Valloni dimenticati e il ricordo di Grassi
(divagazioni scritte nel 1998)
Lettura: spessore-weight(1), impegno-effort(1), disimpegno-entertainment(2)
La prima volta che visitai il Vallone di Sea ero assieme a Gian Piero Motti, lo scopritore moderno di questi luoghi selvaggi ed abbandonati. Vidi subito che in tutta l’alta Val Grande e particolarmente attorno a Forno e nel vallone erano completamente assenti le conifere, rarissimi i faggi. Solo attorno al Santuario prosperavano alcune grandi piante. “Forno”, una parola che poteva spiegare il perché. Fin dalla seconda metà del III secolo il villaggio era diventato il maggior centro dell’attività siderurgica della valle. Il ferro, estratto dalle miniere, era portato qui a dorso di mulo. Nel Medioevo il materiale grezzo giungeva fin qui perfino dalla Francia, attraverso il Col des Pariotes ed il Col Girard, valichi che, situati ad oltre 3000 metri, erano più facilmente transitabili allora che oggi. Il combustibile necessario a quell’attività, che portò parecchio benessere in Val Grande, ben al di là delle normali attività pastorali, era recuperato in luogo ed a lungo andare, verso il XVIII secolo, cominciò a scarseggiare determinando la fine di una tradizione e del benessere. Gli operai ed i fabbri furono costretti ad emigrare, Forno si spopolò ed il territorio fu lasciato all’attuale solitudine. Il lungo Vallone di Sea è monotono solo per chi questa storia non ha nulla di significativo: al contrario, è una grande emozione risalirlo lentamente, gias dopo gias, balma dopo balma, fino a ritrovare, nei ghiacciai e nelle pietraie immense, una ragione anche attuale di tanto abbandono.
Veduta dal Passo delle Lose sulle Alpi Graie, dalla Punta Mezzenile alla Levanna Orientale (Val Grande di Lanzo)
Il Vallone di Forzo e uno dei tre valloni in cui si divide l’alta Val Soana (Forzo, Campiglia e Piamprato, tutti situati nel territorio del Parco Nazionale del Gran Paradiso). Dopo gli abitati di Forzo e Tressi, senza più rotabili, le altre frazioni non sono più abitate tutto l’anno. Boschietto e Boschiettiera sono l’avanzo odierno di una vecchia civiltà montanara. Qualche casa è stata ristrutturata ed è abitata d’estate, come pure in ordine è la chiesa della Madonna della Neve a Boschietto, il cui campanile si vede emergere dagli alberi già dalle Grange Nasase. A Boschiettiera è incisa una croce ad ogni ingresso di casa, mentre sulla prima abitazione figura una scritta illeggibile: solo l’ultima parola è chiara. “Morta”, così isolata, è un brandello di pensiero di non eccessivo buon augurio. Una storia terribile racconta di una ragazza accoltellata dall’innamorato respinto, proprio in quella cantina dove aveva appena portato le tome dell’alpeggio per conservarle al fresco. Per portare un po’ di calore in queste tristi storie, ecco un forno restaurato da poco, attorno al quale da qualche anno si tiene la “Festa del Pane”. A Boschietto c’è una casa dei guardiaparco ed è purtroppo l’unica testimonianza di un parco che qui non ha ancora saputo far tesoro di queste bellezze per lo sviluppo delle attività locali. E, a proposito di tesori, l’oro che tre fratelli falsari prima d’essere impiccati avevano nascosto alla Barma non è stato ancora ritrovato…
Federico Raiser e Davide erano già saliti dal Bivacco Rivero al Passo delle Lose, di notte fonda. Il terreno non era dei più agevoli e, arrivati al passo, s’infilarono nei sacchi piuma per aspettare un’alba che non fu all’altezza della situazione. Questa volta Federico ed io siamo saliti dal Vallone di Sea e fa un freddo cane. Si stanno formando le cascate di ghiaccio in questo vallone che fu territorio di caccia di Gian Carlo Grassi. Ricordo la sua conferenza di diapositive, che lui intitolava Il Ponte di Cristallo, il suo amore per le colate effimere di ghiaccio.
Le cascate di ghiaccio si trovano ovunque d’inverno ci sia un ripido corso d’acqua che geli consistentemente e quindi Alpi e Appennini sono una miniera di cascate. Nelle Alpi esistono numerose vallate che hanno una altissima concentrazione di cascate, autentiche mecche per i cascatisti. Valle di Susa, Valli di Lanzo ed altre solo per rimanere in Piemonte sono un vero paradiso per questa attività ed offrono tutti i terreni di gioco possibili. Ma al di sopra, in alta montagna, vi sono le grandi pareti di ghiaccio.
Ancora negli anni ’60 la tecnica di salita su ghiaccio aveva subíto ben poche innovazioni e somigliava moltissimo a quella dei pionieri di fine ‘800. In quel periodo furono superate quasi tutte le maggiori pareti di ghiaccio delle Alpi con l’ausilio di una lunga piccozza con la quale intagliare i gradini e con semplici scarponi chiodati. Queste ascensioni erano frutto di un rapporto fra uomo e montagna basato su anni di studio e di attesa per cogliere il momento propizio alla scalata.
Con questo stile, la grande guida Christian Klucker superò pareti nord come quelle del Lyskamm e del Piz Roseg, ancor oggi un buon banco di prova per i moderni ghiacciatori. Nel 1924, Fritz Rigele inventò il chiodo da ghiaccio. Con l’uso di questo strumento, i tiri verticali su ghiaccio divennero accessibili.
