Una seria riflessione sull’utilizzo delle terre alte
di Sandro Moiso
(pubblicato su carmillaonline.com il )
Riflessioni in merito a Inverno liquido. La crisi climatica, le terre alte e la fine della stagione dello sci di massa, di Maurizio Dematteis e Michele Nardelli, con una prefazione di Aldo Bonomi e una postfazione di Vanda Bonardo, DeriveApprodi, Roma 2022, pp. 302, 20 euro. Vedi anche https://www.sherpa-gate.com/altrispazi/inverno-liquido-2/ e https://www.sherpa-gate.com/altrispazi/inverno-liquido/.
Quelli che seguono sono ricordi di un breve soggiorno turistico sulle Dolomiti di qualche anno fa: i pascoli arrossati e resi inutilizzabili dall’uso della neve artificiale sopra Canazei in Val di Fassa; la miriade di impianti di risalita situati tra il passo Sella e quello del Pordoi; i rifugi trasformati in alberghi di lusso, i cui ristoranti fanno a gara nell’attirare i turisti non per le escursioni a quote relativamente praticabili da quasi tutti (a patto di aver un minimo di attrezzatura adatta), ma per i menù proposti da chef variamente stellati.
Cui si aggiungono le code infinite sui sentieri, dovute, più che alla difficoltà alpinistica, all’inadeguata preparazione degli escursionisti e alla miserabile attrezzatura riscontrabile nelle scarpe da ginnastica indossate da molti o di quelle a tacco alto indossate da alcune “eleganti” signore. Il tutto condito dalle liti, sfioranti talvolta l’autentica rissa, per il posto a sedere ai tavoli dei rifugi all’ora di pranzo.
Un bel quadretto davvero di turismo alpino, sotto lo sguardo impassibile della Marmolada che quest’anno, dopo la rovinosa valanga staccatasi dal suo ghiacciaio nel luglio 2022 (che causò 11 morti tra gli alpinisti coinvolti), ha raggiunto ad agosto la temperatura di 13,3 gradi a 3343 metri di altitudine. E, soprattutto, un significativo punto di partenza per iniziare a parlare di un libro decisamente interessante, riguardante lo sfruttamento del territorio alpino in una fase di riscaldamento globale come quello che stiamo attraversando. Come afferma, infatti, nella sua prefazione Aldo Bonomi:
“Questo testo, che nel sottotitolo induce una certa idea crepuscolare dello sviluppo, è molto di più di una fotografia della lunga coda del modello di industrializzazione turistica della montagna italiana costruita intorno alo sci di massa nel corso della seconda metà del Novecento. E’, altresì, un variegato racconto polifonico, corredato da un’ampia rassegna di dati statistici, della complessa metamorfosi indotta dall’Antropocene, che ha nelle terre alpine e appenniniche uno straordinario e articolato laboratorio di una modernità costretta, causa il progressivo esaurirsi della materia prima che sosteneva le sue logiche estrattive, a fare i conti con i limiti che i cambiamenti climatici impongono alla logica degli investimenti che ne stanno alla base 1“.
Un testo che nel narrare esperienze comunitarie, storie di sfruttamento e iper-sfruttamento ambientale, fordismo turistico inizialmente soltanto alpino ma in seguito anche appenninico, intende muoversi tra il “non più” di ciò che è sempre più difficile sostenere dal punto di vista dei costi economici, sociali e ambientali e il “non ancora” della speranza di continuare a vivere nelle terre alte sulla base di una nuova coscienza più adatta ai luoghi e ai tempi.
Testimonianza di un cambiamento di paradigma di sviluppo turistico che, ancor prima che fare i conti con le modificazioni morfologiche e climatiche indotte dall’innalzarsi delle temperature, ha dovuto e deve fare i conti prima di tutto con l’affermarsi di un turismo inteso come industria globale. In cui l’apertura internazionale dei mercati e la diversificazione dell’offerta di territori e occasioni da “consumare” ha significato, come afferma ancora Bonomi: «un innalzamento progressivo dell’asticella degli investimenti infrastrutturali necessari a mantenere le posizioni acquisite, determinando una prima grande scrematura delle tante stazioni cresciute sullo sci di massa 2».
Sarà forse per questo motivo che, tra le tante narrazioni di esperienze locali proposte dal libro, siano state spesso le piccole località turistiche, come ad esempio Prali in Piemonte, a doversi porre il problema di come sopravvivere comunitariamente ai cambiamenti in atto (nei gusti, nelle proposte e dal punto di vista climatologico). Anche se il panorama delle proposte, delle resistenze e delle resilienze alpino-sciistiche si articola intorno a un panorama che si spinge dalle Alpi Occidentali a quelle Orientali, passando da Cortina e le velleità olimpiche di devastazione previste per il 2026 e, perpendicolarmente, all’asse ovest-est a quello appenninico.
