La sera del 24 ottobre 2019, nella Sala degli Stemmi della sezione di Torino del CAI al Monte dei Cappuccini, viene presentata agli scalatori torinesi la nuova guida d’arrampicata: Val Grande in Verticale. E’ un pregevole lavoro realizzato da quattro autori: Marco Blatto, Elio Bonfanti e i fratelli Luca e Matteo Enrico. La guida illustra tutte le arrampicate di falesia della Valle Grande di Lanzo dai monotiri alle vie lunghe; dalla Rocca di Lities al Bec di Mea, al Vallone di Sea e a tutte le formazioni rocciose di media quota della valle. Oltre alle informazioni tecniche sugli itinerari di scalata, illustra ed esalta con pregevoli fotografie quei luoghi molto belli. La nuova guida inoltre riporta le testimonianze di alcuni protagonisti storici dell’arrampicata nella valle.
La serata ha successo e la sala è gremita di spettatori, segno di un rinnovato interesse per la Val Grande da parte del mondo alpinistico torinese. Trattando di una guida che illustra la più bella (forse) delle tre valli di Lanzo è doveroso ricordare il volumetto: Palestre delle Valli di Lanzo di Gian Piero Motti edito dalla sottosezione GEAT del CAI Torino nel 1974 quando, non ancora in uso i monotiri, le arrampicate a bassa quota venivano ancora definite “palestre”. Un gran bel libricino realizzato con la precisione e la competenza che ha sempre contraddistinto Motti.
Io mi innamorai della Val Grande fin dalla prima volta che, ragazzino, raggiunsi Forno Alpi Graie con la mia prima bicicletta da corsa. Poi, divenuto alpinista, fui sempre attratto da questo angolo di montagne e innumerevoli volte vi tornai, spesso per scoprire strutture di roccia mai scalate da nessuno. Non ho dimenticato nessuna delle tante avventure vissute in quella valle, e mi fa piacere ricordarne qualcuna.
Alla Punta Castagneri
di Ugo Manera
Venerdì sera 5 ottobre 1968, dopo una giornata lavorativa, salgo da solo nell’oscurità incipiente verso il rifugio Daviso. Forzo l’andatura per sfruttare al massimo la luce del crepuscolo autunnale. Al rifugio mi attendono tre amici che, con più disponibilità di tempo, sono saliti in tutta tranquillità nel pomeriggio: Ezio Comba, Gian Piero Motti, Ilio Pivano. Siamo lì per dare corpo ad un progetto ambizioso suggerito da Gian Piero, il grande esperto ed innamorato della Val Grande di Lanzo, quella che è diventata la “sua” valle. All’estremità orientale della grande parete della Cresta di Mezzenile si erge un ardito pilastro che termina sull’ultima punta (quota 3407, senza nome) della lunga cresta. E’ la difficile meta che ci attende per il giorno dopo, nessuno ha mai tentato di scalarlo.
Gli amici festeggiano il mio arrivo con strette di mano, commenti e battute poi nella consueta allegria ceniamo velocemente per poter accumulare più ore di sonno possibile.
Prima delle quattro mattutine siamo già in movimento, l’avvicinamento è lungo, dobbiamo raggiungere il bacino della Gura e il ghiacciaio del Mulinet nord. Raggiunto al buio il ghiacciaio, calziamo i ramponi e in cordata ci avviamo tra i crepacci.
Ad oriente una linea rossa annuncia l’alba, presto le pareti diventano infuocate e rivelano uno straordinario ambiente d’alta montagna che nelle Valli di Lanzo non ti aspetteresti. Da qui il nostro obiettivo ci appare ancora superiore alle nostre attese; ne raggiungiamo la base e dopo aver superato senza difficoltà una crepaccia terminale tocchiamo le rocce che in questo punto hanno un colore verdastro. Velocemente iniziamo l’arrampicata perché il luogo potrebbe essere esposto a cadute di pietre; inizia Gian Piero con Ezio che lo assicura, sale con rapidità e determinazione. Sarà il grande protagonista di questa giornata.
