Possiamo girarci intorno. Possiamo aver paura di parlarne. Possiamo credere che le cose stiano diversamente. Possiamo convincerci dell’assurdità che comporta. Possiamo perfino dire che la storia insegna per sottoscrivere che la guerra è male. Ma, liberi da ideologie e dal loro ontologico moralismo, la sola osservazione possibile che possiamo fare sulla storia è che essa, certamente, si ripeterà. Non è vero che la cosa sola certa è che moriremo. È di pari verità che, finché gli uomini si identificheranno nei sentimenti che provano, la storia si ripresenterà nell’eterno ritorno dell’identico. La storia è sentimento e i sentimenti sono solo due. Se non escogitiamo come fare per divenire amore, l’equilibrio, per quanto momentaneo, ce lo renderà solo l’odio.
Viva la guerra
di Lorenzo Merlo
(scritto l’11 dicembre 2021)
Non c’è pace in territorio di pace. La pace richiede la consapevolezza e la pratica dell’evoluzione spirituale. Diversamente, quella ottenuta per consuetudini morali, è falsa. Vera perché non impiega le armi che condanna. Ma falsa perché ne impiega di ogni altro tipo. La progressiva coercizione dei pensieri, dei diritti, messa in campo da anni, ne è un campione esistente.
In ogni caso, volendo insistere a realizzare la pace a mezzo di modalità morali, si autogenerano i mezzi per mantenere fede all’intento buonista. Tutta la violenza si riversa nello spettacolo. Ma la violenza non è soppressa, semmai compressa. E lo spettacolo, come anticipatoci dal situazionismo e da Guy Debord, diviene la realtà. Tuttavia, nel gioco delle tre carte, la sostituzione dell’autentico con il fittizio imbambola i pensieri e il razionale, ma non riesce a stravolgere i cuori. In quest’ottica, anche il bromurico intento del pensiero unico non avrà che vita limitata, nonostante il suo riflesso pacificatorio.
Così, come sale la coercizione che passa come giusto canone della struttura identitaria del Sociale, sale anche l’esigenza di guerra, di applicazione della forza. La ratio, dominata dalla morale, lo nega, mentre il cuore, comunque vada, lo esprime. Il sempre florido mercato/consumo di violenza fittizia ne è espressione.
Oltre a quanto detto, tra le brevi considerazioni che si possono considerare sul tema pace/guerra ce n’è un’altra. Non è minore delle precedenti. Né è la base. Si tratta della stabilità dell’uomo. Tutti siamo stabili se all’inseguimento di uno scopo, anche risibile, nei giorni e nel tempo. In quel mentre, possiamo distinguere il vero dal falso, il giusto dallo sbagliato. Privati della carota, come asini ci fermiamo in balia di forse superiori alla nostra inconsistenza.
Se ciò è vero, è vero che le grandi calamità hanno il potere di tenere viva la nostra attenzione allo scopo della sopravvivenza, del ritorno alla normalità. Si vive il senso dell’autostima, derivante dalla soddisfazione di essere in corsa per qualcosa che riteniamo sia importante. Anche la guerra rientra nel novero delle calamità.
Se deprecabile, per tutti i motivi che chiunque può elencare, di fatto è anche salutare a causa di quanto detto. E se fin qui si tratta, in parte, di un discorso astratto, totalmente realistica è invece l’osservazione della crescente alienazione, quindi malessere e squilibrio, di tutti noi.
Razionalmente, andiamo a giocare a calcio, andiamo a scalare e andiamo al cine, portandoci la consapevolezza di realizzare una passione, ma meno quella di scaricare le tensioni sottili ma permanenti che una vita senza creatività tende a produrre. E non si tratta di dire “ma io sono creativo”. È più forte e fa più testo l’ambito in cui viviamo. Che è un ambito totalmente orientato alla mortificazione delle potenzialità umane.
Tutt’altro epilogo dal viva la guerra si otterrebbe con la consapevolezza incarnata, non solo intellettualmente colta, che tutte le forme della storia sono caduche. Ruoli, idee, ideologie, passioni, battaglie, tradimenti, ingiustizie sono occupazioni risibili e più, se assunte identificandocene. Una presa di distanza dalle forme che via via le circostanze ci invitano a prendere, diviene possibile attraverso la modalità evolutiva.
È il disincanto da consuetudini e ideologie la nux dell’alienazione e dei suoi malesseri nichilisti, vuoti pieni di proto-feticci, surrogati di vita vera, oggetti inermi che, per un po’, animiamo e che ci animano, ma a scadenza certa ed improvvisa. Non si tratta di non credere più in niente – degrado disponibile solo in ambito alienato – ma di divenire via via meno vulnerabili, ovvero di vivere un’esistenza più centrata, meno portatrice di malessere, più libera dai vincoli consuetudinari e creatrice, sola medicina antialienazione.
Diversamente, solo la guerra ci salverà.
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