Viva la foca!
di Carlo Crovella
Alla fine dello scorso gennaio 2020 un titolo di giornale ha riempito di gioia il cuore degli ambientalisti e in particolare quello degli innamorati del Mediterraneo: «Il primo cucciolo dopo 36 anni. La foca monaca torna nei nostri mari»
Un piccolo di foca monaca era stato infatti avvistato sulle spiagge salentine tra Frigole e San Cataldo, in provincia di Lecce. Dopo un paio d’ore trascorse a prendere il sole, al riparo di un cordone protettivo che era stato immediatamente disposto, il cucciolo di pinnipede ha ripreso il mare.
Il giorno successivo l’esemplare era stato nuovamente avvistato, questa volta a Torre San Gennaro, in provincia di Brindisi, distante circa una ventina di km: si era rifugiato sotto la piattaforma di legno di un bar sulla spiaggia. Le sue condizioni non sono più apparse buone e il cucciolo è stato affidato ai veterinari dell’Ispra (Istituto superiore per la ricerca ambientale) e agli specialisti dell’Acquario di Genova.
L’entusiasmo si è purtroppo raffreddato nel giro di pochissime ore. Il giorno successivo, infatti, i giornali riportavano la notizia del decesso del cucciolo. La Stampa del 29 gennaio 2020 precisava: «E’ morto prima di avere un nome. Aveva fra i due e in quattro mesi di vita quel cucciolo di foca monaca ritrovato in Puglia. Il suo breve passato è tutto da ricostruire. Forse nato in Grecia o in Albania, o persino in Italia.»
Agli esperti che lo hanno soccorso il quadro clinico è, fin da subito, apparso molto critico. Lo hanno idratato, ma non rispondeva agli stimoli. Spesso emetteva rumori come i nostri starnuti o colpi di tosse. Ha praticamente dormito tutto il tempo fino al decesso.
Nonostante il triste finale, la notizia è un segnale positivo per il Mediterraneo. E’ il primo ritrovamento di un cucciolo sulle coste italiane. Potrebbe esser nato addirittura da noi oppure in Albania (che dista circa 80 km dal ritrovamento) ed esser stato spinto verso l’Italia da una mareggiata. Ma potrebbe esser giunto addirittura dalla Grecia, dove al momento risiede la popolazione più consistente di foca monaca e dove la presenza di grotte e anfratti impervi favorisce i parti.
La foca monaca è l’unica specie di foca del Mediterraneo. Un tempo era presente su quasi tutte le coste nel Mare nostrum: in italia era particolarmente diffusa in Sardegna e in Sicilia.
Dal sito vistanet.it (maggio 2019) si apprende: «Ancora all’inizio degli anni ‘80 diversi esemplari di foca monaca erano stati segnalati nel Golfo di Orosei (gli ultimi si sarebbero rifugiati nella Grotta del Fico e in quella del Bue Marino, a Cala Mariolu e a Cala Goloritzè). Pochi anni fa un esemplare subadulto della foca è stato immortalato da una delle sette fototrappole piazzate nelle grotte delle isole Egadi. Altre sono state avvistate nel mare di Gaeta, mentre in Sardegna gli ultimi avvistamenti risalgono al 2015 nel mare di Porto Corallo, Villaputzu, e al largo dell’Isola dei Cavoli, a Villasimius. Le colonie più consistenti di foca monaca si trovano in Grecia, Turchia e nell’isola di Madeira. La popolazione totale (fra areale orientale e coste atlantiche) è stimata in non più di 700 esemplari, di cui circa 350-450 adulti: la specie non è estinta, per fortuna, ma è ancora a rischio. La foca monaca (a volte chiamata anche bue marino, NdR) deve il suo nome alla colorazione del mantello, che ricorderebbe una tonaca monacale. Da sempre le foche sono state cacciate o eliminate perché considerate in competizione per la pesca. Si sono poi aggiunti altrui fattori negativi: la distruzione degli habitat, il disturbo continuo, l’inquinamento e la scarsità del cibo, nonché una epidemia di morbillivirus che ha falcidiato le foche della Mauritania. Adesso però si registra un lentissimo ma significativo ripopolamento.»
Sembra infatti che, di recente, siano stati avvistati altri esemplari nelle Isole Egadi, ma l’entusiasmo deve fare i conti con la realtà: gli intesi traffici commerciali e l’invasione della plastica non facilitano il risanamento del mare.
