La dipendenza – di qualunque genere – è sempre una dichiarazione di debolezza. Ogni debolezza è una mortificazione della capacità creatrice. Non vederlo costringe ad accettare come giusto il mondo che c’è.
Virus
di Lorenzo Merlo
(ekarrrt – 25 giugno 2023)
Serve un dio
La tecnologia è ontologicamente un dio, al cui potere vogliamo genufletterci; la cui gloria vogliamo celebrare; alle cui soluzioni aspiriamo; la cui verità superiore non discutiamo; la cui mortificazione umanistica non sospettiamo; la cui tossicità non immaginiamo.
Spesso, quando non sempre, è disposizione comune far corrispondere e vivere la tecnologia come progresso. Sarebbe anche vero, se non fosse considerato l’unico, l’autentico e soprattutto il solo.
Nella concezione della tecnologia sono insiti, impliciti, costituenti la quadratura, il giusto e il perfetto, ovvero ciò che manca. Abbracciandola, crediamo di poter indagare il mistero e, un giorno, darne risposta. Il pensiero e il sentimento che avvengono in noi a causa del fideismo scientista di cui siamo protagonisti ne risulta infettato. Una asintomatica ossessione per il modello tecnologico cui dobbiamo tendere ci gonfia l’ego individuale, sociale, politico. In nome del credito nei suoi confronti, non abbiamo incertezze se accodarci esultanti al bene degli algoritmi, dei vaccini, della digitalizzazione: più ce n’è, più tutto sarà facile, comodo ed economico. In sella all’emozione digitale, l’arroganza umana decuplica le atrocità che già in territorio analogico aveva dimostrato di saper commettere.
Il liberismo, l’individualismo, l’edonismo hanno liquefatto i valori comunitari. Il legame con le origini della vita, di cui siamo espressione, non è più affare che conti. Ciò che interessa corrisponde all’egoismo. Abbiamo abiurato a qualcosa di superiore e misterioso a favore di un Io steroidizzato fino alla misura divina. Inconsapevoli di correre al massimo su un binario morto, diamo tutto. Una corsa che ci offre la possibilità di stimare la perdizione in cui viviamo, l’abrogazione di noi stessi e tutto quanto crediamo superfluo al progresso materiale.
“A Oxford, tra gli anni cinquanta e sessanta dell’Ottocento, Ruskin mise in pratica il precetto di entrare in contatto con il corpo, guidando squadre di esponenti della gioventù dorata a costruire una strada di campagna: le mani dolenti e callose, il segno virtuoso dell’essere in contatto con la Vita Vera” (1).
Strategica mimesi
Il potere tecnologico è il più occulto. Ma non è segretato. È diffuso sotto il sole, è distribuito, accolto come manna dal cielo a tutti noi. È in tutte le vetrine, è accessibile a chiunque. Chi vorrebbe oggi rinunciare ai servizi tuttofare della tecnologia? Chi non vedrebbe in quella rinuncia nient’altro che uno stupido arretramento della qualità della vita?
Come ciliegie a maggio, ci sembra un diritto averla e un dovere venderla.
Ma quale progresso può esserci in una dipendenza? In ogni tipo di dipendenza vive l’assoluta mortificazione della libertà, della creatività, dell’autonomia, della forza, dell’invulnerabilità degli uomini. Ogni dipendenza vive nutrendosi dell’energia che le diamo e che ci succhia, sottraendola a quella forza e a quella creatività che ci permetterebbero il senso di una vita piena, la consapevolezza di realizzare la nostra natura.
Ogni dipendenza azzera la profondità spirituale. Questa viene prima denigrata, quindi dimenticata, considerata superflua, svuotata di significato. La ragnatela dell’universo dell’uomo, composta originariamente da infiniti filamenti, una volta dimenticata la consapevolezza del legame con l’origine, ha perduto la sua elasticità e potenzialità di farci percorrere l’infinito. Si è ridotta a pochi aridi cavi economici e scientisti, che guidati dalla visione di aver sbaragliato ogni nemico, stanno andando lentamente a chiudersi su se stessi, senza neppure il sospetto che soffocheranno il ragno.
“Tecnici e utenti si preoccupano, giustamente, dei virus che possono intrufolarsi nei computer; mentre vi è una ben limitata coscienza di come lo stesso computer possa comportarsi da virus e intrufolarsi nella società degli umani” (2).
Che c’entro io con Mr Burbank Truman?
