Val Susa: ieri, oggi e domani
di Alberto Gandi Gandiglio
Qualche tempo fa, per una serie di serate culturali organizzate in val Susa, mi è stato proposto di fare una presentazione sulla storia dell’arrampicata in valle, passato, presente e prospettive future. L’evento si è tenuto appena prima dell’esodo di Ferragosto al Buteghin di Caprie, punto di ritrovo per gli scalatori, situato proprio sotto le pareti della rocca Bianca.
Scalo su queste pareti da ormai dieci anni e ci sono estremamente legato, a differenza di tanti che vengono qui per ripiego, vista la vicinanza da Torino, io ho deciso di restarci, di scegliere quella del Dora come la valle di riferimento per qualsiasi attività che abbia voglia di svolgere, dall’alpinismo al bouldering e dallo sci-alpinismo all’arrampicata, trad e sportiva.
Ho iniziato questa ricerca digitando su Google “storia dell’arrampicata in val Susa”, convinto che, con un po’ di copia e incolla dalle numerose ricerche fatte da altri, avrei “buttato” giù la presentazione piuttosto velocemente. Aimè, tra i risultati, non è uscito nulla. Si, qualche aneddoto c’è, ma niente è neanche lontanamente esaustivo. Difficile addirittura distinguere le leggende dalla realtà, i miti dalle bufale. Proprio per questo ho deciso che la ricerca fatta, tramite libri, guide, videocassette, testimonianze dirette e tanto altro, meritasse di rimanere scritta.
Non è stato facile scegliere il personaggio con cui iniziare, sulle rocce valsusine si sono posate veramente tantissime mani, celebri e non, e tutte hanno lasciato un segno.
Nonostante ciò, bisogna dare merito delle prime scalate sulle nostre rocce al famosissimo Menelik, o meglio, al dimenticatissimo Menelik. Fu promotore e fedelissimo compagno dei pionieri dell’arrampicata valsusina, da Gervasutti a Boccalatte, passando per Guido Rossa e Michele Rivero. Pensate che Menelik è stato presente in tutte le prime salite effettuate qui e, nonostante l’età centenaria, è ancora lì a cercar compagni con cui condividere salite e avventure. Nessuno gli dà più corda, Menelik ormai è sgangherato, lento, vecchio.
Ma chi è questo Menelik? Menelik è l’ultimo treno del sabato sera che parte da Porta Nuova con direzione Bardonecchia. È infatti proprio grazie a questo mezzo se la val Susa ha una storia così ricca. Tanti erano gli alpinisti/operai che, finito il turno del sabato in Fiat, scappavano in montagna, in bici fino a Porta Nuova, con Menelik fino a Bardonecchia e poi ancora in bici o a piedi fino alla parete dei Militi.
Per parlare di arrampicata dobbiamo tornare al 1936 e alla sopracitata parete dei Militi, nella laterale valle Stretta. Perché proprio i Militi? Beh, perché quell’impressionante fascia di calcare, alta fino a 350 metri ricorda le grandi muraglie dolomitiche dove, di fatto, l’arrampicata era nata e si stava sviluppando. I Militi erano il terreno di gioco ideale per allenarsi alle grandi salite alpine. Si, è vero, nel Torinese si scalava già da qualche anno ai Tre denti di Cumiana, al Plu, alla Sbarua, ma nulla era neanche lontanamente simile ai Militi per lunghezza, esposizione e impegno.
Non c’è neanche una nuvola in cielo quando Rivero e Alfonso Castelli, in una stupenda giornata estiva, fanno un primo tentativo alla parete. In realtà, le voci di un loro tentativo erano girate piuttosto velocemente nel piccolo ambiente alpinistico torinese e, insieme a loro sul ghiaione, ci sono altri cinque alpinisti. Vengono scelte due diverse vie ma entrambe le cordate devono ritirarsi prima di metà parete. La cordata di Rivero e Castelli per l’impossibilità di superare un tratto strapiombante, mentre l’altra, formata dai fratelli Stefano e Paolo Ceresa, Enrico Adami, Enrico Devalle e Achille Calosso, per l’infortunio, dopo un lungo volo, di quest’ultimo. Achille si riprende in fretta e pochi giorni dopo torna ai Militi con gli stessi compagni e sale la prima via della parete.
Passa qualche anno e anche il Fortissimo, Giusto Gervasutti, con Guido De Rege di Donato, sale due itinerari grandiosi sulla parte sinistra della parete. Un paio di anni dopo, nel 1943, torna anche Rivero, che con Giuseppe Gagliardone riesce finalmente a completare l’itinerario tentato sette anni prima. Probabilmente la storia dei Militi sarebbe ancora più ricca se i più grandi esponenti dell’arrampicata torinese non fossero morti sul monte Bianco. Ci lasciano, in una manciata di mesi, Gervasutti sul Tacul, Boccalatte al Triolet, Gagliardone all’Aguille Noire. Come se non bastasse, arriva la guerra e altre giovani promesse se ne vanno in battaglia.
Fortunatamente Torino sforna altri talenti, parliamo di Guido Rossa, Corradino e Rodolfo Rabbi, Marco Mai, Umberto Prato, Giorgio Rossi, Giacomo Menegatti, Ettore Russo, Mario De Albertis, Arturo Rampini. Tutte le domeniche si ritrovano nel grande prato sotto la parete, sono affiatati, un solo ed unico gruppo per comunione di ideali e di intenti: nasce così il GAM, il Gruppo Alta Montagna. Non hanno grandi mezzi, ma una passione smisurata e capacità eccezionali. Sovente partono da Torino in bicicletta, a volte Menelik, borbottante, li lascia a Susa, sono tempi difficili, ma non disperano.
Guido Rossa è senza dubbio il più legato alla parete, ripercorre e apre tantissimi itinerari di difficoltà estrema, sale slegato tutta la parete in meno di un’ora, la scala anche in inverno, da solo. Rimane un solo grande problema evidente, il diedro strapiombante in centro alla parete. Nonostante i numerosi tentativi il tetto di trenta metri non cede, non passa neanche il più grande alpinista di tutti i tempi, Walter Bonatti. Purtroppo, Guido deve andarsene per motivi lavorativi e la parete torna nell’oblio, torna il silenzio nei tetri camini.