Un comparto industriale che vive di innevamento artificiale in un momento in cui la ritirata o la scomparsa dei ghiacciai, piccoli e grandi, che l’alimentavano si fa via via più evidente, come ha affermato in una recente intervista Claudio Smiraglia, docente di geografia fisica all’Università di Milano e per molti anni presidente del Comitato glaciologico italiano:
“In alta quota le montagne perdono compattezza, si sgretolano, si aprono voragini. Le studio da mezzo secolo e non ricordo mutamenti così rapidi come quelli che si stanno registrando negli ultimi anni […] Gli effetti sono spesso drammatici perché ci sono sistemi di rocce tenuti saldi da due elementi. Il primo è esterno: il ghiacciaio che le sovrasta le blocca. Il secondo è interno: il permafrost, l’acqua ghiacciata penetrata all’interno delle fessure della roccia fa da collante. Con un innalzamento della temperatura come quello che stiamo sperimentando, questi due elementi di coesione spesso vengono meno […] il paesaggio cambia a velocità straordinaria. Prendiamo il ghiacciaio dei Forni, sopra Bormio, in Valtellina. Fino a due anni fa ci si arrivava tranquillamente. I turisti facevano l’ultimo mezzo chilometro passando su un tappeto di detriti e arrivavano a toccare il ghiaccio. [..] Vicino al ghiacciaio dei Forni c’è il Bivacco Meneghello, un posto in cui ho dormito tante volte. Poche settimane fa è crollato tutto il dosso roccioso che lo sosteneva. Ripeto: è l’intero paesaggio alpino a trasformarsi sotto i nostri occhi. […] Nell’arco di una trentina di anni i ghiacciai alpini sotto i 3.500 metri scompariranno se, come appare molto probabile, il ritmo di riscaldamento resterà costante o peggiorerà 3“.
Va qui ricordato, per sottolineare l’entità del cambiamento, che il ghiacciaio dei Forni, citato nell’intervista, è il secondo ghiacciaio delle Alpi italiane dopo quello dell’Adamello e che fino al 1995, prima cioè che il ghiacciaio dell’Adamello venisse riclassificato in un unico corpo glaciale, era il più grande ghiacciaio vallivo italiano e l’unico di tipo himalayano, originato da tre bacini collettori con tre lingue glaciali distinte confluenti a quota 3000 m in un’unica lingua di ablazione, che nel XIX secolo si spingeva nel fondovalle fino a quote prossime ai 2000 m.
Un tale drastico mutamento non solo spinge a considerare, come afferma ancora Muraglia nel corso della sua intervista, che: «Le regole sulla sicurezza in montagna vanno totalmente riscritte. E il problema è che non le conosciamo ancora, stiamo imparando a nostre spese: sono gli errori che insegnano. Stiamo scoprendo che comportamenti che si potevano dire sicuri fino a 10 o 20 anni fa oggi creano rischi consistenti». Ma anche a riconsiderare le possibili ricadute su tutto il settore del turismo alpino e della vita sociale sulle terre alte. Come afferma Maurizio Dematteis:
“Quando risalgo le valli alpine della mia regione, il Piemonte, mi fa male vedere la ruggine dei vecchi impianti di risalita abbandonati nei valloni laterali, tra rovina e incuria. Sono il simbolo di un turismo alpino ormai al tramonto, molto più, ad esempio, dello sci di fondo. Perché lo sci da discesa ha bisogno di infrastrutture pesanti e impattanti, per nulla adattabili ai cambiamenti di cui è da sempre soggetta la montagna. Penso che nel nostro paese ce ne sono a centinaia, piccole medie stazioni sciistiche dismesse, costruite a 1000 metri o poco più, che hanno resistito finché hanno potuto e poi sono state costrette a gettare la spugna. Anni di battaglie nell’inseguire una chimera di sviluppo insostenibile che si allontanava sempre di più, tra la diminuzione delle giornate con la neve, l’aumento delle spese e gli sciatori che svanivano. Gli sforzi per trovare sovvenzioni pubbliche, le offerte al ribasso e le costose manutenzioni che hanno fatto lievitare i debiti dei gestori degli impianti fino all’insolvenza. Perché sono proprio queste realtà figlie di un dio minore che oggi per prime fanno le spese del cambiamento «cultural-economico-ambientale», spesso lasciandosi alle spalle le macerie di un tempo che fu. Sono il simbolo di un sistema di crescita infinita che oggi è ormai al tramonto, un sogno interrotto che ha cullato e illuso le comunità delle terre alte 4“.
In questa riflessione sta un po’ tutto il senso della ricerca di una via di uscita che non può certo essere quella delle grandi stazioni di incrementare gli investimenti, “sparare” più neve artificiale e spostare gli impianti più in alto. E che, forse, non può nemmeno più essere quella di un turismo alternativo a base di trekking, mountain bike e sci di fondo.
Il “fallimento” dello sci di massa costituisce un po’ lo specchio del fallimento di un modo di produzione e di consumo obsoleto, dannoso e vorace basato sullo sfruttamento e l’estrazione di valore e ricchezza da ogni possibile risorsa (dalla forza lavoro a quelle ambientali come la terra e l’acqua). Il simbolo, paradossalmente come la strage di operai sulla linea ferroviaria a Brandizzo, di un mondo che non può più reggersi sui soliti, mortiferi e superati paradigmi della crescita economica e dello sviluppo.