Vi è poi un elemento chiave che è specifico del Mediterraneo, ovvero la sua intensa tropicalizzazione al seguito del riscaldamento globale. Le acque mediterranee sono sempre più calde e questo comporta profondi mutamenti nella biodiversità. Il fenomeno vale per qualsiasi mare, ovviamente, ma la particolare conformazione del Mediterraneo, che è un mare “quasi” chiuso, acuisce le conseguenze.
Il riscaldamento delle acque ha già permesso (e permetterà sempre di più) l’insediamento di nuove specie, prima inesistenti, e proprio per questo prive di nemici naturali che provvedono a calmierane la crescita. Il che comporta nuovi e più agguerriti concorrenti per le specie endemiche. Il concetto non va inteso esclusivamente in termini di “aggressione” predatoria alla specie storiche, ma spesso in termini di competizione per le zone di approvvigionamento nutrizionale. Insomma i “nuovi” si appropriano di territori e risorse e ciò può avvenire sia fra pesci/mammiferi che fra alghe o molluschi.
Il più delle volte le nuove specie entrano nel Mediterraneo attraverso il Canale di Suez, spesso seguendo la scia delle navi. L’inizio del fenomeno non è recentissimo perché i primi segnali risalgono all’inizio degli anni ’90. Solo che allora lo si interpretava positivamente, come una novità che portava allegria.
A titolo personale, mi ricordo l’eccitazione dei miei figli (allora bambini) quando, durante un’uscita di snorkeling al largo di Villasimius, ci imbattemmo in un piccolo branco di pesci balestra. Si tratta di classici pesci tropicali, tipici della barriera corallina, noti per i grandi labbroni che permettono di identificarli facilmente. Avevano colonizzato un piccolo relitto, a circa 7-8 m di profondità, e risalivano facilmente verso la superficie. Sembrava di nuotare in un acquario e schiamazzavamo tutti in allegria, mentre in realtà era un’avvisaglia di cambiamenti per nulla positivi.
La difesa ambientalista del Mediterraneo può sembrare fuori tema in un blog principalmente dedicato alla montagna. Invece no. Per diversi motivi: innanzi tutto molti appassionati di montagna sono assidui frequentatori delle coste e delle isole, magari vissute con spirito d’avventura (cioè ben al di fuori degli stabilimenti balneari). Spesso, poi, si mescolano giornate marine a puntate arrampicatorie o escursionistiche, sia nell’interno che lungo i tratti costieri più impervi. La salute del mare condiziona quella di tutto l’ambiente che lo circonda, anche fuori dall’acqua.
Io appartengo a quella generazione che, osservando le foto di libri come Mezzogiorno di Pietra, ha sentito un rimescolio viscerale, anche senza appartenere necessariamente ai top climber. Le coste del Golfo di Orosei, le spiagge incontaminate e complicate da raggiungere, il monolito dell’Aguglia di Goloritzè hanno scatenato un’incontenibile voglia di avventura e di esplorazione.
Non desideriamo forse che anche i nostri figli possano vivere le nostre stesse emozioni? Difendere l’ambiente significa consegnarglielo intatto non solo per la loro salute, ma anche per le loro esperienze personali.
Poi vi è un concetto più generale e magari meno palpabile, ma profondamente inconscio in tutti noi. Noi che apparteniamo ai popoli che si affacciano sul Mediterraneo. Fin dalla notte dei tempi, il Mediterraneo è stato il Mare nostrum, il centro nevralgico della nostra civiltà: greci, fenici, arabi, veneziani, turchi e poi, in epoche successive, francesi, spagnoli, ma anche inglesi e perfino americani e russi lo hanno solcato da secoli, mescolando culture, costumi, ideologie. Guerre, commerci e religioni si sono alternati e mescolati, creando la nostra essenza storica. Se assistiamo senza batter ciglio all’agonia del Mare nostrum, uccidiamo noi stessi oltre che il mare e i suoi abitanti.
Il cucciolo di foca monaca, seppur non sopravvissuto, rinfocola una piccola fiammella di speranza. Il mare, il “nostro” mare, non è ancora morto del tutto. Tiriamoci su le maniche, anche nella nostra spicciola quotidianità, e difendiamolo a spada tratta: forse siamo ancora in tempo.