Gli unici e rari tentativi sono effettuati a quell’ultimo problema che ha già un nome senza neanche essere stato salito, il diedro del terrore. Per aver vinto anche quell’ultimo problema dobbiamo aspettare il 1966, quando un valligiano di Condove si legherà insieme ad un torinese formando una delle cordate più promettenti dell’epoca, parliamo degli allora ventenni Gian Carlo Grassi e Gian Piero Motti.
L’aria dell’alpinismo sta diventando greve e insopportabile, i grossi problemi delle Alpi sono vinti, Bonatti nel ’65 supera anche la Nord del Cervino, per una via direttissima, da solo e in inverno, cos’altro si potrebbe fare di più? Cosa si potrebbe aggiungere per evolvere?
Proprio nulla. Aggiungendo si sfiorerebbe il ridicolo e l’autolesionismo, bisogna togliere.
Serve un catalizzatore che renda comprensibili le nuove idee al vetusto ambiente alpinistico nostrano e Torino lo sforna, ha i baffi e porta gli occhiali, si chiama Gian Piero Motti, sì, proprio quello del diedro del terrore. Motti è un brillante scalatore e un altrettanto buon scrittore, sono i primi anni dei Settanta quando, dopo aver tradotto diversi articoli della rivista americana Ascent, mette per iscritto il manifesto del Nuovo Mattino, il movimento culturale/arrampicatorio che permetterà all’alpinismo di evolversi semplicemente togliendo, anziché aggiungendo. Questo è un momento storico veramente importante, viene aggiunta alla figura dell’alpinista anche il piano umano: le paure, l’introspezione, la dimensione spirituale. Basta eroi ed eroismi, basta lotta con l’Alpe, basta levatacce e bivacchi all’addiaccio, basta croci, basta cime. È da poco passato il ’68 americano, Woodstock arriva in ritardo in Italia e sbarca a Torino.
Prima del manifesto ufficiale qualcosa in stile “californiano” era già stato fatto, parlo delle vie al Bec di Mea, il Gran Diedro, il Naso, la via dei Cunei. Era il 1969 e queste sono considerate le prime vie in stile nuovo mattiniano, ovvero, vie salite principalmente in arrampicata libera e su pareti senza cima, soltanto per il gusto di scalare. Quello che conta è il come si sale, ci si focalizza sullo stile, la meta è il viaggio. Nessuno però ricorda e inserisce, nonostante siano state salite addirittura prima delle vie al Bec di Mea, la via della Vipera, nelle gole del rio Sessi di Caprie e Cactus, la prima via di Anticaprie, entrambe ad opera di Angelo Piana. Due vie di un centinaio di metri che anticipavano i tempi di quello che sarebbe stato poi la normalità da lì a tre anni.
L’idea che inizia a prendere piede è quella del free climbing non necessariamente come arrampicata libera, ma nel senso più ambizioso e filosofico del termine, ovvero come libero arrampicare. La val Susa è la valle dove si respira maggiormente quest’aria, un grazie va detto a Grassi, ovviamente, instancabile e principale pioniere del movimento. Oltre alla ricerca e alla scoperta di tutti i principali sassi della valle, si dedica alla loro pulizia e cosa ancora più importante alla loro recensione su due guide apposite. Famosa la sua frase che spiega bene la mentalità con la quale ci si approcciava ai sassi:
“Certo giocavamo, ma per noi ogni masso scoperto era un Universo intero, un cielo di stelle da esplorare, un deserto da conoscere.”
A proposito di sassi, uno dei più famosi e celebri della valle è proprio a Caprie. Parlo del Masso del Conte verde, un uovo di granito completamente liscio, all’interno dell’omonimo castello. Il grosso uovo, oltre che essere stato un bel parco giochi per i più forti scalatori dell’epoca, fu luogo di sosta per Carlo Magno e i suoi seguaci, il fatto è inciso proprio sul lato più alto del masso: “su questo dosso roccioso plasmato nei millenni dal ghiacciaio quaternario valsusino Carlo Magno Re dei Franchi sostò coi suoi condottieri nel 773 d.c. dopo la battaglia delle chiuse d’Italia che pose fine al secolare regno dei longobardi e segnò l’inizio del Sacro Romano Impero“. Scopritore del masso fu, ovviamente, Gian Carlo Grassi, ma addirittura Renato Casarotto aveva lasciato la sua firma sul masso con un celebre passaggio. Dopo di lui tutte le dita dei più famosi sassisti piemontesi sono passate di qui, da Marco Bernardi a Giovannino Massari, sino ad arrivare a Marzio Nardi che risolse il passaggio più difficile. Da circa cinque anni a questa parte, aimè, il sasso non è più scalabile, almeno in maniera legale.
Ma torniamo all’inizio degli anni ’70, quelli del manifesto del Nuovo Mattino scritto da Motti. La val Susa riprende vita e diventa uno dei palcoscenici della metamorfosi. Il circo volante esplora la valle e inizia a salire le pareti minori, incredibilmente mai considerate fino ad allora. Dalla rocca Bianca alla rocca Nera passando per l’orrido di Foresto e arrivando fino alla parete rossa di Catteissard. Proprio qui, il 5 maggio 1974, Gian Carlo Grassi e Roberto Bonelli insieme ad uno dei più promettenti giovani di quegli anni, Danilo Galante, l’indio, aprono la via del Risveglio, che sposta in avanti il limite. Nessuna croce ad aspettarli in cima, ma solo un altopiano prativo. L’obbiettivo? L’eleganza del movimento, la leggerezza dei corpi, la perfezione del movimento.
L’aria è frizzante e spensierata. Il circo volante è un bel gruppo coeso e compatto, si scala in maglietta e jeans, si fa colletta per la benzina e ci si diverte sempre. Peccato che questa spensieratezza porterà anche alla fine del nuovo mattino. Proprio sul più bello, ecco che Danilo Galante perde la vita tra le braccia di Gian Carlo Grassi. È maggio del 1975 quando un’improvvisa tempesta di neve li blocca sulla distesa sopra l’immensa parete del Grand Manti. L’altipiano, simbolo del Nuovo Mattino, diventa fatale, in un white out totale dove è impossibile orientarsi, Gian Carlo e Danilo non trovano la via di discesa e sono costretti a bivaccare. Danilo, che non ha neanche 25 anni, non supera la notte. L’aria si fa subito pesante, la morte rende adulti.
Sono tutti sconsolati e tristi, ma non sanno cos’hanno fatto, la storia non torna indietro, il passo è fatto e questi brevi ma intensi tre anni aprono le porte all’arrampicata moderna.
