Metadiario – 143 – Walking in my shoes
“Stamane un raggio mi svegliò più ardito
scherzando luminoso in mezzo all’ombra.
Stamane un sogno mi restò nel cuore,
scherzando solitario coi pensieri,
quale farfalla fra selvaggi rovi… (da Luci sull’ombra, di Maria Rosa Gogna, 1951)”.
Sul quadernino dove annoto le mie vicende sportive e/o avventurose c’è un buco notevole: dal 12 luglio (ultima arrampicata a Finale) fino al 14 agosto 1987.
Avendo la certezza di non aver dimenticato nulla, non mi rimane che constatare che 32 giorni di inattività sono decisamente tanti, specie in periodo estivo e in ogni caso semi-vacanziero.
A fine primavera mio padre Alberto era stato operato per un tumore: la situazione clinica non era per nulla incoraggiante e ricordo con dolore la sua paura di ritrovarsi, a fine intervento di colostomia (o ileostomia, non ricordo bene), con l’apparato per deviare le feci. Papà era stato sempre in buona salute, dopo la morte di mia madre (1969) e di mia nonna (1971) aveva concluso la sua vita di lavoro: con la vendita della ditta Fratelli Gogna (di cui era titolare assieme ai fratelli Silvio e Ubaldo, con sede quando ero piccolo in piazza della Posta Vecchia, in seguito in via Casaregis) si era ritirato in pensione. Nell’ufficio di piazza della Posta Vecchia, al primo piano di un edificio antico in pieno centro storico di Genova, regnava un caratteristico odore, un misto di scagno genovese e “aroma” di macchine da calcolo ben oliate. Almeno una o due volte la settimana con mamma e nonna vi facevo capolino verso le 18, dopo il giro di compere in via Luccoli e vicinanze e prima di tornare a casa in autobus. Oltre a mio padre e i due zii c’erano una signorina gentile e un giovane apprendista (fu proprio lui a rilevare la ditta molti anni dopo). Io mi aggiravo nelle varie stanze e toccavo tutto, ma ero abbastanza sopportato. Comunque il momento migliore era sempre quello della visita pre-natalizia, quando con eccitazione aprivo i regali (a casa mia non c’è mai stata la tradizione di farlo sotto l’albero, né la fiaba di Babbo Natale di cui sapevo solo vagamente dai miei compagni).
La morte del fratello primogenito Mario e la mancanza di eredi diretti di questi aveva un po’ “messo in sicurezza” i tre fratelli, grazie a un’eredità decisamente cospicua. Il povero Mario viveva da solo, ormai vedovo della sua Giovannetta e soprattutto dopo l’immane tragedia del suicidio di sua figlia Maria Rosa. Più grande di me di una quindicina di anni, questa mia cugina era una stimata poetessa (conservo gelosamente le sue poesie pubblicate in quattro raccolte), ma era affetta da una grave forma di paraparesi spastica con la quale tutti eravamo abituati a convivere, lei per prima. Le deformava il volto, le contorceva le braccia e il busto. Chi non la conosceva faceva fatica a capirla quando parlava. Da piccolo, avevo giocato molto con lei. A esergo del mio Cento nuovi mattini avevo scelto un suo verso, tratto da Ho la memoria fatta di granito: “Nessun’acqua potrà rimarginare / una ferita inferta nel granito”.
La morte della mamma fu la goccia che fece traboccare un vaso strapieno: Maria Rosa, in un pomeriggio piovoso, si gettò dalla finestra. Il padre non resse per molto a questa nuova disgrazia.
Ricordo che, in mancanza di un testamento, i tre fratelli risolsero ogni questione sui liquidi e sui beni che Mario aveva lasciato semplicemente con una riunione al pomeriggio di una domenica, alla fine della quale tutto era stato deciso senza il minimo attrito. Mi viene ancora oggi spontaneo fare il paragone con più d’una questione di eredità che invece aveva coinvolto mia nonna Clelia. I Merano erano una famiglia ben più numerosa: ad ogni lutto, cugini saltavano fuori da ogni dove, e così erano nate due o tre liti furibonde e discussioni a non finire. Questo contrastava assai con lo stile di vita dei fratelli Gogna.
Silvio viveva con la moglie Nuccia, senza figli: stessa cosa per Ubaldo che viveva, more uxorio, con colei che io chiamavo con grande affetto zia Dora. Alla morte di costei, mio padre propose al fratello Ubaldo di venire a vivere con lui in via Pareto 8, la casa che io avevo lasciato nel 1969 per stabilirmi a Milano. Il ménage dei due fratelli era perfetto, ed io avevo salutato con grande piacere che mio padre non fosse più solo. Due anziani che si volevano bene, Ubaldo vecchio genovese brontolone dotato dell’umorismo più pessimista, Alberto praticamente atarattico e sempre accomodante.