Ad ognuno il proprio ragionamento su come sottrarsi a un destino nel quale essere fuggevole e controllata comparsa della propria vita, ma solido protagonista al momento degli acquisti. L’assuefazione è tale che non ricordiamo più di fare riferimento a noi, al nostro gusto e alle nostre esigenze. Li abbiamo sostituiti con quelli offerti dai banchi dei commercianti, dalle sirene della pubblicità, dal vero giornalismo – quello disposto a farsi pagare per scrivere menzogne, a seguitare a dormire sereno, anche davanti a scenari Assange.
Ora crediamo di poter raggiungere i sogni acquistando merci, a loro indegne, destabilizzanti succedanee. Ora possono far tramontare il sole e mandarci a nanna o dire che la guerra è pace e sentirselo replicare in coro dalla moltitudine che crede che questa vita sia effettivamente la vita. Di come stiamo allo show non interessa, se non in funzione di quanto possiamo consumare, votare, costare. Siamo tutti uguali e, nonostante le nostre apparenti libere stravaganze, tutti buoni e protagonisti del nostro personalizzato Truman Show.
Pilota automatico
A chi preferisce – leggi sceglie – adeguarsi, adagiarsi protetto dall’effimero scudo dal solito ritornello che è difficile cambiare rotta, che non possiamo farci niente, va fatto presente che non è quello il punto. Che portare l’attenzione sulla difficoltà è la modalità sconveniente per il cambiamento, personale o sociale che sia. Il punto è che la rotta è sempre il risultato di una scelta. E che una scelta è sempre il risultato di una fede.
Tuttavia, c’è anche chi si avvede della trappola e pensa che, più che adeguarti, che vuoi fare? Smantellare il sistema è difficile, impossibile.
Legami, credenze e dipendenze sono le esche del Grande Pescatore. La logica di una misura di noi stessi limitata al modesto raggio d’azione dei nostri più immediati ed egoistici interessi rende possibile e vera quell’impossibilità, quel che vuoi fare?
Pilota manuale
Cambiare diviene invece assolutamente accessibile e vicino – indipendentemente dalla durata indicata dai calendari amministrativi del mondo – semplicemente mettendosi in cammino, dando l’esempio, lentamente auto-educandosi nel rispetto delle consapevolezze nuove, avendo fede ed esprimendo la propria concezione senza proselitismo positivistico. Quando si osserva che la meta è il percorso stesso, si vede cosa comporta il cambiare e che, condividendo questa formula, si può realizzare il cambiamento. E non servono consigli ed esempi. L’esperienza non è trasmissibile. Coloro a cui dovessero servire non replicherebbero che un modello. Serve invece ricreare, secondo il proprio talento e propria misura.
Se stiamo andando dove non ci piace, è nostra responsabilità cambiare, come lo è se manteniamo lo status quo. Così infatti sarà, quando dirigeremo verso mari non più di plastica, di falso progresso, di opulenza, di miseria spirituale. Mari in cui le reti del Grande Pescatore avranno maglie inadeguate.
Una grande opera comune, una piramide, per la quale forse, nella nostra vita, non potremo che spingere per qualche metro uno solo dei macigni che serviranno per erigerla.
Dov’è il problema?
Non sappiamo più cucinare il cibo, né coltivarlo o procurarlo; non rispettiamo più il ritmo delle stagioni, con tutto il loro significato per la vita terrena, e crediamo davvero se ne possa fare a meno; ci ammaliamo e diamo la colpa all’età, al virus, all’altro.
Il nostro impegno è avere, imitare e invidiare chi ha di più, sentire un fiotto di autostima davanti a chi ha di meno. Il nostro impegno è donare uno spicciolo al semaforo e proseguire verso i fatti nostri, lasciando che l’empatia con chi sta peggio vada a farsi benedire. Del luogo dove origina l’ingiustizia si occuperà semmai qualcun altro.
Sulla crescente distanza dall’indipendenza non ci affrettiamo a ragionare, a capire, a sentire, per permettere ai nostri figli di avere le doti per vederla ridursi e, alfine, emanciparsene. A noi basta il bonus, la furbata, lo sconto, la quieta infelicità. A tanto siamo arrivati.
ChatGpt, intelligenza artificiale, radio che si accende in automatico all’avvio del motore, guida assistita, uteri affittabili, sesso a gusto non sono che alcuni culmini della tecnologia mon amour, alcuni altari senza peccato, alcune discese verso l’auspicata comodità. Tentacoli dai quali difficilmente ci si potrà liberare.