Nessuno smette di scalare, Gian Carlo Grassi inizia a fare spedizioni in tutto il mondo, dalla Patagonia all’Himalaya e Gian Piero Motti continua la sua esplorazione delle pareti di Balma Fiorant e della Val Grande di Lanzo. In estate si sale sul Mercedes bianco di Gian Piero e si va a scalare nelle palestre francesi delle Calanques o del Verdon. Durante uno di questi viaggi il gruppo nota, sulla parete di Cap Canaille, dei luccicanti pezzi di ferro sulla roccia. I francesi dai fisici atletici e scultorei continuano a riprovare infinte volte lo stesso passaggio volando ogni volta. È vero, il nuovo mattino ha valorizzato e prediletto l’arrampicata libera ma sui passi difficili, ad un buon chiodo, ci si appende senza remore. Quegli scalatori invece no, i tasselli nella roccia servono solo ad assicurarsi, non è etico passare tirandosi su quelle diavolerie, gli spit-rock. Si cerca la libera a tutti i costi, il volo è parte integrante, necessario al superamento di un limite. Pare alquanto strana l’idea, ma altrettanto allettante.
Siamo agli inizi degli anni ’80 e Torino sforna un altro talento, Marco Bernardi. È senz’altro il più forte di tutti a scalare in libera, si muove leggero e sinuoso, pare senza peso.
Un evento significativo avviene nel 1980, quando Patrick Berhault, all’orrido di Foresto, sale in libera tutti i passaggi dei Nani verdi, una via di artificiale di Danilo Galante. Marco è presente e ne resta affascinato, passano 12 mesi in cui si dedica totalmente alla scalata e torna, nel 1981, a liberare i nani verdi.
È evidente che l’arrampicata libera sta diventa il gioco preferito, si torna a liberare vecchie vie di artificiale e si sostituiscono i vecchi chiodi con dei luccicanti tasselli ad espansione.
Ci si inizia ad allenare, a riprovare infinite volte un tiro, a seguire le orme dei più forti scalatori al mondo, i francesi d’oltralpe.
In breve, guarda caso, proprio in val Susa, avviene l’evento che segnerà un passo avanti nell’evoluzione dell’arrampicata a livello mondiale. Il palcoscenico è lo stesso calcare grigio dove tutto ebbe inizio, quello dei Militi.
È il 1985 e ci son più di 10mila persone sui ghiaioni a base parete, l’arrampicata diventa sport di massa, gesto atletico, competizione, spettacolo e business. Il tutto è stato organizzato dall’accademico Andrea Mellano e dal giornalista Emanuele Cassarà. I due sono pionieri e visionari, Sportroccia è la prima gara internazionale di arrampicata sportiva. Ci sono i cento scalatori più forti al mondo, ne manca solo uno, Berhault, contrario alla mercificazione della scalata. In realtà, quest’ultimo, insieme ad altri 18 atleti, si dichiarò contrario alla competizione. Tra le firme in calce compaiono Patrick Edlinger, Antoine e Marc Le Menestrel, Jean-Baptiste Tribout, Jean-Marc Boivin, Catherine Destivelle, peccato che tutti, escluso Berhault, parteciparono comunque alla gara: peraltro la Destivelle vincendo l’edizione del’85 e Edlinger quella dell’86.
Pare quasi uno sfregio che su quasi 400 metri di parete ne vengano utilizzati appena venti per la competizione, chissà Gervasutti che faccia avrebbe fatto se avesse visto tutto ciò. Chissà se è semplicemente evoluzione o è anche progresso.
Da lì in poi l’arrampicata si è spostata, ed è tutt’ora, in quella direzione.
Motti non vede tutto ciò, ci lascia nell’estate del 1983 ma ha già annusato il cambiamento e, guarda caso, l’ultimo articolo che scrive per Scandere 1983 si intitola: “Arrampicare a Caprie”. In questo bellissimo articolo viene descritta la necessità della nascita del nuovo mattino e il bisogno di voltare pagina. Motti non è favorevole ad una scalata volta solo all’atletica, alla libera a tutti i costi, allo spit rock, vorrebbe una scalata più spirituale, più mentale. Gian Piero vorrebbe che scalare significasse avventura umana: testa, cuore e, in ultimo, il corpo. Motti è molto legato alla Rocca Nera, come anche Meneghin e Manera. Basti pensare che quest’ultimo ha aperto su queste rocce ben sei nuovi itinerari e ha dichiarato che l’apertura della via del gran diedro fu una delle più impegnative della sua brillante e ricca carriera. Motti invece preferisce andarci in solitudine, per meglio assaporare le sensazioni magiche che questo luogo sa dargli. Da solo, slegato e in scarpe da tennis, ha aperto, proprio qui, una bella via ora rivalorizzata e resa sicura dal giusto numero di spit. Per lui la rocca Nera rappresenta un viaggio nel tempo, il riallacciarsi ad una tradizione dalla quale ci si è staccati troppo presto.
Motti conclude così il suo articolo: “E Caprie, che c’entra Caprie? dirà ora qualcuno. C’entra, eccome. Lì io vedo un micro-simbolo di un mondo futuro di ben più vaste dimensioni, difficile ora da scorgere perché girato a negativo dalla luce ingannevole della Madre, che fa brillare altri specchi per allodole. Una rappresentazione in piccolo di un grande viaggio futuro, che porterà dalle oscurità profonde della Gola verso la Rocca Bianca e infine attraverso il filtro del Sole Nero, la Rocca Nera.”
Sulla Rocca Bianca Grassi, il 27 marzo 1991, apre la sua ultima via, Narciso di Ghisa. Solamente 4 giorni dopo, il primo aprile del 1991, ci lascia sui Sibillini. La valle perde senza ombra di dubbio il più prolifico e incallito esploratore e valorizzatore delle sue pareti. A lui, per quanto riguarda il comprensorio di Caprie, giunge un degno successore, Diego Cordola, purtroppo quest’ultimo muore solamente tre anni dopo. La valle, in una manciata di anni, perde i suoi più importanti visionari, negli anni ’90 e ’00 tanti, anzi tantissimi, hanno cercato di valorizzare la valle, chi attrezzando qualche falesia nuova, chi rimboccandosi le maniche e andando a rispolverare vecchie pareti dimenticate. Ogni anno abbiamo la fortuna, e siamo una delle poche valli ad averla, di poter scalare su roccia nuova, su tiri inediti, su pareti nascoste ideali in ogni stagione.