Benché usati dai montanari già dal 1574, i ramponi, inizialmente ad otto o dieci punte, furono introdotti in alpinismo ai primi del ‘900 e solo nel 1910, l’inglese Oscar J. L. Eckenstein inventò i ramponi a dodici punte, con le due punte anteriori rivolte in avanti in modo da facilitare la presa sui pendii più ripidi. Tuttavia la progressione sul ghiaccio vivo, era sempre affidata ad un lungo ed estenuante lavoro di gradinatura che metteva a dura prova i polsi degli scalatori. Sembrava tuttavia che non esistessero alternative a questa tecnica ed ancora con essa Walter Bonatti risolse alcuni grandi problemi come la parete nord del Grand Pilier d’Angle nel massiccio del Monte Bianco.
All’inizio degli anni ”70, in maniera indipendente, negli USA, in Scozia ed in Francia fu messa a punto una tecnica rivoluzionaria che permetteva di salire i pendii più ripidi senza dover intagliare gradini e quindi con rapidità e maggior sicurezza. Tale tecnica è oggi nota come piolet traction.
Poiché con la piolet-traction era possibile superare qualsiasi tipo di pendio glaciale ecco che i più audaci e fantasiosi fra gli scalatori americani pensarono di usarla anche per scalare le cascate di ghiaccio. Così nacque quella che, benché sia un’attività indubbiamente seria, è anche un modo diverso ed affascinante per conoscere ed entrare a contatto con la natura invernale ed i suoi segreti.
La tecnica di salita in piolet-traction è estremamente semplice ed implica l’uso di due attrezzi a becca ricurva e di un paio di ramponi a dodici punte. Si impugnano gli attrezzi nel punto più basso del loro manico e li si infiggono in alto, nel ghiaccio, ancorandone la becca; una volta ottenuto l’ancoraggio ci si innalza sulla parete con i ramponi giungendo in posizione a braccia piegate. A questo punto, si svincola un primo attrezzo e lo si infigge più in alto, ripetendo così i movimenti precedenti. Più il pendio diventa verticale e maggiore sarà la trazione e quindi lo sforzo che si produrrà a carico degli arti superiori, viceversa su pendii meno ripidi, il peso deve gravare il più possibile sulle gambe.
Gian Carlo Grassi. Foto: Marco Blatto
Il francese Walter Cecchinel e l’americano Yvon Chouinard si possono considerare gli inventori della nuova tecnica. Entrambi stupirono il mondo alpinistico con le loro salite a ripidissimi colatoi ghiacciati: Chouinard salì il Diamond Couloir sul Mount Kenya mentre Cecchinel il colatoio nord dei Dru. In Italia restano nella leggenda i nomi di Gian Carlo Grassi e Gianni Comino, la più forte coppia di ghiacciatori mai espressa dal nostro alpinismo. Purtroppo entrambi sono scomparsi in due diversi incidenti ma il loro nome resterà per sempre legato alle prime esperienze degli italiani sulle cascate. Grassi in particolare condusse una ricerca quasi maniacale che lo portò negli anni a perfezionare la tecnica e a poter superare colate verticali estremamente difficili.
Accanto a Grassi e Comino sorse una vera e propria scuola che impose la scalata su ghiaccio come l’unico mezzo per superare pareti che per la loro pericolosità sono impossibili nella bella stagione: quando ghiaccio e neve bloccano la roccia friabile e creano delle linee di salita, questo è il momento per spingersi su quelle muraglie altrimenti inscalabili.
Fra le tante realizzazioni di spicco si può ricordare la via tracciata sulla altissima parete sud delle Grandes Jorasses, resa possibile da una sequenza logica di canali ghiacciati e quella del canale nord ovest del Monte Legnone (Alpi Centrali) che con i suoi 1700 metri di dislivello è la più lunga salita su cascate delle Alpi.
Piccozza e martello-piccozza devono avere una lunghezza variabile da 50 a 45 cm. I modelli recenti sono modulari e quindi hanno la possibilità di cambiare le becche. La becca è la parte forse più importante in quanto è tramite essa che si esercita l’ancoraggio e la trazione sul ghiaccio. Esistono due forme principali di becche: quella “classica”, molto arcuata e dentellata nella parte inferiore della punta e quella a “banana” curvata in senso opposto alla becca classica. Uno dei due attrezzi deve avere la massa battente di un martello per poter infiggere i chiodi da ghiaccio o da roccia, questi ultimi nelle pareti che rinserrano la cascata o il canale di ghiaccio. I moderni ramponi sono quasi tutti di tipo rigido ed a volte possono avere anche 14 punte. I chiodi da ghiaccio sono di tipo tubolare e possono essere infissi mediante avvitamento o percussione.
2
BELLISSIMO E MERITEVOLE RICORDO DEL GRANDISSIMO GIANCARLO COL QUALE IO, IO MODESTO ALPINISTA AL SUO CONRONTO, HO AVUTO IL PIACERE DI ARRAMPICARE. GIUSTO RICORDARE ANCHE IL BRAVISSIMO COMINO: BRAVO ALESSANDRO!
E’ PERO’ TRISTE CONSTATARE CHE, A DISTANZA DI TANTI ANNI, NON SIA ANCORA STATO PUBBLICATO UN LIBRO SU GRASSI CHE HA SEGNATO LA STORIA DELL’ALPISMO ED E’ STATO DOPO GERVASUTTI IL PIU GRANDE ALPINISTA PIEMONTESE DOPO GERVASUTTI.
LUCIANO RATTO