Utilità del settimo grado (GPM 041)
di Gian Piero Motti
(da Rivista della Montagna, gennaio 1975)
Lettura: spessore-weight(2), impegno-effort(1), disimpegno-entertainment(3)
Promossa dal CAI di Belledo, si è recentemente tenuta a Lecco un’interessante tavola rotonda sul problema dell’introduzione del settimo grado nella scala delle difficoltà alpinistiche.
Davanti a un pubblico molto competente e attento, il noto alpinista lombardo Piero Ravà ha illustrato a grandi linee la questione e ha poi ceduto la parola agli alpinisti invitati a sostenere e ad animare il dibattito: Reinhold Messner di Funes, forse il più grande alpinista vivente, Aldo Anghileri di Lecco, Alessandro Gogna di Genova, Ugo Manera e Gian Piero Motti di Torino.
La pagina di apertura della Rivista della Montagna, gennaio 1975
Messner ha subito preso la parola, come d’altronde era suo diritto, avendo discusso a fondo il problema nel suo recente libro Il settimo grado. La sua relazione è stata un modello di logica e di chiarezza. In sostanza egli ha posto il problema in questi termini: la Scala Welzenbach delle difficoltà è assurda e irrazionale, in quanto va contro i più elementari principi della matematica. Quando Welzenbach formulò la scala delle difficoltà, egli disse che il sesto grado era il limite delle possibilità umane e che era rappresentato dalla via Solleder sulla parete nord-ovest del Civetta. Il controsenso è chiaro: se effettivamente il sesto grado fosse un limite, matematicamente e filosoficamente non potrebbe essere mai raggiunto. Il numero cinque potrebbe avvicinarsi sempre più al sei, raggiungere una differenza infinitesimale, ma non divenire sei. Nell’atto stesso in cui l’alpinista supera un passaggio di sesto grado inteso come limite delle possibilità umane, egli chiaramente supera questo limite per stabilirne uno successivo.
In questo senso Messner giustifica l’accusa che gli è stata mossa di graduare con il quinto e con il quinto grado superiore dei passaggi ben più difficili di quelli di sesto. La sua giustificazione non fa una grinza. Egli dice: «Se io valutassi un passaggio di sesto grado nell’attuale scala delle difficoltà, sarei evidentemente un cretino».
La sua proposta è quella di creare dunque una scala aperta e non chiusa da alcun limite. La situazione attuale è la seguente: abbiamo dei passaggi che nel periodo compreso tra il 1930 e il 1940 furono indicati come limite delle possibilità umane (erroneamente, in quanto era solamente il livello tecnico allora raggiunto) e furono graduati con il numero sei in una scala di sei gradi. Recentemente alcuni arrampicatori americani ed europei hanno nettamente superato il livello del sesto anteguerra.
In mancanza di una scala aperta all’infinito, ci si trova in una notevole confusione: da un lato si cerca, senza un criterio di uniformità, di svalutare le vecchie vie, dall’altro ci troviamo con un sesto grado che comprende praticamente ben tre gradi. Il sesto attuale, il sesto dell’anteguerra e ciò che è più difficile del sesto attuale.
Fermo restando il principio che la scala delle difficoltà è stata creata per esclusiva utilità degli alpinisti, chi oggi si accinge ad affrontare un passaggio valutato di sesto, non sa se effettivamente si troverà impegnato al limite delle sue capacità.
La proposta di Messner è quella di aprire la scala, sbloccandola dal limite (fittizio) del numero sei. Bisogna introdurre un numero sette che indichi non il limite delle possibilità umane (come qualcuno potrebbe fraintendere facilmente), ma la massima difficoltà che oggi gli arrampicatori più capaci riescono a superare.
Il grado di questa difficoltà in valore assoluto è chiaramente e decisamente superiore a quello indicato con il numero sei prima della guerra. Con questo non si vuole assolutamente sminuire la prestazione degli uomini che caratterizzarono l’epoca del sesto grado. Un paragone è quanto mai assurdo: non si può dire che Messner sia più forte di Cassin, come non si può dire che Merckx sia stato più forte di Coppi. Ognuno nell’ambito della propria epoca ha saputo esprimere il meglio. Se ci soffermiamo sul paragone o se – peggio – ci comportiamo come Welzenbach ponendo un limite definito all’attività umana, andiamo contro il processo evolutivo dell’umanità e dell’universo intero.