Il conforto della serenità di quella vecchiaia finì bruscamente con l’operazione di mio padre e con i gravi problemi pratici così innestati. Lo zio Ubaldo era bravissimo, e c’era anche un assistente che dava aiuto.
Ecco quindi spiegato il primo perché della mia lontananza dalle scene arrampicatorie di quel periodo: andavo a Genova a trovarlo, l’ho fatto due o tre volte, ma non nascondo che quella pena infinita che provavo, invece che avvicinarmi a lui come tutti i figli pensavo dovessero fare, in realtà me ne allontanava acuendo quelle misteriose e irrisolte problematiche di relazione tra me e mio padre e spingendomi ogni volta a fuggire da Genova, arrivando a mentire per giustificarmi. Salvo poi torturarmi in solitudine, per giganteschi sensi di colpa.
In questa situazione così agitata, è facile capire che ogni occasione era buona per dimenticare. Più o meno a metà luglio, fui invitato da Giovanni Rosti a una festa di laurea che la sua fidanzata di allora, Margherita, aveva organizzato assieme a un’amica, neo-laureata assieme a lei, in una splendida cascina agricola nei pressi di Lodi. Bella serata, calda e promettente evasione.
Mi recai a destinazione con il mio furgone arancio, per nulla consapevole che quella notte avrebbe cambiato radicalmente la mia vita.
Me ne guardai bene dal proporre a Nella di venire con me: forse nel segreto delle mie profondità erano già state prese le decisioni, era tutto più forte di me. Nei tre anni seguenti al ciclone Anne-Lise ero stato per lo più calmo, ma qualche avventuretta passeggera c’era stata, specie nell’ultimo periodo: segno che, in quel disagio, all’orizzonte si sarebbe presto manifestato un destino cui non potevo (ma neppure volevo) oppormi.
La festa si svolgeva sia nel cortile della cascina che al suo interno, con almeno un centinaio di persone. C’erano banchetti con ogni ben di dio, ma soprattutto il vino scorreva a fiumi. Gli invitati mi erano in massima parte sconosciuti, ma con Giovanni, Luca ed altri non feci fatica a fraternizzare con un po’ di loro, privilegiando il genere femminile.
Cercavo qualcuna con cui condividere qualche ora di leggerezza, confidenza immediata, identità di vedute, piacere di isolarsi assieme. E mi ritrovai davanti il perfetto esempio di ciò che volevo. Si chiamava Bibi (da Bibiana) ed era uno splendore di allegria, frizzante e bellissima.
Sarebbe inesatto dire che facemmo serata a parte, anzi. Per lo più ero io a seguirla, visto che lei conosceva proprio tutti: ma il nostro vagare tra i gruppetti con il bicchiere in mano era fatto assieme, con la complicità del fare battute tra di noi dopo ogni incontro con altri. Avevo la sensazione che anche lei quella sera cercasse qualcuno con le mie caratteristiche.
Sono passati troppi anni perché mi possa ricordare di qualche dialogo. Si sa che l’alcol lo favorisce ma spesso ne impedisce il ricordo. Nessun particolare dunque, solo la sensazione di grande benessere e vicinanza. Ricordo anche che c’era l’angolo musica, ma nessuno ballava, probabilmente per il caldo. Anche a mezzanotte infatti la calura non era per nulla diminuita, si soffocava. All’una, la folla degli invitati aveva cominciato a diradarsi, il brusio era diminuito, la musica si udiva da più lontano. Fummo invitati in una stanza all’interno dove ci venne offerta una striscia di coca. Per me era totale novità, ma in quell’occasione non esitai. Altra complicità in più.
Seguirono circa due ore di dialogo tra di noi, seduti in disparte. Cominciavamo a condividere i nostri sogni, cercando di raccontarci il nostro passato. Verso le tre, Bibi salutò quello che capii subito essere il suo fidanzato del momento. Lui insistette debolmente, ma lei fu ferma nel declinare l’invito a lasciare con lui la festa.
Ciò che seguì è ancora più indistinto, fino all’alba. Poi il chiaro ricordo dell’essere noi due soli in autostrada verso la barriera di Melegnano, quindi verso casa sua, poi ancora il congedo, con la promessa di rivedersi alle 16 in un preciso bar dei Navigli.
Il resto fu tutto molto naturale, come avviene tra due che s’innamorano. Avevo paura di perderla ancor prima di averla…
Purtroppo qualche giorno dopo era prevista la sua partenza con un gruppetto di amici per le isole Azorre, per me una quindicina di giorni travagliati dei quali contavo i minuti al termine.