Un film dei primi anni ’80, una di quelle commedie soft sexy, con Lory Del Santo come protagonista, si intitolava: “Viva la foca!” Faceva il verso ad una classica battuta da caserma: “Viva la foca, che Dio la benedoca”.
Ebbene forse è il caso di recuperare questa affermazione goliardica con una finalità più seria e nobile: quando avremo di nuovo le nostre coste arricchite dalla foca monaca, forse vivremo in un mondo migliore. Non è semplice: si tratta di un cambiamento epocale delle nostre abitudini, anche nelle nostre semplici giornate cittadine. Meno plastica, meno orpelli consumistici, meno auto, meno sprechi. Invece più sobrietà, cioè uno stile di vita più spartano e rigoroso, può significare più ossigeno per la Natura, che sia essa marina o montana.
Viva la foca!
Salvarle è possibile rispettando il loro cibo
Tre domande a Isabella Pratesi (direttrice Conservazione WWF Italia)
di Valeria D’Autilia
(pubblicato su La Stampa del 29 gennaio 2020)
1) Cosa può significare il ritrovamento di un cucciolo di foca monaca per il nostro mare?
«E’ una notizia bellissima, che conferma la presenza di questa specie lungo le coste italiane, come abbiamo sempre detto. Molti pensavano si fosse estinta, invece c’è sempre stata. Non possiamo parlare di colonie, ma di esemplari che si spostano e frequentano i nostri mari. La novità è che, sino all’altro giorno, non sapevamo si riproducessero, come ci fa ipotizzare il ritrovamento. È un segnale importante».
2) Cosa è cambiato negli ultimi anni?
«Questi animali hanno sempre vissuto anche in Italia, soprattutto fino agli anni ’70. Poi si sono diradati moltissimo: perseguitati dall’uomo e spesso uccisi. Si riteneva fossero nocivi solo perché si nutrono di pesce. C’è stato un accanimento e infatti ne sono rimasti pochissimi. Non credo che oggi ci siano pescatori che li uccidono volontariamente. Ma è pur vero che esistono altre minacce come l’inquinamento o la cementificazione lungo le coste. Senza dimenticare che stiamo svuotando il Mediterraneo del loro nutrimento».
3) Possiamo ugualmente essere ottimisti?
«Siamo fiduciosi che si possa trovare una convivenza intelligente tra noi e questi animali, in modo da farli diventare una presenza stabile. Spesso siamo impreparati e occorre fare molto più lavoro con la comunità locale. Questo mammifero marino si può salvare se è un obiettivo comune e facciamo il possibile per non nuocergli. Solo così può tornare ad essere numeroso. C’è bisogno di un protocollo di comportamenti corretti da adottare. Spero che questo cucciolo sia un monito per tutti: esiste una natura straordinaria che vuole continuare a vivere attorno a noi. Ma dobbiamo essere più attenti ed inclusivi. Gli animali possono essere una ricchezza anche economica: penso alla gente che da tutto il mondo si sposta per vedere le tigri in India o gli orsi a Yellowstone. Si potrebbe viaggiare nel Mediterraneo osservando gli animali in natura. Tutto questo avrebbe ricadute turistiche e sarebbe un modo intelligente di coniugare conservazione e sviluppo»
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Stiamo dicendo le stesse cose. Non è il singolo Briatore (poveretto: gli staranno fischiando le orecchie) a fare danni, ma i tanti suoi “emuli” che appunto ragionano e agiscono come illustrato da Matteo. Sono illustri sconosciuti che io chiamo i piccoli Briatore: il problema è che sono numerosissimi, ecco perché (tutti insieme) fanno danni immensi. L’obiettivo è cambiare completamente il soggetto da emulare: al posto di Briatore e del suo stile di vita occorre che l’obiettivo-valore diventi per tutti il cucciolo di foca. Cambiando quel particolare, cambia tutto il resto e gli esempi “errari” indicati da Matteo spariranno di colpo. Bisogna lottare per quel fine. Ciao!
Ies.
Tuttavia quanto osservi la tua proiezione, ovunque essa si posi, contemporaneamente riconosci quanta energia ti brucia, quanta creatività ti limita, quanta vita ti mortifica.