Oggi dunque la capacità degli arrampicatori richiede che la difficoltà superata da pochissimi venga indicata con il numero sette. Domani sarà otto, poi nove, dieci, undici… Se invece vogliamo conservare il numero sei come tetto irraggiungibile, allora dobbiamo comportarci come i californiani, che intelligentemente graduano 5,1 – 5,2 – 5,3… 5,10 – 5,11 (e non sei) fino a giungere (teoricamente) a 5,99999999999… ossia 5,9 periodico. Più semplice dunque aprire la scala per maggior chiarezza di tutti. Questa la tesi esposta da Messner. Numerosi sono stati gli interventi dei presenti: Motti ha voluto raccomandare che la discussione si svolgesse sul piano puramente tecnico, per non sconfinare in divagazioni di carattere etico sulle tendenze future dell’alpinismo. Ha tuttavia ricordato che, accanto a un alpinismo teso esasperatamente al superamento delle difficoltà, esiste e comincia ad affermarsi un nuovo alpinismo che ribalta completamente il modello idealista, alla ricerca del gioco e del piacere, negando l’importanza della meta da raggiungere, nell’ambito di una serena accettazione dei propri limiti.
La copertina della prima edizione, 1974
Anche Messner ammette l’esistenza di questo nuovo alpinismo, difficile da attuare nel mondo culturale occidentale. Pensa tuttavia che quando «l’intelligenza degli alpinisti permetterà questo modo d’arrampicare, forse basteranno le tre lunghezze di corda per essere soddisfatti».
Il tema viene riportato da Motti nel campo puramente tecnico e viene sottolineato ancora il fatto che la scala delle difficoltà non dovrebbe essere una scala di valori umani soggettivi, ma dovrebbe avere per gli alpinisti un’utilità esclusivamente pratica. Dopo altri interessanti interventi di Anghileri e di Manera, prende la parola Gogna, che si dichiara d’accordo in sostanza con Messner, ma non accetta una dilatazione della scala delle difficoltà. Gogna propone invece una “compressione”, ossia una svalutazione progressiva e aggiornata al livello di capacità attuale delle vie precedenti, sempre mantenendo il numero sei come indice di massima difficoltà superabile dagli arrampicatori più capaci del momento.
Gli si obietta che nel giro di pochi anni certe salite come la Nord delle Jorasses verrebbero valutate di quarto grado, e che logicamente il primo grado (sentieri attrezzati) richiederebbe l’uso della corda e dei chiodi (attuale terzo grado). In teoria il primo e il secondo grado attuali verrebbero indicati in una scala sotto zero, ossia -1 e -2…
Vi è inoltre un altro grave problema: la correzione di tutte le guide alpinistiche, le quali dovrebbero subire un continuo lavoro di aggiornamento. Invece, seguendo la tesi di Messner, sarebbe necessario solo aggiungere le nuove vie di settimo, ottavo e nono grado, mantenendo ferma la valutazione precedente.
È stato chiesto a Messner come si possa valutare una via di settimo. Egli ha risposto che solamente le ripetizioni sono in grado di stabilire l’effettiva veridicità delle difficoltà dichiarate dai primi salitori. Ha fatto un esempio: la via dell’Ideale sulla Marmolada, aperta da Aste quasi interamente in artificiale, se superata esclusivamente in arrampicata libera e con uso limitatissimo di chiodi (venti o trenta) attualmente è settimo grado. Chiaramente, con l’introduzione di un settimo grado, le vie che Messner ha aperto e che per rigore di logica ha valutato di quinto e quinto grado superiore, automaticamente verrebbero adeguate e salirebbero al sesto e sesto superiore.
Tutto il ragionamento è inattaccabile sul piano razionale. Tocca ora agli organi competenti prendere le decisioni in merito.
Sul tema dell’alpinismo vissuto come gioco e non come angosciosa schiavitù autodistruttiva, ritorneremo presto su queste pagine.
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tra la scala Francese e la scala UIAA esiste una comparazione. Ad esempio il 6a francese più o meno equivale al 6+ UIAA . Ma la comparazione non è così netta. La prima , secondo me , è più adatta nel valutare l’intero tiro di corda. La seconda è più precisa nel valutare il singolo passaggio. Direi che la prima è più sportiva, la seconda più alpinistica.
Non riesco a capire perché con il VI grado si fosse convinti di avere raggiunto il limite delle possibilità. Possibile che gli arrampicatori di allora non si rendessero conto che c’erano difficoltà che andavano oltre? Non credo. Forse c’era solo bisogno che arrivasse qualcuno che desse il via alla discussione e che chiarisse la differenza tra artificiale e libera. Che forse non era poi così chiara e definita.
Per altri alpinisti poi questo “problema” era di poco valore. Ad esempio ad un Bonatti non credo che interessasse molto sapere se aveva fatto del VI e o del VII . Penso che a lui, ma anche ad altri (Desmaison) interessasse più la dimensione avventurosa, esplorativa, della scalata. salire la parete più difficile per l’itinerario più facile. Magari da soli, e anche d’inverno. Questo era lo scopo. Sapere se quello che avevano fatto era VI oppure VII penso che fosse un dettaglio trascurabile.