“Per un numero sempre maggiore di persone l’illuminazione non fornita da reti ad alto voltaggio e l’igiene senza carta velina significano povertà. Aumentano le aspettative, mentre declinano rapidamente la fiducia speranzosa nelle proprie capacità e l’interesse per gli altri” (3).
Ma è solo un assaggio. Insufficiente per cogliere e stimare quale esiziale distanza dalla terra e da noi stessi abbiamo raggiunto; a quale bordo dell’abisso siamo affacciati; quanto, ancora ridenti, i nostri occhi non lo trovino orrifico, le nostre anime non chiedano perdono e non si avviino a provvedere per riparare al danno compiuto.
Siamo sensori e abbiamo disimparato a raccogliere i segnali del corpo e del mondo. Imbrattati di falsi valori, non siamo più in grado di sfruttare noi stessi, come se la conoscenza fosse fuori, nei libri e in chi li ha scritti. Vibrisse incrostate di saperi, capaci ormai di vibrare solo al comando di idee infiltrate, ci rendono disponibili a crasse risate al cospetto di un rabdomante. Dovremmo invece evitare d’intossicarle, per tornare a captare la conoscenza presente in noi, nel mondo, per divenirla ed esprimerla. Questo è il problema.
“Dovendo conviverci, l’uomo ha contratto l’abitudine alla tecnica, arrivando a identificarsi con essa e a vederla come l’espressione più significativa del proprio essere nel mondo. Ma ritenere la tecnica la forma più alta dell’espressività umana è una svista imperdonabile, che alla lunga l’uomo verrà chiamato a pagare. Educato secondo una mentalità subalterna alla tecnica, l’uomo ha imparato ad agire più che a essere, a cogliere le esteriorità più che l’interiorità delle cose, a esternare più che a riflettere. Il progressivo prevalere di una mentalità tecnica lo ha portato a considerare tutte le cose, compreso se stesso, come frutto della tecnica, vale a dire di una mente ingegneristica” (4).
Il dono
È che siamo polli da allevamento, spiriti obnubilati, merce. I giovani, e non solo, sono soddisfatti di fare la pubblicità per una multinazionale. Per pochi denari precari, svendono i loro migliori sorrisi.
I figli sono deboli. I padri anche. Le prospettive politiche, basate sul diritto e non sulla natura, pessime. Cosa significa essere forti? Non riguarda saper scaricare una motonave a spalle, riguarda avere la capacità di riconoscere se stessi, le proprie doti e le proprie debolezze, significa saper coltivare le une e affrontare le altre, significa valorizzare quanto sentiamo e ridurre il monopolio della razionalità e della sapienza di ciò che abbiamo anonimamente, replicatamente appreso; significa libertà dalle ideologie e dagli interessi personali; significa poter distinguere ciò che fa per noi da ciò che è opportuno scartare; saper rinunciare, senza senso di frustrazione e debolezza. Non invidiare, ma amare chi è meglio di noi per coltivare quanto ci manca.
Compiremo le scelte per donare un esempio di forza a chi verrà o daremo la colpa a qualcosa per non esserci riusciti?
Note
- Richard Sennet, L’uomo artigiano, Milano, Feltrinelli, 2008, p. 110.
- Enrico Grassani, L’altra faccia della tecnica, Mimesis, Sesto San Giovanni (Mi), 2002, p. 19.
- Ivan Illich, Disoccupazione creativa. Un nuovo equilibrio tra le attività svincolate dalle leggi di mercato e il diritto all’impiego, red!, Cornaredo (Mi), 2013, p. 21.
- Enrico Grassani, L’assuefazione tecnologica, Delfino, Milano, 2014, p. 23 [Qui Grassani impiega il termine tecnica nella sua accezione di tecnologia].