Grazie Lorenzo, ti assicuro però che il mio concetto di rivoluzione personale, per quanto incerta, incompleta, incoerente e parziale, non prevede affatto l’eliminazione della categoria di nemici e cannibali, anzi.
Piuttosto un aumento di avversione e stigmatizzazione!
Bello.
Trovare in noi ciò che vediamo fuori senza avvederci che si tratta di proiezioni.
Per qualcuno preciso che non è mio il pensiero, bensi di Jung.
Solo in noi si forma la realtà.
Senza una rivoluzione personale, ci saranno sempre nemici o cannibali.
“I veri nemici dell’ambiente sono i tanti (tantissimi) Briatore”
No, non credo proprio.
Briatore è solo la punta, l’apice, il campione di un modo di essere, di una mentalità che ci permea tutti e che è la vera nemica dell’ambiente.
E’ pericoloso perché è un modello, fa tendenza e genera emulazione (magari anche inconscia), ma non è il nemico né la causa ultima della devastazione ambientale.
Il nemico è la mentalità del “se posso farlo, allora lo faccio”, del “cosa vuoi che sia” e del “c’è ben altro”.
Quella che ti fa comprare un’auto con 150 CV (che non sfrutterai mai e se ci provassi ti schianteresti) e un mucchio di stronzate che non servono a nulla ogni 3 anni “perché conviene”, quando potrebbe funzionare per 15 anni (e dovremmo pretendere che durasse)
Che ti fa installare il condizionatore a casa per 20 giorni di afa all’anno (“ma lo uso solo per deumidificare…,”)
Che ti fa comprare 5 giacche tecniche, 8 pantaloni, 15 scarpe/scarpette/scarponi per usarli 5 o 6 volte
Che ti fa comprare l’acqua minerale che fa più chilometri di te o le fragole a dicembre (ma solo perché bisognerà pure festeggiare)
La mentalità che ti fa ammirare almeno un po’ un self made man a prescindere da come ha fatto e da quanto è stronzo (che a essere coerenti allora un certo imbianchino austriaco dovrebbe essere un vero punto di riferimento…)
Concordo pienamente con te. Non ricordo più se si è parlato qui, forse a latere dell’articolo sui cacciatori (Mauro Corona & C), sull’opportunità di fare educazione ambientale nelle scuole. Una statistica ISTAT di qualche anno fa evidenziava che il 30% dei ragazzi fino ai 10 anni non era MAI stato in un bosco, né portato dalla famiglia né dalla scuola. Se non ci pensano le famiglie, urge che lo faccia la scuola. Sennò i nostri ragazzi come fanno a “capire” cos’è la Natura? Se invece li abituiamo alla spicciola natura di boschi e campi fin da piccoli, avremo qualche speranza di evitare che diventino dei futuri Briatore. Ma noi ci riempiamo la bocca con gli Stati Generali a Villa Pamphili, altro che uscita didattica in un bosco… Ciao!
Carlo, sì, in parte hai ragione. Ma il vero nemico dell’ambiente è la tanta ignoranza di cosa sia, soprattutto nelle giovani generazioni che abitano in città.
Come fai a desiderare di difendere qualcosa che non conosci? Che fin dalla scuola primaria ti abituano solo a considerare come una sequela di comportamenti “sostenibili”? Comportamenti che, diciamolo, indotti solo da una retorica gracchiante piena di etica ambientale, diventano una rottura di scatole, che ti rendono solo sanzionabile…
Va cambiato il paradigma dell’educazione ambientale. In città, tra i ragazzi e i bambini per i quali l’ambiente è solo un bel paesaggio in vacanza. O peggio, li si abitua a pensare a un parco urbano come Natura.
Basta con questa educazione ambientale.
Se cambia il modo, anche la vita per i “piccoli Briatore” potrebbe diventare più difficile. Ma il problema vero è la gente comune.