Una piccola parentesi è doverosa su una disciplina che in valle non è mai scoppiata, ma che sotto sotto, in sordina, guadagna pian piano terreno, parlo del bouldering. Un fatto tra i più significativi avviene nel 1997, a Villarbasse, quando Marzio Nardi sale Icaro, il primo 8a di blocco d’Italia.
Nel 2011 a Borgone arriva Geo, il secondo 8c della valle, nonché il primo senza prese scavate, ed è un passo avanti non da poco, e senz’altro il più bello ed estetico, chiodato da Adriano Trombetta e liberato da Gabriele Moroni.
Nel 2014 il primo 9a, TCT a Gravere, liberato da Stefano Ghisolfi, l’arrampicata ormai ha preso la strada a senso unico della performance.
Proprio in questi anni ci sono due tentativi di rinnovo della valle, il primo è effettuato da Maurizio Oviglia e Paolo Seimandi. I due hanno la bella idea di lasciare clean, senza spit, una decina di linea di Grassi e Meneghin alla rocca Penna. Le linee però non sono facili, non si può iniziare a mettere lì i primi friend, troppo dure, troppo impegnativa la posa delle protezioni. Stesso discorso vale per Rainbow wall, bellissimo muro fessurato sempre a Borgone. A valorizzarlo, sotto consiglio di Marzio Nardi, è di nuovo Adriano Trombetta. I due tentativi di portare il trad in valle finiscono presto nel dimenticatoio.
Nel 2020 qualcuno ci riprova, che sia la volta buona? Chiuso in casa in lock down, sfoglio una guida di Grassi di 40 anni fa. Gian Carlo parla di uno dei pochi sassi dove si possa scalare in fessura in val Susa, non cercavo altro. Zaino, friend, contratto editoriale che mi permette di potermi muovere in montagna, mantellina, perché sì, piove, e parto. Già trovarlo è un’avventura, la proprietaria del terreno mi confermerà che da 40 anni nessuno toccava quel sasso e la natura se l’era ripreso. Lo pulisco e scalo le fessure, sono incredibili, qualcosa di mai visto in valle. Le linee son ben proteggibili ma comunque non sono il posto ideale per iniziare a piazzare i friend, ma qualcosa si muove, c’è interesse, forse i tempi sono finalmente maturi.
Andiamo allora a ripescare delle fessure salite a Chiusa San Michele negli anni precedenti, le ripuliamo e mettiamo qualche sosta, grande festa, sono dei quinti!! Lineari, ben proteggibili, estetici, proprio quello che mancava. Anche questa volta per andare avanti bisognava togliere. Togliere il muschio, la terra, i rovi, la performance a tutti i costi. Servono braccia e spazzole, passione e olio di gomito. Nascono le Spazzole Erranti, un gruppo di amici senza confini ma con un unico intento, divertirsi e valorizzare la valle. Sulla stessa parete di stupendo gneiss grigio ne troviamo più di 35, di cui buona parte ideali per chi si approccia a questa disciplina. Non mancano, tra quelle trovate, le prime fessure di 7b trad della valle. I tempi son maturi, l’idea prende piede, iniziamo a cercare e trovare moltissime linee trad su entrambi i versanti della valle. In un anno quelle salite nuove son più di 100, tutte lasciate rigorosamente senza spit. Bisogna censirle. Esce quindi ad aprile 2023 Crackin’ Susa, una guida dove sono inserite tutte le fessure, boulder o corda che sia, della bassa valle, il numero è impressionante: 170 linee. Il 7 ottobre 2023 si è tenuta la seconda edizione del Crack Party che ha visto più di 120 persone divertirsi sulle fessure e sui boulder spazzolati a Chiusa San Michele. Non sono mancate sfide più o meno goliardiche e premi discutibili.
Dunque, giungiamo ad oggi.
Mi è stato chiesto di parlare del presente, beh, penso che non ci sia nulla di più difficile da vedere di ciò che è vicino. Si può conoscere il passato, si può prevedere il futuro, ma vedere il presente risulta veramente difficile in una disciplina mutevole come la scalata. È così anche nella vita quotidiana, più le cose sono vicine agli occhi più si vedono sfuocate. Direi che per vedere il presente, ovvero ciò che c’è ora, basta guardarsi l’un l’altro. E allora guardo le sessanta persone che sono venute a sentirmi in questa stupenda sera di agosto, chi giovane fuori e chi giovane dentro, chi ha iniziato a scalare da poco, chi ha fatto la storia qui, persone con esperienze diverse ma un filo comune ci lega tutti, la passione per la nostra valle. Perciò ecco, allora il presente è questo, un legame verso una valle che è in continua evoluzione, ogni mese una falesia nuova o riscoperta, un sasso mai scalato, una fessura mai salita.
Per quanto riguarda il futuro anche, le possibilità sono molteplici, tutte probabili, nessuna certa. Io vedo una rinascita, una passione per questi luoghi che è arrivata anche ai più giovani, che son sicuro sapranno mantenere la valle il più possibile genuina, mi auguro collaborazioni, condivisioni, delle guide sui sassi, cosa già in cantiere, una mappa di tutti i siti di arrampicata, senza fazioni, bandiere e glorie. Il tutto per un unico fine, continuare a scrivere la storia di queste rocce. Mi auguro un approccio etico, rispettoso del passato, mi auguro una riscoperta di vecchi itinerari senza snaturarli. Mi auguro, egoisticamente, tante fessure e tanti massi nuovi. Mi auguro un punto di ritrovo per tutti il sabato sera dopo le scalate, e mi piacerebbe fosse qui, sotto la Rocca Bianca, al Buteghin. Mi auguro più avventura umana e meno performance, mi auguro di andare in falesia e sentire più risate che incazzature. Mi auguro che sempre più persone qui si sentano a casa. E soprattutto, visto che c’è sempre, instancabile, arrugginito ma gentile e ricco di storia, mi auguro che si torni a scalare in valle con colui che ha reso possibile mettere le fondamenta dell’arrampicata qui, ovvero, Menelik.
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La roccia, come una tela, una pagina bianca, la carta da musica, offre la possibilità agli individui di esprimersi. Accanto a grandi opere che riflettono un genio alpinistico, analogo a quello pittorico, letterario, musicale, ci sono opere minori dove l’arte diventa artigianato fino a semplice prodotto industriale.
