fa. Con il senno di poi, penso che il suo sia stato uno dei corsi più belli cha abbia seguito, anche se all’epoca facevo un pò fatica a seguirlo per l’approccio poco formale che da studente di matematica abituato ad un argomentare molto rigido mi spiazzava. Con noi studenti era esigente e molto ironico. Portava sempre vestiti tecnici della stessa marca e i sandali, anche in pieno inverno. Fin da subito, circolò la voce che era un grande speleologo e esploratore e per noi diventò una specie di rockstar. Mi è molto dispiaciuto sapere che è mancato qualche anno fa. 

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