Non voglio anticipare temi che spero di saper analizzare, in futuro, con arguzia e profondità. Sintetizzo: dubito che la svedesina alla fine mi intenerisca. Nemmeno i suoi fan dei FridaysForFuture: da che ho memoria ho tirato uova marce anche sui cortei bellicosi degli anni ’70 e quelli sì che incutevano timore (FIOM di Mirafiori, studenti con campanacci, “indiani metrolpolitani” con le molotov…). Ma il vero nemico dell’ambiente non è Greta. Greta è irrilevante, non incide in nessuna direzione, è solo un fenomeno da baraccone mediatico, è ormai brandizzata, cioè è stata incamerata dal turbo-capitalismo. I veri nemici dell’ambiente sono i tanti (tantissimi) Briatore, che devono sfoggiare status symbol sgargiassi e inquinanti (es gli yacht da 10-15 milioni di euro…). Con il loro stile di vita, che fagocita energia e rigurgita fumi peggio di un altoforno, loro sì che potrebbero dare un altro duro colpo ai cuccioli di foca del Mediterraneo. Non solo alle foche, ma a tutto l’ambiente naturale. Briatore è un mio quasi conterraneo: viene da Verzuolo, vicino a Cuneo. Per certi versi è da ammirare: è davvero un self made man, ora naviga nel lusso pur provenendo quasi dal nulla. Tutto merito suo, si è fatto un mazzo tanto e gliene do’ merito. Però lui e i suoi turisti del glam, più quelli del top, li condannerei alla traversata “tennica” (nel dialetto piemontese sudoccidentale viene difficile articolare il c-n duro) della Sardegna a piedi, dormendo nei cuili puzzolenti e mangiando insieme ai pastori il pecorino (che Briatore ha televisivamente definito “salato”…). Un po’ di sana immersione nella natura, con i relativi disagi, farebbe loro capire quali sono i veri valori dell’esistenza.
Anni ‘80….Viva la Foca effettivamente era in uso negli anni ‘80. Negli anni ‘70 noi usavamo esclamazioni di entusiamo “ambientalista” più primitive, come ha ricordato sinceramente Gogna nell’ultimo articolo su Motti, e di questo e di tanto altro dovremo rispondere al momento giusto. Ma come dice il sindaco Sala di Montanelli, nessuna vita è esente da macchie e quindi lasciamo stare i monumenti. Quello dell’ultimo intervento è comunque il Crovella che più amiamo: duro, puro, tetragono e combattivo. Però…Però…questo outing, questa affettuosa e commossa attrazione per la Foca sarda, anche dopo tanti anni, ci lascia intuire che qualcosa sta cambiando, anche se ancora rifiuta con sdegno la piccola e tenera Greta che sta sviluppandosi negli interstizi della sempre brillante ma un po’ logora corazza. Questione di tempo. Prima o poi anche lui si commuoverà di fronte a un cucciolo di cannibale, che dopo aver fatto una via di 9b in scioltezza si dedicherà felice alla sua Play Station (notizia di ieri che un ragazzino di 10 anni ha fatto una via di 8a). Allora tutti noi sopravvissuti dalle vacillanti certezze e dalle ecumeniche tolleranze sorrideremo felici, lo accoglieremo a braccia aperte e cuore sincero nella nostra RSA “Vecchi Pomeriggi” e diremo “ben scavato vecchia talpa”( tipica espressione del gergo politico anni 70, per la cronaca). So che ci sono ricascato e che questo si aggiungerà al lungo elenco delle colpe ma al cuor non si comanda, anche nel Piemonte Orientale. Ciao.
Almeno dai primi anni ’80 ho maturato una visione ambientalista ante litteram ma profondamente diversa dalle smargiassate alla Greta, con annessi cortei in piazza. Nella mia formazione personale in tal senso non è indifferente la lettura e rilettura di Mezzogiorno di pietra, volume apparentemente di sola arrampicata, ma che, almeno a me, ha aperto un orizzonte inusitato. Infatti da allora ho sgomberato la mia mente dalla visione stereotipata che avevo in precedenza circa la Sardegna. Prima pensavo fosse solo Costa Smeralda, Aga Khan, ville, yatch miliardari, starlette ecc ecc ecc. Pensavo che l’interno dell’isola fosse un deserto buono solo per i nascondigli dei sequestratori della Barbagia. Poi grazie al citato libro e ad un altro testo intitolato Sardegna non solo mare (CDA) mi si sono aperti gli occhi su un’altra Sardegna, quella “vera”. Me ne sono innamorato. Di questo ambiente, non solo marino ma anche marino, la Foca monaca era al tempo l’emblema chimerico. Tutti ne parlavano e nessuno l’aveva davvero vista. Sembrava scomparsa ed era diventata l’emblema di una frequentazione turistica antitetica alla Costa Smeralda: cioè una frequentazione semplice, spartana, senza tanti fronzoli. Ecco, dalla Sardegna questa mia visione si è estesa a 360 gradi. Turismo consapevole, oggi si chiama. Lo pratico da decenni e sono convinto che sia la scelta giusta come compromesso fra le esigenze umane e quelle della Natura. Altro che Greta! Anche lei (come ho gia’ scritto mesi fa circa la sua borraccia brandizzara) con la sue uscite e i cortei in piazza non è altro che un isotopo del sistema. Greta e anch’essa un cannibale, ideologicamente parlando. L’anti-Greta è invece il cucciolo di foca monaca: questo purtroppo non è sopravvissuto, ma chissa’ il prossimo potrebbe farcela. Sabaudamente, chi la dura la vince.