Tanti anni fa ho assistito a una gara sul Bianco (salita a piedi da Courmayeur, giro scialpinistico, traversata all’Aiguille du Midi sugli sci, salita a piedi). Al ritorno, sul pullman che tornava ad Aosta via Gran San Bernardo causa chiusura tunnel de Bianco, tanti dei ragazzi/atleti italiani si lamentavano perché molti francesi erano nel GHM e quindi non facevano altro che allenarsi mentre loro andavano a correre alle 5 del mattino, poi doccia e lavoro e altro allenamento dopo il lavoro. I secondi la passione, i primi Un “lavoro” comewn altro…
Eh si Enri. Per mestiere e predisposizione personale mi piace parlare con le persone e mi riesce abbastanza bene, credo. Nella mia esperienza nelle basi vita del Tor ho parlato con diverse persone. Tanta roba. Motivazioni forti e diverse, anche se si possono individuare dei filoni, come hanno fatto gli studiosi della cosiddetta resilience. Se qualcuno è interessato venga magari una volta a fare il volontario. È un’esperienza che lascia parecchio anche a chi non fa il percorso. Però non bisogna avere pregiudizi e soprattutto non assumere un atteggiamento giudicante. Primun intelligere dicevano gli antichi.
Non mi farei fuorviare troppo da come vengono scritte certe autobiografie. Quella di Agassi, scritta in modo magistrale ( non ricordo il nome di chi ha scritto il libro), tende ad “ingigantire” aspetti, aneddoti che fanno presa sul lettore e, generalmente, ne fanno una storia epica. Che alcuni genitori abbiano vessato i figli con il fine di vincere tramite i figli quello che non hanno vinto loro è’ direi certo. Che Agassi fosse costretto dal padre a ritmi pazzeschi credo anche. E di casi simili abbiamo Monica Seles, Max Verstappen e chissà quanti altri. Resta il fatto che Agassi può’ aver anche dichiarato di aver odiato il tennis ( frase ad effetto) ma non si può’ non essere appassionati fino alle viscere ( nel suo caso di tennis) per reggere 20 anni su un aereo, tornei ogni settimana, pressioni fisiche e mentali inimmaginabili. Del suo libro, letto tutto d’un fiato, più che l’odio per il tennis ricordo il suo alzarsi al mattino ed essere costretto a stare sdraiato sul pavimento anche un’ora prima di riuscire ad alzarsi in piedi, causa schiena a pezzi. Tornando a noi, e’ possibile che chi fa il Tor lo faccia per puro agonismo, per battere gli altri, per vantarsi con gli amici. Mi riesce però’ difficile pensare che, almeno in parte, direi in gran parte, non sia mosso anche dalla passione per la montagna, per la fatica, per la sola sfida individuale. Non ci si improvvisa per arrivare a fare certe cose, nemmeno e soprattutto dal punto di vista motivazionale.
Per quanto alla componente agonistica, quante volte allora nella storia dell’ alpinismo si è’ fatto a gara a fare una salita prima che… la facesse qualcun altro.
E non per questo i protagonisti erano meno appassionati…
Il caso di Agassi nel bel libro Open, è stato anche quello di Marc Girardelli, anche lui allenato sugli sci dal padre. Ma 5 coppe del mondo, o tutte le vittorie di Agassi nel tennis, fanno dimenticare cosa ci sia stato davvero dietro.
A parte casi eclatanti, ognuno ha la sua storia.
Migheli. Ci sono autobiografie sincere, autoanalisi in pubblico e autobiografie “confezionate”. Ho gia’ citato un’altra volta un film con Denny de Vito che faceva scrivere un tema ai marines : perché ho deciso di arruolarmi? Alla prima e seconda stesura erano più o meno tutti uguali; “per servire la Patria” “Difendere la Libertà” Alla settima stesura emergevano cose meno nobili ma più vicine al ventre molle. In certi attività può essere necessario questo lavoro ad esempio per chi è legalmente autorizzato ad uccidere o a curare gli altri. Anche per chi fa attività pericolose per lavoro o per dioetto magari un po’ di introspezione potrebbe essere utile. È un tema che se non sbaglio era già stato affrontato da Comi e dallo stesso Merlo parlando della formazione alla gestione del rischio in montagna.
#21 Pasini. Analogamente a quanto scrive Storti, André Agassi nella sua autobiografia scrive che all’inizio giocava a tennis odiando il padre e il gioco stesso. Nel ricordo che ho di quel libro, letto tutto d’un fiato, sembrava sincero.
Grazia. Tu parli di gare sportive. Il Tor è una gara sportiva per i primi 100. Per gli altri è un’esperienza di vita. E lì entrano in gioco le motivazioni, quelle narrate e quelle che stanno sotto la coperta colorata delle parole.