Così le pinacoteche le librerie si stipano di croste e libelli illeggibili, e lo spazio diminuisce. La storia della arrampicata in val di susa, scritta con bel trasporto da Gandiglio e piacevolmente leggibile, vive un poco nell’orizzone asfittico del solito provincialismo sabaudo che da 50 anni si autonarra nel nuovo mattino che sta diventando come la corazzata Potëmkin.
L’articolo è pregevole ed ha il merito di portare l’attenzione su alpinismo, arrampicata e personaggi della valle di Susa. Valle che, pur frequentandola assiduamente, noi torinesi, almeno quelli della mia generazione, l’ abbiamo un po’ snobbata nei nostri racconti, attratti di più da ciò che arrivava dalla Provenza e dalle Prealpi Francesi.
E’ chiaro che nella ricerca mancano scalate e personaggi che sono stati importanti ma è difficile reperire tulle le notizie antiche anche perché non sono molti gli scalatori che hanno lasciato la testimonianza delle proprie avventure e delle proprie emozioni attraverso la scrittura. Molti fatti sono noti attraverso il racconto verbale che con il passare degli anni può divenire poco attendibile. Spesso poi ciò che si ricava attraverso il Web è superficiale ed impreciso
Isidoro Meneghin, ad esempio, che pure stillava una precisa relazione tecnica di ogni via aperta, non diffondeva nulla e teneva ogni cosa archiviata con cura per se stesso. Vorrei segnalare due scalate importanti in Valle di Meneghin: Parete Bianca di Caprie, prima via aperta: la via degli Specchi in solitaria e scoperta e prima via tracciata del Torrione di Campambiardo, sempre in solitaria.
Per #31 Giulien. Ti incoraggio a produrre l’articolo cui accenni nel tuo commento. In effetti, per come è concepito il buon articolo di Gandi, sarebbe difficile (ma non impossibile) un’integrazione pura e semplice.
Gentile sig. Gogna,
Condivido la necessità di integrare l’articolo, almeno per rispetto dei luoghi e personaggi della Valle. Senza farmi spingere dall’impulso una risposta affrettata stavo preparando un articolo che comprendesse tutto il periodo dagli anni 80 fino a questi ultimi mesi, ma leggendo il commento successivo dell’autore:
“Ho cercato di inserire non chi ha alzato il livello dell’asticella, ma chi ha proprio cambiato il target, chi la rivoluzione l’ha fatta con la testa piuttosto che con le braccia. Da sportroccia agli anni 2000 di fatto l’arrampicata si è spostata quasi solamente verso la performance sportiva, mettere una carrellata di gradi e primi salitori sarebbe stato noioso e pesante da leggere (e ascoltare) a mio parere.”
Devo dire di essermi sentito molto dispiaciuto, in quanto ritenevo l’autore una persona di spirito aperto e con uno sguardo diverso. Invece di “cercare” la storia dell’arrampicata online l’autore avrebbe potuto consultare anche solo le guide successive a quella di Grassi e chiedere alla persone con le quali ogni tanto condivide la corda. Nascondersi dietro la presunta difficoltà di trovare le informazioni si è rivelato dalle sue stesse parole essere solo una scusa per potere raccontare la sua visione romantica e personale della storia. L’articolo dell’autore non ha bisogno di una integrazione, manca troppo e spero più avanti di potere condividere di più. Albi, la mia è una critica doverosa, non prenderla male, la valle ha di più da raccontare, Boia chi dimentica.
Nel commento #23 l’Autore del post si mostra sostanzialmente favorevole a integrare il suo post con storie e profili di personaggi che non ha citato.
Da parte nostra appoggiamo questa iniziativa, per completezza dell’indagine storica, e siamo disponibili a pubblicare un’integrazione, anche ampia, anche eventualmente una “seconda puntata”.
Io credo che sempre si possa fare di meglio, ma questo non significa che non si sia fatto bene o alme o abbastanza bene.
Di certo dal punto di vista arrampicatorio la bassa val Susa sta vivendo un momento di vitalità, di scoperta e di riscoperta evidente e questo credo sia un bene.
Rispetto per l’operato altrui se veramente ne vuoi raccontare e dimostrare la storia reale, nel bene e nel male. Diversamente è solo voler far parlare di sé.
Non conosco quella realtà, troppo distante dal divano su cui ora sono seduto, agli antipodi del settentrione.
Mi vengono in mente alcune osservazioni:
– articolo molto piacevole e ben scritto. Mi chiedo se chi segnala lacune e dimenticanze avesse a sua volta pubblicato un articolo, così da poterne godere tutti, oppure per poterli confrontare.
La storia, le storie hanno un narratore e portano un punto di vista. Succede, ma non lo considero un difetto, è a mio avviso un aspetto.
– Vie modificate. Anche in questo caso, mi pare che chi avesse voluto/potuto fare meglio, rirpettando i tracciati originali, avrebbe potuto agire. Poi non mi pare che chi ha richiodato abbia eliminato fessure diedri, appigli e appoggi dei “tracciati originali”. I salitori originali non avevano davanti a loro protezioni o protezioni non amovibili, pertanto, mi pare, nulla vieti, volendo cercare un confronto con loro, sapendo dove sono riusciti a salire, di ripercorrere i loro tiri
Grazie a chi ha dedicato tempo, soldi e passione per raccontarci queste storie e rispolverato e riattrezzato, dicono con qualche variante, queste linee
Quando parlavo di visione romantica.
Nella prima salita della Parete dei Militi è stato però incredibilmente dimenticato Leo Dubosc, la cui via porta ancora oggi il suo nome in primis. La Dubosc alla Militi è di fatto la prima via aperta sulla parete. Inoltre, se non erro, la salita si svolse non pochi giorni dopo l incidente a Calosso, ma l anno dopo.
Articolo scritto benissimo ma anche secondo me manca una parte fondamentale di storia.
L’ arrampicata in valle di Susa, ora, è in gran parte figlia della generazione di Gallo, Branca, Vighetti, Giorda e altri che, 30 anni fa, hanno alzato l’asticella ponendo un nuovo target.
Sicuramente il periodo precedente è stato di scoperta e di esplorazione ma quello successivo ha permesso l’evoluzione che ci ha portato a oggi.
Sono convinto che gli anni ’80 ’90 e perché no, i primi 2000 siano stati importanti tanto quanto la generazione precedente. Ogni periodo ha permesso di accrescere il valore e la fama della Valle.