Parto anch’io a capo della seconda cordata con Ilio che mi fila con attenzione la corda, ho la più totale fiducia in lui, è il meglio che si possa desiderare come secondo di cordata. Essendo l’ultimo si adopererà, per quanto possibile, a liberare la via da massi instabili.
Vedo in alto Gian Piero al di sotto di un tetto posto sul filo dello spigolo, cerca di piantare un chiodo ma non ci riesce, nel tentativo ha smosso una pietra che cadendo ha danneggiato una delle sue due corde. Desiste dal tentativo, parte in traversata verso destra poi di scatto si innalza direttamente. Quando riesce a fermarsi lancia un’esclamazione: “E’ sesto!”. Ezio, pur avendo la corda tesa davanti a lui ha esitato un bel po’ nel superare il passaggio.
Tocca a me, mi avvio un po’ preoccupato: salgo a destra sullo spigolo, poi diritto, quindi verso sinistra in mezzo ai tetti. Due chiodi, una staffa e mi trovo al punto che ha fatto esitare Gian Piero, inutile cercare di aggiungere chiodi, uno sguardo a Ilio, sempre attento, poi via con decisione sfruttando appigli molto piccoli fino ad un minuscolo punto di sosta ove Ezio è impegnato ad assicurare il suo primo di cordata. Segue un tratto di elevata difficoltà e pari bellezza sempre sul filo di spigolo verticale ed esposto. Un settore meno difficile ci porta sotto i tetti della parte mediana del pilastro.
Una torre staccata si appoggia alla parete sotto un enorme soffitto biancastro. Altri strapiombi a destra e a sinistra nascondono l’evidenza di una soluzione logica, Gian Piero però non ha dubbi, si alza fino alla sommità della torre staccata coperta da neve fresca, fa salire il compagno e parte in orizzontale su una cornice in mezzo agli strapiombi, si alza lungo una parete rossastra ed alternando scalata artificiale e libera aggira lo strapiombo più pronunciato scavalcando lo spigolo del pilastro. Sparisce alla vista e dopo un po’ ordina al suo compagno di raggiungerlo.
Anche la nostra cordata supera i tetti; al di sopra la parete non strapiomba più, si mantiene verticale con pochi rilievi. Guardandomi attorno, mentre il mio compagno sale e ricupera i chiodi, scorgo, oltre la cresta di confine, ormai più bassa di noi, due sciatori che, sfruttando la prima neve autunnale, scendono dalla Punta Francesetti con ampie curve lungo i tranquilli ghiacciai che ricoprono il versante francese della catena.
Riprendiamo a salire incontrando ancora difficoltà rilevanti, Gian Piero dopo aver superato una paretina rossa, mi grida di stare molto attento. Quando tocca a me attraverso fino alla fine della piccola cengia ove abbiamo sostato, mi trovo così sul bordo dei tetti in vertiginosa esposizione. Qui Gian Piero aveva tentato inutilmente di fissare un chiodo di assicurazione, era allora salito rinunciando all’ancoraggio di protezione. Quando tocca a me quel tratto provo caparbiamente ad assicurarmi poi mi accontento di una sottile lametta di acciaio infissa a metà che certamente non reggerebbe alla sollecitazione di una mia caduta, salgo con molta attenzione al limite dell’equilibrio poi con una grande spaccata raggiungo rocce più facili che mi conducono ad una comoda cengia.
Le difficoltà più elevate sembrano alle nostre spalle, sopra di noi la roccia appare salda dall’aspetto granitico, su di essa l’arrampicata è divertente; ci attende ancora un difficile diedro chiuso da un tetto che superiamo con una staffa appesa ad un cuneo di legno piantato in una larga fessura. Mi sento in forma ed entusiasta, ormai la nuova via è nostra, salgo veloce verso la vetta senza percepire la stanchezza.