Forse, ripensare le terre alte significa, soprattutto, ricordare che proprio lì è nata migliaia di anni fa l’agricoltura 5 e che lì la specie ha trovato rifugio dai pericoli di vario genere che si annidavano e si spostavano più velocemente nelle valli e nelle pianure. Oggi, in un tempo di guerre e riscaldamento planetario, ancora una volta e in tal modo, le montagne dovrebbero essere ripensate e liberate da tutto ciò che è inutile. E questo libro, nonostante qualche perdurante abbaglio sull’economia del turismo alpino, si rivela davvero utile per iniziare a ripensare non solo un modo di produzione, ma anche il consumo turistico dei territori e delle risorse ad esso collegato. Senza il primo il secondo non potrà infatti continuare ad esistere (e viceversa).
Note
Aldo Bonomi, Prefazione. Terre alte, laboratori di comunità in M. Dematteis – M. Nardelli, Inverno liquido, DeriveApprodi, Roma 2022, p. 5
Antonio Cianciullo, Claudio Smiraglia: “Studio le Alpi da mezzo secolo, mai vista una ritirata così veloce dei ghiacciai”, «Huffington Post» 28 Agosto 2023
Maurizio Dematteis, L’origine. La montagna fra il non più e il non ancora in Maurizio Dematteis – Michele Nardelli, op. cit., pp. 12-13
Sul tema si veda: Nikolaj Vavilov, L’origine delle piante coltivate. I centri di diffusione delle diversità agricole, Pentàgora, Savona, recensito qui
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Il fallimento dello sci di massa riguarda le Alpi occidentali perché tutti sognano la settimana bianca nelle Dolomiti, dove lo sci va a gonfie vele.
A Bolbeno TN (500m ca) si scia tutto l’inverno.
Lo sci di massa è stato lo strumento che ha consentito di realizzare un’economia turistica di cui hanno beneficiato sia le popolazioni locali, contribuendo ad ridurre in maniera significativa l’esodo verso le pianure, e sia i fruitori degli impianti i quali hanno potuto avvicinarsi alle montagne in modo “comodo”, relativamente economico e con rischi limitati.
Se vogliamo fare un paragone, lo sci di massa sta alla montagna come gli stabilimenti balneari stanno ai litorali marini. Entrambi sono indubbiamente delle infrastrutture antropiche che alterano gli ecosistemi su cui vengono realizzati, ma che hanno permesso ad un vasto universo di popolazione di fruire dei due ambienti naturali (la montagna e il mare) prima riservati solo alla punta della piramide sociale.
Entrambi questi ambienti antropizzati (impianti sciistici e stabilimenti balneari) sono attualmente a rischio a causa dei cambiamenti climatici in corso. Nel caso delle stazioni sciistiche, la neve è sempre più rara, mentre per i litorali l’innalzamento dei mari potrebbe causare gravi danni alle strutture costruite lungo le coste.
Queste problematiche non erano certo note (o non così evidenti) negli anni in cui le infrastrutture in oggetto sono state realizzate. Ragion per cui non riesco tanto a capire chi si scaglia con regolarità contro questi modelli di sviluppo turistico, come se chi li ha realizzati fosse stato consapevole, al momento in cui sono stati edificati, delle attuali problematiche ambientali. Gli effetti del global warming sono evidenti in termini di chiusura delle stazioni di bassa/media montagna Purtroppo a tali chiusure, non si è accompagnata una politica di rimozione delle infrastrutture inutilizzate che spesso incontriamo nelle nostre gite alpine e di questo aspetto la responsabilità è di certo politica per non aver saputo prevedere gli effetti sull’ambiente di queste dismissioni.
Tuttavia la chiusura di queste stazioni minori è anchessa una risposta ai mutamenti climatici in corso. Sicuramente andava gestita meglio evitando, ad esempio, gli abbandoni prima citati. Ma anche la coscienza ambientale è nata e si è sviluppata in anni recenti e continuare a lamentarsi delle scelte (o delle omissioni) passate costituisce un esercizio sterile e, trovo, anche abbastanza inutile.
“Il “fallimento” dello sci di massa costituisce un po’ lo specchio del fallimento di un modo di produzione e di consumo obsoleto…”
Ma siamo sicuri?
Da uno che emana queste fregnacce, che confonde i suoi sogni con la realtà – il capitalismo che piaccia o no è vivo e dominante – possono venire solo considerazioni sballate.
Ho recentemente scoperto che in Val di Fiemme è obbligatorio per il gestore di impianti a fune dotarsi di un fondo di accumulo, in pratica accantonare dei soldi, che in caso di fallimento copra le spese di ripristino ambientale . Sulle montagne lombarde sembra fantascienza …
Cosa fare della montagna? Forse nulla e aspettare dalla natura il restauro dell’ambiente: del resto non è più tempo di contadini e pastori.