Metadiario – 73 – La Gufite (AG 1978-001)
Anche nei primi cinque mesi del 1978 continuai a vivere in bilico tra lavoro, passione per montagna/arrampicata e conflittuale desiderio di non fare eccessiva azione, per favorire quella che ritenevo a quel punto la mia missione: trovare la mia vera strada. Senza distrazioni.
Intanto il 19 febbraio, dopo una forte nevicata, mi ritrovai con tanti amici a salire con gli sci sul non pericoloso costone meridionale della Cima del Costone fino al Monte San Primo, nel Triangolo Lariano. Peccato che nessuno di noi riuscì a vedere al di là di 5-6 metri per tutto il giorno… C’erano Nella, sua sorella Marina Antonioli, Ernesto Fabbri (sì, il famoso Mandrillo), sua figlia Cristina Fabbri, il suo spasimante Vittorio Tamagni, Angelo Recalcati, Michele Radici, Alberto Bianchi (l’ingegnere) e Walter Gandini. Gruppo assai eterogeneo che a fine pomeriggio produsse una chiassosa merenda da qualche parte che non ricordo.
Come grossa novità, il 1978 aveva visto anche l’accordo con Oliviero Frachey per l’affitto di una casetta isolata nel bosco non distante dal centro di Champoluc: le Fate Nere. Quella costruzione, oggi distrutta da un incendio, ha significato molto per me e per Nella. Molto spartana, ma dotata di riscaldamento e di telefono, non riuscimmo mai a sfruttarla come avremmo voluto. Ah, se allora ci fosse stato internet…!
Il 25 marzo Oliviero Frachey ci portò in sci in una classica gita, con pochissima salita e tanta resa: la traversata da Champoluc a Gressoney per il Colletto del Rothorn. C’erano Nella, Anna e Alessandro Carones, Luca Balzarini e altri sei che non conoscevo. Nella discesa in Valle del Lys ci fu un piccolo smottamento di neve che coinvolse, senza alcuna conseguenza, due di noi: era dovuto al fatto che stavamo passando proprio sopra un pendio che d’estate è sempre ruscellato da abbondante acqua. Il 16 aprile ospitai alle Fate Nere l’amico Angelo Recalcati e assieme andammo alla Punta Perrin 2974 m, per il Colle Perrin 2655 m e il Colletto 2850 m. Il giorno dopo con Nella salimmo da sud alla Punta Bettaforca 2971 m. Stavamo prendendo confidenza con le tante possibilità scialpinistiche della Valle d’Ayas.
Quanto ad arrampicare timidamente riprovai sul Torrione del Realba (Lago di Lecco). Il 4 maggio, con Cristina e Cesare Cesabianchi, assieme anche a Piero Ravà, salimmo la parete ovest. Subito dopo lo risalimmo per la Paretina, con la fessura in Dülfer. E poi ancora per lo Spigolo Nord-ovest.
Lo sgrezzamento sul Torrione Realba permise a Piero e a me di salire il 7 maggio la via Taveggia alla Corna di Medale: una salita da tutti considerata “di allenamento”, ma bella “unta” e non certo così facile. A parte che allora non si voleva provare la libera a tutti i costi. La provavamo solo se si vedeva una qualche possibilità di riuscirci…
L’11 maggio, con Cesare andammo ancora in Valle dell’Orco, sul Caporal, a cimentarci con la Via dei Tempi Moderni. Per dire quanto eravamo bolsi, basterà citare il tempo impiegato: otto ore! Ricordo solo un gran ravanare di entrambi…
Certamente mi trovai assai meglio qualche giorno dopo, il 13 maggio, quando portai Francesco Malerba (uno degli amici che era venuto con noi in Sikkim) a scalare per la sua prima volta: la via Miguel a Monte Cucco fu per lui abbastanza un calvario. Basta dire che a un certo punto lanciò un urlo strozzato: gli era “uscita la spalla”. In qualche modo riuscii a farlo arrivare in sosta dove lui, da buon ortopedico, si rimise a posto da solo! Per quel giorno Francesco ne ebbe abbastanza e preferì fare turismo con la moglie Lidia e con Anna Carones. Io, fermo a Monte Cucco, andai con Piero Ravà a fare la Supervit e con Roberto Bonelli la via dell’Alpino. Dopo un’allegra serata tutti assieme, il giorno dopo andammo a Rocca di Perti: aiutato dal Piero, feci scalare Francesco, Lidia e Anna sulla via Simonetta. Quindi con il solo Piero andammo a fare la Via del Vecchio.