Non credo che Gogna volesse riaprire discussioni sulla scala di difficolta’. Come e’ d’usanza su queste pagine, ha riproposto un documento che testimonia il processo storico che ci ha preceduto. E’ interessante leggere che per via della scala chiusa, il sesto grado abbracciava un ventaglio di difficolta’ sempre piu’ ampio e disperdeva la propria funzione indicativa per i ripetitori. Pure i gradi piu’ bassi ne risultavano compressi. La reticenza nell’aprire la scala era principalmente dovuta alla convinzione di essere arrivati al “limite delle possibilita’ umane” per quanto riguarda le capacita’ dell’arrampicata. La successiva, piu’ chiara definizione dell’etica della libera e l’arrampicata sportiva hanno poi alzato ampiamente verso l’alto il livello del “possibile”. L’attuale scala UIAA e’ stata aperta negli anni 80. Nel Frankenjura e’ tutt’ora utilizzata e non sono poche le vie di grado XI ( 9a francese ).
il VII grado non è un numero ma un simbolo.
la scala aperta non è quella francese e basta. C’è anche la scala UIAA. Dove appunto si parla di VII grado e via così.
Per me il VII grado non è solamente una misura puramente tecnica e oggettiva. E’ qualcosa che va oltre il limite che ci poniamo. Quindi si rinnova ogni volta che superiamo un certo limite e ne troviamo un’altro.
Da noi la scala Welzembach é stata bandita negli anni settanta. Si é adottato la scala aperta alla Francese, non si é mai parlato di settimo grado, qui nessuno conosce il settimo grado, io stesso non so cosa vuol dire, eppure ho superato i settanta anni. Non capisco perché si aprono delle discussioni chiuse ormai da cinquanta anni.
Saluti, LUIGI
Sei sono i “gradi” per raggiungere la beatitudine (la nostra religione) e Willo li ha presi per metterli santamente anche nell’arrampicata.
Poi nei ’70, anatema, si è introdotto il settimo, che ancor oggi pochi son capaci di fare.
Ma ora ci sono vie di ottavo e di nono e nello sportivo si va oltre.
E come sempre quelli che riescono a salirle sono molto pochi, mentre tutti gli altri che non ci riescono per niente ne discutono.
Legata alla questione dell’estensione o meno della scala Walzenbach c’è quella dell’oggettività o della comunicazione.
Tendenzialmente l’indicazione di un certo grado di difficoltà è letto come un’informazione definitiva: tutta la verità che deriva dal principio della realtà nella relazione si perde sotto i colpi del razionalismo, che invece prevede una realtà oggettiva, uguale per tutti.
Un po’ come quando ci si lamenta delle previmeteo sbagliate, fenomeno forse in recessione. Le previsioni sarebbero da intendere come la miglior indicazione di tendenza, non come un dato che si verificherà. Le relazioni tra masse umide, venti, rotazione, basse e alte pressioni, temperature possono avere uno spettro assai più ampio di quanto possa starci in un algoritmo o in un’equazione. Ugualmente per l’andamento della borsa e in generale per tuti i fenomeni umorali.
Insieme alla realtà nella relazione, che concepisce il variare della realtà relativamente al nostro, ce ne sono altri due che hanno ragione d’essere considerati:
È il terreno che dice la verità; l’esperienza non è trasmissibile.
Il primo allude e conferma che la scala non può che essere un’indicazione qualunque, che non può avere pretese – offerte o lette – di oggettività. Una considerazione che conduce velocemente a una specie di paradosso. Ovvero che la migliore informazione per noi in merito alla difficoltà di una certa salita, non è quella fornita dalla Scala, aperta o chiusa, cioè dalla presunta miglior fonte possibile, ma da dal nostro compagno di cordata, di colui che ci conosce, che sa come scaliamo, sa il nostro temperamento, motivazione, caratteristiche varie. E conosce la via che si pensa di salire. Sarà la sua indicazione la più attendibile per noi. Ovvero la più lontana e soggettiva dalla Scala, cioè da quella considerata ufficiale e di riferimento egemone. È il terreno che dice la verità significa infine che la nostra disponibilità motoria si esprimerà al meglio, interpreterà al meglio la difficoltà, in modo direttamente proporzionale a quanto ascolterà il terreno piuttosto che pensare, credere sia facile o difficile riferendosi alla Scala.
L’esperienza non è trasmissibile, ha a che vedere con le ultime righe qui sopra. Basta provare a mettere a confronto la sclata di aderenza con strapiombi e incastri per comprendere il conflitto che scaturisce dall’accredito definitivo di un dato, quello offerto dalla Scala. In funzione della mia esperienza una certa salita è più o meno facile/difficile. Anche all’interno della stessa tipologia di scalata: aderenza, strapiombo, incastro, ecc.
La miglior informazione/utilità della Scala è nascosta sotto il mantello di Verità con la quale spesso è stata considerata.