Non ho mai creduto a quelle che le persone dichiarano ufficialmente essere le loro motivazioni. È come se in un colloquio di selezione tu chiedessi ad una persona: “Ma cosa la motiva? “ È una domanda che non fa neppure un principiante. Sono quasi sempre razionalizzazioni e dichiarazioni programmatiche. Servono più a capire come uno vuole essere percepito che non ciò che è davvero. Le persone raccontano un sacco di storie a se stesse e agli altri. Narrazioni, a volte scopiazzate da modelli ideali. Per capire le vere motivazioni devi guardare i comportamenti e le scelte delle persone, la loro storia. Giovanni Storti ha scritto un libro ironico con un titolo fantastico “Corro perché la mia mamma mi picchia”. Quanti strati di vernice devi rimuovere prima di arrivare ad una risposta così sincera?
Enri scrive “E non ditemi che ci vuole passione a fare una cosa simile”, riferendosi a una gara ed è il mio commento a non essere stato compreso?
Ho frequentato per un po’ il mondo delle gare di corsa a piedi e quello sportivo in genere, abbastanza per osservare – nessun giudizio!! – che molto spesso non è la passione per la disciplina stessa a guidare gli atleti, ma molto altro, compresa la pressione degli sponsor e la sete di gloria.
Ci trovi la Vera Montagna(TM), il Vero Alpinismo(TM), la Vera Passione(TM) eccetera…
La cosa buffa è che di tutto ciò ciascuno di noi ha la propria personalissima – e diversa – idea.
Ma, purché vi sia il rispetto nei confronti degli altri e verso l’ambiente e non si abbia la pretesa che la propria sia l’unica Vera(TM), non mi sembra che sia un problema.
“si tratta di correre 300 km senza dormire.”
Attualmente io posso arrivare, soffrendo come un cane, a 300 km in bicicletta, in tre giorni, e dormendo beato in un morbido letto al termine di ogni tappa. Beninteso, doccia compresa.
“Se ci mettiamo a valutare le motivazioni anche di chi va in montagna apriamo un vaso di Pandora. “Non aprite quella porta” non sai mai cosa ci puoi trovare.”
Ebbene, ora ti svelo che cosa troveresti ad aprire la mia porta: uno scrigno di tesori, una passione di vita, una ragione di vita. Alla faccia di Pandora, del pandoro e di tutti i pandorini.
N.B. Ho detto una ragione di vita, e non la ragione di vita.
11. Passione? Dipende cosa intendiamo. Se si conosce il percorso del Tor, se si sono sperimentate personalmente le tappe anche con ritmi lenti, se si è vissuta l’evento dall’interno parlando con le persone non si può non dire che ci sia motivazione, e tanta. Se non sei motivato non reggi neanche ad arrivare di notte, magari con la neve, alla prima base vita. Poi come in tutte le cose umane le motivazioni sono molto diverse e tutte hanno le loro ragioni. Si ci mettiamo a valutare le motivazioni anche di chi va in montagna apriamo un vaso di Pandora. “Non aprite quella porta” non sai mai cosa ci puoi trovare.
Nemmeno io ho capito il commento 11.
Se vogliamo dire che chi fa gare in montagna non è’ Veramente appassionato dell’ambiente ma più prosaicamente solo un agonista lascio perdere e la chiudo qui.
In passato ho già’ detto che valutare le passioni altrui è’ impossibile. In questo caso, visto che si tratta di correre 300 km senza dormire, ne deduco che un tantino di passione per quello che fanno dovrebbero avercela, compresa quella per l’ambiente in cui si svolge. E mi sembra una deduzione ovvia.
11. Scusami Grazia ma non capisco la prima parte del commento: poniamo anche il caso del concorrente che non partecipa per passione ma solo per postare (ad esempio) storie su IG. E allora? “Sì divertono? Sì, che bravi. No, che stronzi” cit.
Migheli. Non mi stupisco affatto. Chiunque, a vario titolo e ruolo, conosca in po’il sistema sanitario e il business Pharma si è posto e si pone delle domande legittime su come sono andate le cose. Senza pensare che quel mondo sia dominato da demoni assetati di denaro da estrarre dal sangue dei pazienti o da angeli votati alla salvezza dell’umanità. Entrambe proiezioni mentali di archetipi di persecutore o salvatore che poco hanno a che vedere con la realtà di un mondo che cuba circa 170 miliardi e 2,4 milioni di operatori nel suo complesso.
Enri, non conosco Franco Collé, ma non mi sento di dire che tutti quelli che partecipano a competizioni come questa sono appassionati, per lo meno non solo ai paesaggi 🙂
Per il resto, mi trovo d’accordo con Lorenzo. Pure a proposito dei farmaci che ormai scandiscono il ritmo della vita di moltitudini tra i popoli “evoluti”.