Nel nostro neonato lavoro di imprenditori del trekking, Nella ed io ci davamo da fare anche come accompagnatori sulle nostre Alpi: non facevamo molta pubblicità, sapendo benissimo di essere abusivi, ma in ogni caso cercavamo di organizzare. Del resto non esisteva ancora la Legge 6/1989, dunque erano tanti quelli che si arrangiavano e rubavano mestiere alle guide alpine. L’unico gruppo che riuscimmo però a mettere assieme fu con dei bresciani: andammo per fare la Haute Route sciistica Sass-Fee/Arolla. Il 18 maggio, dopo aver preso la funivia, salimmo all’Allalinhorn per la via normale (Feejoch). Una giornata stupenda. Il gruppo era composto da Ugo Fumagalli, Bruno Zanardelli, Gian Piero Pasina e Vincenzo Ricci (questo arrivò solo fino al Feejoch). Il giorno dopo la notte alla Britanniahütte, effettuammo la meravigliosa traversata su Zermatt passando per l’Adlerpass, il valico tra il Rimpfischhorn e lo Strahlhorn. La discesa su Zermatt per l’Adlergletscher e il Findelgletscher ci si apriva davanti e fu memorabile, su neve primaverile e perfetta. Ci eravamo guadagnati una gloriosa giornata, chiusa poi a Zermatt da una mangiata e una dormita storiche.
Il giorno dopo ci fu la salita alla Schönbielhütte, fatta con comodo ammirando il Cervino. Ma già alla sera le previsioni non erano più buone; il mattino dopo salimmo con tempo minaccioso fino al Col de Valpelline. Lì incominciò a nevicare fitto e tutte le comitive decisero di tornare alla Schönbielhütte: nella discesa il nostro gruppo era il primo a cercare quasi alla cieca di ritrovare le nostre piste ormai invisibili. Dietro scendeva una trentina di persone, che al rifugio ci offrirono da bere.
Il 27 maggio 1978 è la giornata dell’Orrido di Foresto: fu uno di quei giorni in cui davvero ci si poteva aspettare di tutto, sospesi tra realtà e sogno.
Il Gufo di Foresto
“Mefistofele: … Che fai qui nascosto
nei crepacci del monte e delle tane
come un misero gufo?
E di’! Qual manna
suggere credi tu dalle stillanti
rocce e dai muschi imputriditi?… (Goethe, Faust I)”.
L’Orrido di Foresto è una scura forra calcarea probabilmente mai illuminata dal sole. Per la sua comodità è abbastanza frequentato dai torinesi ed offre un cospicuo numero di arrampicate di forte difficoltà. Una volta sulla parete c’era solo un itinerario, la via della Fessura Obliqua: oggi almeno altre cinque direttive superano quel sinistro risalto. Si dice che sia abitato da misteriosi nani verdi che talvolta giocano brutti scherzi a chi s’avventura in arrampicata e, visto che siamo già in piena leggenda, non può non essere citato uno strano ornino con l’ombrello che s’aggirava sempre nei paraggi, tanto che Roberto Bonelli lo vedeva ogni volta, sempre con l’ombrello anche se splendeva il sole. Io non ci credevo e badavo a stare sui dati positivi. Al massimo rilevavo in me stesso una latente avversione per quei cento metri di roccia, strapiombanti e minacciosi. Marco Lanzavecchia condivideva le stesse sensazioni, ancora di più dopo che quel giorno avemmo una brutta avventura sulla via dei Tetti. Era il maggio 1978. Roberto era l’esperto del luogo, per lui l’orrido non aveva segreti. Sogghignava quando uno di noi era in difficoltà: anche se lo faceva per cattiveria, non gliene volevamo. Non ero molto in forma e continuavo a vedere scheletri danzare sulla parete, però volli ugualmente salire la via del Gufo. La prima lunghezza non era difficile e abbastanza rinfrancato, senza pensarci troppo, mi buttai sulla seconda. Quei trenta metri non riservavano nulla di speciale, c’erano i chiodi giusti e gli appigli erano distanziati ma buoni. Il corpo sempre in strapiombo. Non ero neppure eccessivamente stanco quando superai l’ultimo passaggio faticoso e approdai su una bella cengia confortevole ma sovrastata da altri incombenti e stomachevoli strapiombi. Urlai agli altri di venire, poi mi accoccolai recuperando le corde.
Stavo male, tremavo con attacchi di vomito. Lo scroscio del torrente di sotto mi rimbombava negli occhi e l’eco degli strapiombi mi turbinava nei timpani. Videro i miei sudori freddi. «Gogna ha la “gufite”, un attacco di gufite ha colpito l’Accademico», gioiva Bonelli con grazioso sghignazzamento.