Va bene il periodo di Grassi, Motti, Galante ecc…ma quella è stata solo una parte.
Per la questione richiodatura: nessuno è obbligato a ripetere determinate vie. Richiodare modificando la sicurezza e l’ingaggio, a mio parere, è una mancanza di rispetto nei confronti di chi l’ ha aperta.
La valle offre già tutto a tutti. Non rendiamola un supermercato.
Ricu
Buonasera a tutti, ringrazio chi ha letto l’articolo e apprezzo siano state fatte osservazioni sicuramente costruttive. Sarò sintetico e andrò per punti.
1) Richiodatura: parere personale, io non toccherei mai nulla, il volere e il valore dell’apritore dovrebbero rimanere invariati in eterno, se qualcuno è salito senza spit lo posso fare tutti (purché altrettanto preparati). Riguardo alle vie di rocca bianca, rocca nera e torrioni limitrofi (Claudio, il Doc, Marco e tutti gli altri che han speso tempo, soldi e fatica) la vedo diversamente. Le vie moderne a spit (quelle “riattrezzate”) le vedo solamente come varianti delle vie originali di Motti e compagni, o addirittura come vie ex novo. Tant’è che il nome è sempre stato cambiato (a mio parere giustamente) e chi vuole ripetere i tracciati originali lo può tranquillamente fare, purché armato di friend, voglia di ravanare e guide d’epoca. Io personalmente su alcuni itinerari l’ho fatto quando stavo scrivendo la guida sulle multipitch della provincia e gli spit non mi hanno quasi mai disturbato. Ad esempio, se vado a ripetere “Edipo abita ancora qui” non sto facendo una via di Motti, ma una via di Pajola, se voglio ripetere quella di Gian Piero salirò invece “Edipo non abita più qui”.
2) Questione personaggi mancanti.
Ho cercato di inserire non chi ha alzato il livello dell’asticella, ma chi ha proprio cambiato il target, chi la rivoluzione l’ha fatta con la testa piuttosto che con le braccia. Da sportroccia agli anni 2000 di fatto l’arrampicata si è spostata quasi solamente verso la performance sportiva, mettere una carrellata di gradi e primi salitori sarebbe stato noioso e pesante da leggere (e ascoltare) a mio parere. In qualsiasi caso avete ragione, Branca, Vaio, Gallo, Vighetti, Rebola e tantissimi altri (che ho la fortuna di conoscere e con cui condivido di tanto in tanto la stessa corda) hanno sicuramente dato un contributo importante alla valle, ma inserirli tutti era (quasi) impossibile. Inoltre, purtroppo, le storie di tanti personaggi non si trovano ne online ne sulle vecchie guide, ma solo nella memoria di sempre meno persone, quindi, letto il commento di Sobrà (che ho apprezzato molto) lancerei un piccolo giochino.
Se vi va sarebbe bello scriveste qui sotto due righe su un aneddoto o un personaggio della valle che meriti un posto nella storia, io provvederò a raccogliere tutti i commenti e ad integrarli al mio testo. Verba volant scripta manent.
Grazie a tutti,
Un abbraccio
Gandi
Scusate. Secondo me si fa un po di confusione relativamente al terreno di cui si parla. In quanto un conto sono i luoghi dove ci si portano appresso chiodi e martello anche solo per ribattere cosa c’è in posto. Un altro sono le vie di più tiri su terreno di falesia. Solitamente su queste non ci si porta nulla se non i rinvii e qch protezione veloce, per cui se in posto ci sono dei chiodi normali l’affidabilità di questi viene meno molto più rapidamente che quella di un tassello. Francamente non vedo cosa ci sia di più etico nel sostituire un chiodo con un fix. Fanno lo stesso lavoro sono nello stesso posto ma uno è per lungo tempo più sicuro dell’ altro. Diverso è se uno toglie tutto ed i ripetitori si mettono il loro materiale a condizione che questo sia amovibile, perché se si tratta di chiodi alla fine succede come a yosemite che le fessure cambiano di misura.😉
Un ricordo di Mauro Vaio
Ho aperto una via sulla Rocca Bianca nel cuore della parete tant’è che avevo pensato di chiamarla ‘via del cuore’. Nonostante le sollecitazioni non trasmisi una relazione a Gian Carlo Grassi, che quando pubblicò una guida la indicò come ‘via Sobrà e c.’. E sì che con Gian Carlo si andava spesso sui massi, talvolta anche con Marco Bernardi e Branca. Stranamente per la Rocca Bianca la comunicazione tra di noi non funzionò.
La mia via, senza spit, alla Rocca Bianca era attrezzata in modo osceno: chiodi mal cementati, nut martellati a forza in qualche cavità e similia. Vaio mi contattò e mi chiese il permesso per spittare il tracciato, opera a cui era interessato, se non ricordo male, anche Rebola. Ovviamente, con Vaio, mi dichiarai subito d’accordo, e sicuramente Vaio e Rebola fecero un buon lavoro, con eventuali minime modifiche, che però non ebbi modo di vedere, perché non tornai più alla Rocca Bianca, se non alle paretine dove potrei essere stato il primo a tracciare qualcosa(senza spit). Chissà se anche il lavoro di Vaio è stato rimaneggiato? Non sono più in grado di andare a dare un’occhiata neanche da secondo, e a calarmi dall’alto mi troverei a disagio. Ma, non importa, mi è sufficiente il ricordo di quel gentiluomo che era Mauro Vaio, andatosene troppo presto.
allora ci dispiaceva che un settore così bello fosse stato totalmente dimenticato, e abbiamo agito in buona fede. Solo chi non fa non sbaglia mai.
Questa tua affermazione la rispetto e apprezzo tantissimo. riguardo all’invito alla rocca bianca, quando il ginocchio guarirà e se ne avrò le capacità tecniche sarebbe un piacere👍
Dalle mie parti ho richiodato una importante via classica, l’ho fatto sostituendo i vecchi chiodi a fessura con altrettanti nuovi chiodi a fessura. Lo stile non è stato stravolto, il tracciato originale rispettato, così da immedesimarsi nella mentalità del tempo in cui è stata aperta . Così la via a mio avviso è sicura anche se non una scala per polli. Qualcuno ha obiettato che potevo mettere i fix, perché con i chiodi a fessura l’ho condannata all’oblio. Beh…per me chi la pensa così ha una mentalità chiusa.