In cima trovo solo più Ezio, Gian Piero è già sceso al colletto tra la cresta di Mezzenile e la Punta Groscavallo mettendosi al riparo dal gelido vento che soffia da nord. Lo raggiungiamo velocemente, dobbiamo affrettarci perché ci attende una lunga e complicata discesa e il sole è prossimo al tramonto. Ci tocca percorrere tutta la cresta di confine scavalcare la Groscavallo e raggiungere il colletto che separa questa cima dalla Dent d’Ecot, attraversiamo sotto quest’ultima e raggiungiamo la cresta che scende verso est. Nei tratti rivolti a nord troviamo la cresta coperta di neve fresca e dobbiamo procedere con attenzione. Ezio è molto stanco e fatica a continuare, vorrebbe fermarsi ma noi lo incitiamo a proseguire. Il sole se n’è andato ed il buio incombe. Febbrilmente cerchiamo un punto che ci consenta di scendere anche al buio.
Troviamo un canale nevoso che conduce verso il ghiacciaio del Mulinet, è ripido e per guadagnare tempo pianto un chiodo in una fessura, fisso la mia corda e faccio scendere velocemente i miei compagni lungo ad essa, poi tolgo il chiodo e scendo con cautela senza assicurazione. Tre volte ripeto la manovra e finalmente siamo sul ghiacciaio. E’ notte ma siamo fuori dalle difficoltà, la discesa è ancora lunga ma con l’aiuto della luna che sta sorgendo, contiamo di raggiungere il fondo valle. Ezio è sfinito, abbandona la sua corda per alleggerirsi e poco sotto gli sfugge di mano la piccozza che, scivolando lungo il pendio, s’infila in un crepaccio. Sconsolato ammutolisce e ci segue in silenzio come un automa.
Raggiungiamo e scendiamo la seraccata, quando siamo ormai prossimi ai ghiaioni Gian Piero scivola e striscia per parecchi metri sul ghiaccio, reso abrasivo dalla ghiaia che ha inglobata in superfice. Corriamo a soccorrerlo: nulla di grave ma le povere mani del nostro amico sono profondamente scorticate. Aiutato da Ilio, con le mani che grondano sangue, raggiunge i ghiaioni ove esaminiamo le sue ferite Riprendiamo a scendere per non peggiorare la situazione rimandando le medicazioni sommarie a quando il terreno diventerà più agevole. Davanti al rifugio Ferreri, alla luce della luna e delle pile, medico per quanto mi è possibile le mani del mio amico che intanto si è ripreso.
Lentamente riprendiamo la penosa discesa e verso mezzanotte raggiungiamo Forno Alpi Graie.
La Quota 3407 m non ha nome, considerata la grandiosità della via da noi aperta sul Pilastro Est, su proposta di Gian Piero, decidiamo di dedicarla a una grande guida, pioniere dell’alpinismo nelle Valli di Lanzo: Antonio Castagneri.
Al di sopra del rifugio Daviso
di Ugo Manera
Settembre 2012, saliamo lungo la Val Grande di Lanzo diretti a Forno Alpi Graie per poi proseguire e scalare nel vallone di Sea. La giornata è bellissima, la luce preautunnale conferisce plasticità al panorama che ci circonda; giunti alla borgata Prati della Via la testata della Val Grande si offre ai nostri sguardi, quante volte l’ho ammirata passando in questo punto della valle! Oggi però la vista di quelle pareti fa sorgere in me un senso di nostalgia e di rimpianto: questi sentimenti non sono generati dalla consapevolezza che ormai non vivrò più grandi avventure su di esse, ma perché sono cambiate, non sono più quelle che io avevo salito. I canaloni di neve che le incidevano e davano risalto alle strutture rocciose sono scomparsi, i ghiacciai tormentati alla base delle pareti verticali si sono ritirati e il quadro di alta montagna non è più quello di tanti anni fa quando li percorsi ripetutamente. E’ un peccato, il riscaldamento degli ultimi anni ha causato dei danni irreparabili a quell’ambiente così bello e severo che ha attratto me ed altri appassionati.