Pregavo qualcuno di andare avanti, ché io avrei seguito in qualche maniera. Sui prati sommitali mi sdraiai cinque minuti, senza successo tentavo di non sentire le feroci provocazioni degli altri. Finalmente scendemmo in basso. Prima di salire in macchina bruciai a sua insaputa le calze di Marco per non morire asfissiato alla guida. E mentre l’allegro falò scoppiettava, vidi apparire dietro l’angolo di una casa l’ornino con l’ombrello. Mi guardò senza vedere il fuoco, poi scomparve.
Arrampico con Gian Piero Motti, mio Maestro, sulla via della Fessura Obliqua, all’Orrido di Foresto. Non so come ci siamo ritrovati qui, alla base della tetra parete. Guardando bene mi accorgo che non è proprio l’Orrido che mi ricordavo, nel frattempo qualcosa era cambiato, ma non è nel mio stile far troppe domande al Maestro. Forse è perché non mi va di non ricevere risposta. Gian Piero sale per primo, slegato, con estrema naturalezza; io lo seguo bene ma non altrettanto, sono un po’ più titubante. Sono incerto specialmente perché ho timore dell’ultimo tratto, una traversata che chissà quanto tempo prima avevo già fatto, difficile e molto esposta, sotto il tetto finale. Ho sempre avuto paura delle fini e mai degli inizi, da piccolo mangiavo i pasticcini con estrema lentezza perché avevo paura del momento in cui non ne avrei avuti più.
Sempre arrampicando di buona lena, ci ritroviamo in cima, in mezzo al bosco e alle radure, con mia grande sorpresa di non aver incontrato il temuto «mauvais pas». Cedo alla curiosità e chiedo che mi venga mostrato. Allora Gian Piero senza una parola comincia la ricerca. Si aggira a destra e a sinistra, ma non è più molto sicuro. Sono sbalordito che un esperto come lui, conoscitore di questi luoghi, non si ricordi dove diavolo è quel passaggio. Qui finisce la mia via o qui finisce la parte di via al seguito del Maestro? Ci raggiunge un amico, appena sgrezzato nei confini labili della tenue rappresentazione. Lo salutiamo, si chiama Claudio Persico, detto la «bestia».
Aggirandoci nel bosco arriviamo ad una casa abitata. I due proprietari, marito e moglie, con parole dure c’impediscono di arrampicare sul muro esterno, dove però si vedono tracce di precedenti pedate e addirittura tracce di carbonato di magnesio. Dev’essere un classico passaggio, di quelli parecchio alla moda, naturalmente quando non c’è nessuno in casa. Ma non è quello che cerco io, che non è un superamento diretto ma è un’astuta traversata. Così ci trasferiamo ancora nel bosco, sempre più scuro. Claudio supera un passaggio difficile, ma non arrampica su roccia, si direbbe una struttura di manufatti, forse rifiuti industriali. Anche Gian Piero riconosce che non è quella costruzione artificiale ciò che stiamo cercando e così proseguiamo fino a trovare un mucchio disordinato di cose accatastate. Claudio vi s’impegna ma non arriva in cima, non potrebbe mai: messo piede su un cassetto instabile parte in velocità, lo fermiamo giusto in tempo prima che cada nel precipizio. In seguito la ricerca continua, ma con sempre minore ostinazione, fino alla rinuncia.
Due giorni dopo, il 29 maggio, altra giornata “torinese” con Roberto Bonelli e Marta Gobetti (sorella di Andrea). Ci spingemmo al Bec di Mea in Valgrande di Lanzo dove salimmo in tre la Via del Gran Diedro, oggi storico itinerario, uno dei primi dove si era provato, a fine anni ’60, a fare in bassa quota un’arrampicata diversa da quella di allenamento, una specie di premessa al futuro Nuovo Mattino. Il giorno dopo, con tempo troppo incerto, facemmo un tentativo, con Marco Lanzavecchia e con Roberto, alla Nicchia delle Torture (al Sergent), una bella via di fessura aperta da Isidoro Meneghin e da Giovanni Crotti l’anno precedente.
Spettacolo..! puro…Pareti fantastiche.! Solo Leggere e ammirare…..Saluti.
Certo che lussarsi una spalla e rimettersela a posto lungo la via non è da tutti. Oggi arriverebbe l’elicottero, l’ambulanza e a Monte Cucco ci sarebbe una gran litigata tra soccorso alpino, barellieri, pompieri e antincendio boschivo. Come ho visto con i miei occhi qualche anno fa.
anni 80..forse 84…85 agosto..passato per caso con compagni al rifugio Bruto Carestiato ..sopra Agordo??Mi parve, impressione di pochi secondi…ma tutti abbiamo un sosia da qualche parte…