#16 Riccardo quando vorrai andiamo a ripetere le vie alla Rocca Bianca, libro di Cordola alla mano, così toccherai con mano che le modifiche sono state minime. In ogni caso ogni azione è figlia del suo tempo, forse oggi saremmo stati più conservativi; allora ci dispiaceva che un settore così bello fosse stato totalmente dimenticato, e abbiamo agito in buona fede. Solo chi non fa non sbaglia mai.
E buone feste al gognablog!
E le paretine di marmo ? E le ferrate per i vejot ? Spuntano stancoti sotto la Sacra oppure passano da una ferrata a quella successiva su per lo Chaberton (parlo per sentito dire 😉). Prolifica Val di Susa ! Una valle per tutte le stagioni (della vita …).
9, Antonio, e io ti chiedo : sarebbe stata una possibilità quella di richiodare solo le 4 vie più meritevoli e che creavano meno confusione tra loro, risparmiando sul materiale? Non sarebbe stato anche quello un buon modo di omaggiare grassi e meneghin? Riguardo la ri-creazione di stampo “gognesco” ( non mi si voglia per l’aggettivo, derivato da un messaggio scritto dopo abbondanti libagioni alcoliche 🙂) penso sia più applicabile a vie approcciate meno all’arrampicata libera su protezioni fisse/resinate e più a vie approcciate al free climbing di quel periodo. Piacevole conversazione comunque 🙂
Personalmente apprezzo molto il valore delle Guide Alpine e di tutti gli appassionati che, spesso a loro spese , puliscono emettono in sicurezza le vie con competenza e professionalità..
Senza nulla togliere a chi ha lavorato e le ha aperte… in altri tempi…con attrezzature ormai obsolete …e su aree che il cambiamento climatico ha oggettivamente e drammaticamente cambiato creando situazioni potenzialmente rischiose.
Anche io dalle mie parti ho richiodato delle vecchie, sostituendo i vecchi chiodi, in alcune con fix o resinati, in altre invece rimettendo nuovi chiodi a fessura.
Ma non ne ho modificato il tracciato.
9 Mighelli, prima di tutto io non disprezzo nessuno, ho solo espresso una mia opinione.
Poi NON ho detto che sono contrario alla richiodatura, a cambiare i vecchi e marci spit, chiodi, ect. che non garantiscono più una sicura scalata.
Ho scritto che non capisco e non condivido perchè si modifica il tracciato originario delle vie. Una via rispecchia lo stile di chi l’ha aperta. Quindi se si vuole rivivere la mentalità dell’apritore perche cambiarne tracciato e stile??
Solo per un presunto diritto della fruibilità?
Bene, per me non è un diritto.
Eterna diatriba quella delle richiodature. Sul come sul dove è con cosa. Personalmente credo che relativamente alla Val susa sia stato fatto un lavoro egregio che solo in pochi casi ha snaturato delle linee esistenti (vedasi pilastro della S.Marco già oggetto di un mio articolo su Planet mountain)…Oggi la valle per varietà di itinerari, di stili e di numero di falesie potrebbe reggere il confronto con valli decisamente più blasonate. Il problema ? La ricettività ! Chi venendo da fuori volesse fermarsi qualche giorno non ha una gran scelta. Io ho sempre cercato terreni nuovi piuttosto che “recuperare” ma chi lo ha fatto torno a dire che secondo il mio modesto parere lo ha fatto bene. In subordine ho menzionato il solo Vaio per inquadrare un periodo storico che ha visto molti personaggi muoversi in valle, alcuni dei quali sono tutt’ora in attività. Bosio, Gontero, Pettigiani, Rumiano, Salino ecc ecc
Articolo molto ben scritto e scorrevole da leggere.Diciamo Alberto che tutto il periodo che va dagli anni 80 agli inizi del nuovo millennio te lo sei un po’ perso…Elio ricorda Vaio ma anche i vari Gallo Rebola Mochino Branca Vighetti e ne sto dimenticando almeno altrettanti hanno avuto un ruolo importantissimo nella storia arrampicatoria della valle.secondo me visto che il lavoro è ben fatto meriterebbe aggiungere anche quella parte.
“[…] beh, penso che non ci sia nulla di più difficile da vedere di ciò che è vicino. Si può conoscere il passato, si può prevedere il futuro, ma vedere il presente risulta veramente difficile […]. È così anche nella vita quotidiana, più le cose sono vicine agli occhi più si vedono sfuocate.”
Ragazzi, qui stiamo già sconfinando in riflessioni di carattere esistenziale! E io a questo punto mi devo trattenere, altrimenti attacco un pippone che non finisce piú. 😂😂😂
#7 Benassi può darsi che tu abbia ragione; forse però bisogna valutare caso per caso. Ti faccio un esempio. A Rocca Bianca nel ristretto settore tutto a sinistra c’erano ben sette vie di Grassi e una di Meneghin, tutte a spit rock e qualche chiodo. Erano vie che in vari tratti si incrociavano o si sovrapponevano e non erano più ripetute da nessuno per la pericolosità del materiale. Con Claudio Pajola ne abbiamo richiodate quattro, cercando di evitare sovrapposizioni dei tracciati e dunque rispetto al tracciato originario qualche rettifica è stata fatta. Riattrezzare tutte e otto le vie sarebbe stato innanzitutto un costo non indifferente (visto che ce le paghiamo di tasca nostra) e avrebbe riproposto il problema delle sovrapposizioni dei tracciati. Ora, se mi dici che piuttosto avremmo dovuto lasciare tutto com’era (e quindi continuare a destinare il settore all’oblio), ti chiedo: sarebbe stato questo un modo migliore di omaggiare Grassi e Meneghin rispetto a quello che abbiamo scelto di fare? Ti faccio anche notare che quella che con disprezzo definisci il mantra attuale, la fruizione, non è così dissimile dalla ri-creazione che il nostro padrone di casa ha giustamente sostenuto sin da Cento nuovi mattini. Di sicuro su quelle vie con materiale vetusto non vi era più alcuna ri-creazione, adesso almeno c’è fruizione.
Si tratta pressappoco degli stessi problemi che devono affrontare gli archeologi per conservare le opere del passato. Restauro? Quale restauro? Restauro conservativo? Restauro “innovativo”? Per esempio, il restauro fantasioso del Palazzo di Cnosso suscitò molte critiche e ora tale metodo è stato abbandonato. D’altra parte, non si può neppure pretendere di lasciare a terra i frammenti delle colonne di un tempio.