La testata della Val Grande ha sempre esercitato in me un grande interesse, la notai la prima volta quando raggiunsi con mio padre il rifugio Daviso, non avevo ancora cominciato a scalare. L’anno successivo calzai per la prima volta i ramponi per salire il canalone nevoso del colle Girard.
Nel 1961 ero militare alla caserma Monte Grappa di Torino, ero in sofferenza perché mal sopportavo l’ambiente militare ed ero in grave crisi di astinenza da montagna. Una domenica avevo il permesso giornaliero ma questo iniziava alle ore 8 mentre il treno che io dovevo prendere per andare in Valle Stretta partiva alle 6.30 da Porta Nuova. Decisi un’evasione notturna passando sui tetti dei garage come avevano già fatto altri miei commilitoni. Al buio, sui tetti, mi inciampai causando rumore che a me, già in agitazione per l’azione trasgressiva, parve frastuono. Per non essere sorpreso in flagrante saltai a piè pari giù dal muro di cinta, atterrai sui talloni procurandomi delle dolorosissime contusioni. La progettata gita in Valle Stretta era andata in fumo e per una settimana fui costretto a camminare in punta di piedi.
La mia astinenza da montagna era intanto divenuta insopportabile e non appena ripresi a camminare normalmente chiesi la licenza ordinaria (che mi era dovuta) per andare a scalare. Catturai un giovane amico: Ivo Bruschi e raggiungemmo il rifugio Daviso. Il giorno dopo salimmo la Levanna Occidentale e tutto andò bene. I miei talloni ammaccati in salita non si fecero sentire, in discesa però cominciarono a farmi male, un dolore che man mano scendevo si fece insopportabile. Fu un Calvario, arrivati nei prati sopra Forno Alpi Graie non ce la facevo proprio più. Era quasi notte ed avevamo ormai perso l’ultima corriera, decisi di fermarmi a passare la notte nel prato. Ivo scese a Forno e ritorno su con pane, salame, formaggio ed un fiasco di Chianti. Ce lo scolammo tutto poi ci mettemmo a dormire nell’erba sotto il cielo stellato avendo come unica protezione un foglio di giornale a testa. Al mattino il dolore ai piedi si era attenuato e con la prima corriera e la ferrovia Ciriè Lanzo ritornammo a Torino
Fin dalla prima metà degli anni ’60 il mio alpinismo si era orientato esclusivamente verso salite di elevata difficoltà e sulla testata della Val Grande molte strutture destavano il mio interesse. Per vederle da vicino, nell’estate 1966, salii con Piero Giglio per ripetere la via Mellano alla Punta Corrà; quando fummo alla base osservai che esisteva, sulla stessa parete, un altro sperone parallelo al nostro obiettivo. Su due piedi decisi di tentare una nuova via, ne venne fuori una magnifica ed impegnativa scalata.
Il mio interesse per la Valle Grande crebbe ancora quando presi a scalare abitualmente con Gian Piero Motti. Era quella la sua Valle ed egli ne conosceva tutti gli anfratti. Sotto la sua guida andammo al Bec di Mea ad aprirvi le prime vie, a scoprire la Rocca di Lities ed in vari altri luoghi. Nel 1968 scalammo in prima ascensione il pilastro est della Punta Castagneri (vedi sopra, NdR).