@viva la Foca! Quando ho letto il titolo sono sobbalzato sulla sedia. Mamma mia, ho pensato, questi sono i primi effetti della fine del lockdown: Crovella e il blog hanno rimosso ogni freno inibitorio ed è emerso un lato libertino, libertario e goliardico, che ha radici profonde nella storia di molti partecipanti, anche se ormai sono vecchi signori, saggi, posati (apparentemente), che hanno rinnegato i peccati di gioventù. Poi ho letto e mi sono rassicurato, il mondo non è cambiato così radicalmente, ma qualcosa di insolito forse inizia a fare capolino, anche dove meno te lo aspetti. Mi ha colpito l’emergere nel nostro inesorabile guerriero sabaudo di un tenero lato Greta di fronte al cucciolo di foca: mi fa sperare che presto leggeremo un commosso e riparatorio articolo sui cuccioli di cannibale che pian piano tornano a farsi vedere in Val di Susa 😂😂( scusa Carlo, ho provato a distrarmi con un lungo trail solitario ma al ritorno non ho saputo resistere alla tentazione e Fabio Bertoncelli ultimamente latita).
Gli avvistamenti di foca monaca nel golfo di Orosei degli anni ’80 erano “politici”.
Anche per me il concetto è lo stesso: amo la natura in generale, e in tutte le sue forme.
La risposta a Paolo si trova in questa frase, che accomuna lo sconosciuto Crovella e le “scelte” di un più conosciuto (già allora) Alessandro Gogna fin dai tempi del suo “Mezzogiorno di Pietra” (primi anni ’80):
Io appartengo a quella generazione che, osservando le foto di libri come Mezzogiorno di Pietra, ha sentito un rimescolio viscerale, anche senza appartenere necessariamente ai top climber. Le coste del Golfo di Orosei, le spiagge incontaminate e complicate da raggiungere, il monolito dell’Aguglia di Goloritzè hanno scatenato un’incontenibile voglia di avventura e di esplorazione. Non desideriamo forse che anche i nostri figli possano vivere le nostre stesse emozioni? Difendere l’ambiente significa consegnarglielo intatto non solo per la loro salute, ma anche per le loro esperienze personali.
La foca monaca è diventata ai miei occhi il simbolo della difesa dell’ambiente marino (mediterraneo nello specifico, ma, per estensione, di tutte le acque). Viva la foca!
Sono amante della Natura. Nato al mare, mi sono convertito alla montagna da piccolo, in parte crescendo sugli Appennini centrali. E l’ho trovata il mio vero ambiente di espressione. Con il mare, ma sarebbe più giusto dire con gli ambienti acquatici, lavoro da 27 anni, dopo un decennio nel mondo della ricerca. Ma il mio mondo restano e sono le acque ghiacciate, orizzontali e, soprattutto, in verticale.
@Paolo è sicuramente interessante!! Ma la domanda è un’altra: come mai questa scelta di Paolo Gallese, amante del mare, di frequentare il Gogna Blog? 😉 🙂
Il Balistes capriscus, non è un esempio del riscaldamento delle acque mediterranee. Pur presente in acque tropicali è una specie normalmente presente nelle acque temperate del nostro bacino e dell’Atlantico.
Ci sono altri esempi, ben documentati. Ma prima di raccontarlo, se può interessare, come mai questa scelta del Gogna blog? E complimenti a Carlo.
Paolo Gallese, ISM, Istituto per gli Studi sul Mare, Acquario Civico di Milano.