Pourquoi faire simple, quand on peut faire compliqué !!!
A chacun ses choix.
#8 Guardi, anche se lascerò stupefatto Pasini per la seconda volta in pochi giorni, le do ragione, se si riferisce a quanti fra i miei colleghi stanno cavalcando e fomentando emergenze pandemiche, di fatto non più tali almeno dall’autunno-inverno 2021. Io però, nel definire Merlo “straparlante”, mi riferivo alle sue strabilianti affermazioni del precedente post sui tronisti, in cui mi rinfacciava di aver definito “incontrovertibili” i dati su efficacia e sicurezza dei vaccini in generale. Beh, se vengono messi in discussione anche i risultati eccezionali ottenuti su malattie temibili come vaiolo e poliomielite, è evidente che il bias ideologico di Merlo e di chi la pensa come lui è talmente enorme da determinare uno scollamento con la realtà. Io mi preoccuperei.
Mi permetto di dire, Dott. Migheli, che altre centinaia (forse migliaia) di suoi illustri e meno illustri colleghi straparlano sui vaccini…
Il mero appiattimento sulla versione ufficiale dei fatti non ha mai fatto bene alla scienza e alla storia….
Pasini, una cosa da matti, da non riuscire nemmeno ad immaginarsi. Io nemmeno in auto…
Cari saluti a tutti.
Enri. Ma hai visto il tempo 66 ore e 39 minuti. Praticanente non ha mai dormito. Noi umani invece dormiamo. Sperando che il sonno della ragione non generi troppi mostri. Buona notte anche a te.
Ben conscio di andare fuori tema, segnalo che in questi giorni si potrebbe anche parlare di:
Bonatti, ricorrenza della sua scomparsa, mi sono risentito audio sul K2 e ogni volta ne colgo qualcosa di nuovo.
Alessandro Zeni e Riccardo Scarian, ad agosto su una via di più’ tiri, diaciamo “interessante”.
I campionati di paraclimb, di gran lunga la cosa più interessante nel panorama agonistico e non solo: la campionessa italiana una grandissima!
Last but not least, anche se so che farò’ venire l’orticaria a Crovella, Franco Colle’ vince il suo quarto Tor de Geants. E non ditemi che non ci vuole passione per fare una cosa simile.
Stop
Proseguiamo con i virus, l’orso ed il resto.
Notte.
Ben Tarnoff, Internet for the People. Due capsule alla sera per neutralizzare il virus apocalittico. Utopia per utopia questa profuma di antico “sol dell’avvenire” (brutto film ma come non trattenere una lacrimuccia vedendo la scena finale “come avrebbe potuto essere”). La nostalgia non è poi così da buttare se non diventa acido rimpianto. Saluti
Caro Pasini, a parte l’elevata contagiosità di questo blog, ciascuno di noi ha un lato apocalittico accanto a quello saldamente integrato. E poi Marx è Marx, non si discute, al massimo lo si aggiorna!
Migheli. Urca.. the times they are a changing…cosa sta succedendo?….mi citi un critico d’arte della Columbia in libera uscita dalla sua disciplina a proposito dell’impatto della rete sui comportamenti sociali… contagio da seduta sul trono ? Effetti a lungo termine delle vaccinazioni? Tutte le nostre certezze crollano ormai come le Dolomiti e i seracchi….o tempora… 😀 Sono contento però che la parodia del nostro non ti abbia offeso, anche se non era al top come direbbe il Crozza di Briatore.. però lo sforzo c’era e lato comico del binomio Tragedia & Comicità va sempre apprezzato e incoraggiato. Fa bene alla salute come il bicarbonato per digerire.
Quando non (stra)parla di vaccini, Merlo fornisce interpretazioni altamente condivisibili della realtà odierna. A conclusioni assai simili giunge il bel saggio Terra bruciata di Jonathan Crary (Meltemi ed. 2023), che evidenzia in internet la longa manus del capitalismo globale che trasforma ogni suo utilizzatore in un “consumatore dipendente”, attraverso un riconoscimento agghiacciante -per quanto è pervasivo- delle abitudini e delle caratteristiche psicologiche di ciascuno. La soluzione per Crary è un ripudio dell’era digitale e un ritorno a una dimensione sociale comunitaria e cooperativa. Non so quanto sia fattibile, o se invece non sia più simile alla utopica Città del sole di Campanella.