La bastionata Gura Martelot è rivolta prevalentemente ad est ed è riparata dal vento, questo fa sì che i venti invernali che spirano da nord ovest vi accumulino sopra molta neve spazzata dai ghiacciai del versante francese; neve che ricopre ogni sporgenza e spesso si incolla anche sulle rocce verticali, queste particolari condizioni tenevano lontani gli scalatori alla ricerca di primizie nella stagione più fredda. Negli anni ’70 l’alpinismo invernale era in auge, c’era una vera corsa ad accaparrarsi “prime” invernali sulle pareti difficili. A Torino io ero tra i più scatenati in questa ricerca. La testata della Val Grande compariva spesso nei miei progetti ma le condizioni sfavorevoli di innevamento mi orientavano verso altri obiettivi. Finalmente, in un inverno poverissimo di neve, pensai fosse giunto il momento giusto. Convinsi Corradino Rabbi e Mariangelo Cappellozza a seguirmi ed una sera fredda e serena salimmo al rifugio Ferreri, la nostra meta era la via Mellano alla Punta Corrà. Non c’era assolutamente neve, non ne pestammo per tutto il sentiero, per altro pericoloso per il ghiaccio formatosi con l’acqua di scolo. Anche la parete appariva pulita così, indotti da ottimismo un po’ sprovveduto, decidemmo di non portarci materiale da bivacco pensando, così leggeri, di risolvere tutto in giornata malgrado le ridotte ore di luce delle giornate invernali. Trovammo una realtà diversa da come appariva: la neve portata dal vento invece c’era ed assieme al ghiaccio copriva ogni cengia, ogni appiglio ed intasava ogni fessura. Queste condizioni resero la scalata molto impegnativa e condizionarono la nostra velocità; come capocordata dovetti impegnarmi al massimo e toccammo la cima della Corrà che già la notte era scesa. Una discesa notturna non era possibile e fummo costretti al bivacco. Non avevamo portato nulla e l’unica protezione fu di infilare i piedi nei nostri zaini. A 3300 metri di quota una notte stellata d’inverno è dura da trascorrere coperti solo dagli indumenti da scalata. Ma passò anche quella ed al mattino intirizziti, ma senza danni, iniziammo a scendere lungo il canalone del Colle Santo Stefano, la neve era in buone condizioni, presto ci riscaldammo e velocemente raggiungemmo il ghiacciaio.
Fin da quando salimmo la Punta Castagneri avevo notato che parallelo al nostro spigolo, dalla Cresta di Mezzenile, ne scendeva un altro, ancora più ardito. Negli anni a seguire ebbi ancora modo di osservarlo e lo inclusi nella lista dei numerosi miei progetti. Venne l’ora della soluzione anche di questo problema, lo salii con Enrico Pessiva dopo aver pernottato nel bivacco dell’Accademico. Bivacco che oggi non esiste più, distrutto più volte da valanghe. Ne venne fuori una gran bella via in quello straordinario scenario che già ben conoscevo. Fummo veloci e quella volta non ci furono imprevisti di nessun genere.
Ho scalato innumerevoli montagne sulle Alpi ed anche fuori dell’Europa, ma la Valle Grande rimane nell’Olimpo dei miei ricordi. E’ per questo che oggi, vedendone la testata spoglia delle sue linee bianche che tanto ho ammirato, provo un po’ di tristezza.
23
Ciao Giuliano, penso che la libreria Pangea di Padova te lo può procurare (se non ce l’ha gia’). Sennò lo trovi di sicuro sul sito dell’editore. Spero di venga desiderio di fare una scappata dalle nostre parti. Chissà, magari ci si incontra nel profondo Nord Ovest della Alpi. Ciao!
Ricordo una descrizione di Motti sulla testata della Val Grande (qui immortalata, in parte, dalla fotografia di copertina). Suonava più o meno così: non ha nulla da invidiare alle pareti blasonate che, per esempio, si trovano nel Massiccio del Monte Bianco. In più ha il pregio di una frequentazione abbastanza rarefatta (per non dire nulla), a differenza di molti vioni del Bianco o di altri massicci alla moda. Bei posti, dove si trova ancora una montagna “rude” e di sostanza.
sono di padova
si trova nelle librerie
Bello proprio bello