Forse – e lo dico in tono non del tutto scherzoso – prima di risistemare una via servirebbe informarsi sulle metodologie di restauro archeologico, per trarne eventualmente ispirazione.
C’è chi ha una visione romantica dell’arrampicata, chi invece vede tutto in funzione del gesto, del grado e per questo non si pone minimamente il problema di cancellare una storia. Possibile che non ci possa essere una convivenza tra i diveri stili?
Se cambi l’itinerario come si fa ad affermare questo?
Scusate ma questa è una balla, è una scusa .
Già la FRUIBILITÀ il nuovo mantra di oggi. Tutti devono fare tutto. La roccia piegata alle esigenze dell’arrampicatore. Il contrario è roba da bacucchi .
Ciao Antonio, magari mi sono spiegato male ( cosa plausibile, non sono un granché a scrivere!) ma non è che io non apprezzi il lavoro, enorme sicuramente, che tu e altri avete fatto. Semplicemente per alcune vie iconiche mi sarebbe piaciuto fosse stata mantenuta la linea originale, a discapito forse dell’attrazione che potrebbero avere verso chi preferisce linee più “attuali”. Quando abbiamo ripetuto edipo era inizio autunno in una giornata fredda, si scalava benissimo senza morire di caldo e la via è stata comunque piacevole, nonostante fosse praticamente invasa dalla vegetazione (nel terzo facile tiro, gli spit erano completamente sepolti, in uscita prima della sosta finale un cespuglio di rovi di 2×2 metri ha alzato la difficoltà a 8c con abbondante versamento ematico 😛). Abbiamo pulito quello che riuscivamo a mano ma con i rovi abbiamo fatto il minimo sindacale per sopravvivere. La via è bella anche così, ma la mia idea quando approccio una via del genere è di provare a immedesimarmi nel o nei primi salitori per godere ( in minima parte sicuramente) di quello che loro hanno dovuto fare. Per farti un esempio pratico, se faccio edipo lo faccio (io) per ripetere una via di Motti che per lui è stato un punto di svolta e con un approccio anche intellettuale se vogliamo nei suoi confronti. Se salgo “pioggia di lacrime” alle placche di Oriana, chiodata dall’alto con l’intento di superare delle placche bellissime nel modo più diretto possibile lo faccio per la bellezza ( in quel caso elevata secondo me) del tracciato, senza dedicarmi particolarmente a entrare nella testa di chi l’ha salita per primo. Ma probabilmente le mie sono solo seghe mentali derivanti da 65 ore di lavoro nell’ultima settimana nel panificio e dall’impossibilita causa infortunio di andare a arrampicare nelle prossime settimane, quindi abbi pazienza 😂 spero di trovarti in zona qualche volta, che magari davanti a una birra, per dieci minuti, posso spiegarti a voce quello che magari non riesco a esprimere per iscritto 😉
Sono uno di coloro che negli ultimi dieci anni hanno riattrezzato vie lunghe in val di Susa, precisamente nei comprensori di Rocca Bianca, Rocca Nera, Pilastro Rosso e San Valeriano. Le vie che siamo andati a rivedere erano da anni cadute nel dimenticatoio più completo, vuoi perché non più rispondenti all’attuale spirito del tempo dell’arrampicata sportiva, vuoi perché -in seguito al mutamento climatico- erano completamente infestate da vegetazione di ogni sorta.
Non abbiamo fatto un recupero filologico, è vero, e forse avremmo potuto farlo: ma siamo proprio sicuri che vie in cui passi di artificiale si alternano a tratti tortuosi di III-IV grado avrebbero incontrato il favore degli arrampicatori odierni? O non avrebbero rischiato di cadere anch’esse nell’oblio entro pochi anni dalla richiodatura?
I recuperi filologici delle vie temo che possano risultare più simili a interventi museali fatti per “congelare” una via, che a un modo per renderla nuovamente fruibile. Senza contare che una via abbandonata spesso corrisponde a un’intera parete abbandonata, perché ben pochi avrebbero il coraggio di aprire nuove vie che andassero a sovrapporsi e a cancellare le vecchie. Forse, il sistema che noi abbiamo adottato in val di Susa, e i fratelli Enrico in modo ben maggiore per quantità e difficoltà in val di Lanzo, è il modo più onesto di operare per cercare di far conoscere agli arrampicatori di oggi gli itinerari di ieri.
Completamente d’accordo. Quale è il senso, il motivo, di cambiare il tracciato originale? Così facendo non si da valore, ma si cancella la storia sulla roccia. Poi è inutile scrivere e raccontare, se poi quello che si racconta non lo si ritrova sulla roccia.
Complimenti per il bell’articolo, ogni volta che ne ho l’occasione faccio volentieri un salto in val susa perché trovo che sia stupenda. L’unica cosa che soggettivamente mi disturba un po’ è che ho notato , leggendo soprattutto l’ultima guida di versante sud proprio dedicata in esclusiva a questa valle, che molte delle vecchie linee sono state raddrizzate o ” rivalorizzate”. Per carità, non sono un integralista del rischio gratuito su protezioni vecchie o obbiettivamente mal posizionate… Ma.. Ci sono tante vie in val susa, costava tanto mantenere il tracciato originale di alcune vie significative aperte da persone che fanno parte della storia arrampicatoria di questa valle? Prendo ad esempio, perché l’ho ripetuta poco tempo fa, “edipo abita ancora qui” alla rocca nera, che tu definisci rivalorizzata col giusto numero di Spit 0er renderla sicura. Sulla seconda affermazione mi trovo d’accordo al 100 %con te, è ben protetta. Ma riguardo alla rivalorizzazione mi chiedo perché? Non sarebbe stato più bello permettere, con una nuova chiodatura, di salire lungo la linea che ha seguito Motti, a costo di qualche tiraggio di corda in più e di un po’ di discontinuità? Opinione mia personale e non condivisibile ci mancherebbe… Comunque, la val susa è bellissima lo stesso e si vede quanto la ami dal tuo scritto, ancora complimenti! Riccardo Erriu
Bravo Alberto. La tua passione e dedizione sono palpabili sia sul terreno che sulla carta e sei riuscito a coagulare un bellissimo gruppo attorno a te. Credo però che in questa valutazione storica Mauro Vaio meritasse di essere menzionato.