La situazione a casa mia era di nuovo tesa: io ero così preso che avevo l’egoistica quanto infantile convinzione che prima o poi Nella avrebbe accettato il mio modo d’essere…
“Now I’m not looking for absolution
Forgiveness for the things I do
But before you come to any conclusions
Try walking in my shoes
Try walking in my shoes”
(Ora non sto cercando alcuna assoluzione, o perdono per ciò che faccio. Ma prima che tu tragga delle conclusioni, prova a camminare con le mie scarpe, prova a camminare con le mie scarpe)
avrebbe cantato un bel po’ di anni dopo (1993) Dave Gahan dei Depeche Mode in Songs of Faith and Devotion.
Ero ansioso di far scoprire a Bibi il mio mondo. Al di là dello sci di pista, non aveva idea di cosa fosse la montagna.
Il 14 agosto 1987 al Muzzerone vicino a La Spezia si dimostra assai volonterosa nei primi passi di arrampicata, tanto che il 16 la porto a fare la sua prima via di più tiri, Iperurania, sempre al Muzzerone.
Non ho ricordi precisi di cosa succede nei giorni seguenti: so solo che dal 19 al 23 agosto mi ritrovo con Nella a Finale Ligure. Saliamo su pareti all’ombra come nel caso della via Grimonett al Bric Pianarella, la via Adele alla Rocca dell’Aia (Loano), poi un po’ di vie a Monte Cucco (Stanza dei Bottoni, Lupo mannaro, Ultimi fuochi: Nella si decide a salire da prima queste ultime due, grande successo). Il 22 siamo ancora al Bric Pianarella sulla via dell’Amicizia (rp per me), mentre il 23 a Monte Cucco Nella sale da capocordata la prima lunghezza di Corpus Domini, poi arrampichiamo sulla via di Là; in seguito ci trasferiamo, sempre all’inseguimento dell’ombra, alla Cattedrale, dove però Nella preferisce farmi sicura sulla via Contessa e sulla via Grazia (che non mi vengono bene).
La facilità con cui Bibi aveva salito Iperurania, mi convinse a fare il passo successivo, cioè una scalata in un ambiente di montagna. Se si è al mare, la meta più comoda è il gruppo delle Alpi Apuane, così il 30 agosto la porto sullo Spigolo Ceragioli della Penna di Sumbra.
C’è una bella differenza tra il provare ad arrampicare in ambiente prossimo a una strada carrozzabile e dopo pochi minuti di avvicinamento, anche se a picco sul mare, e l’immergersi in una piccola avventura dove la solitudine, l’isolamento e la lontananza la fanno da padroni. L’arrivo in vetta alla Penna di Sumbra, nel tardo pomeriggio di quella meravigliosa giornata, è quasi irreale, perché entrambi ci sentiamo trasportati in una realtà che non stiamo condividendo con nessun altro. Sono fiero di essere stato l’artefice della felicità che i suoi occhi e il sorriso mi stanno dimostrando.
Purtroppo l’operazione che mio padre aveva subito non era servita a estirpare il tumore, aveva solo rallentato il processo di metastasi. Alla fine di agosto le sue condizioni peggiorarono e fu di nuovo ricoverato al Galliera di Genova. Il trasporto in ambulanza fu il suo ultimo viaggio. Dopo circa una settimana di ricovero, una notte spirò. In quel momento non c’era neppure un infermiere con lui.
Il funerale, con lo zio Ubaldo, qualche cugino e un pugno di amici, fu semplice come essenziale era stata la sua vita. Lo accompagnammo al cimitero di Staglieno e lo seppellimmo accanto a mia mamma, che lo aveva preceduto diciotto anni prima.
Il 12 settembre si sarebbe sposato a Torbole Luca Moro, un amico di Bibi che in seguito sarebbe diventato anche mio e con il quale entrambi abbiamo avuto a che fare per i successivi decenni. Invitati alla festa, prenotai una notte casualmente all’albergo del Passo di San Giovanni, sì, proprio lo stesso che oggi è ben visibile, abbandonato e in piena rovina. Ricordo che la mattina del 13, abbastanza rincoglioniti per la grande festa della sera prima, stavamo scendendo per fare colazione. Sulle scale c’erano delle fotografie a colori di alcune montagne. Mi soffermai davanti a una che raffigurava le Tre Cime di Lavaredo, la classica visione da nord. Dissi a Bibi: “Beh, questo dovresti sapere cos’è…”. Per me quell’immagine era sullo stesso piano del Cervino, o del Colosseo, se volete, o della Torre Eiffel. Per lei, evidentemente, no.
Raggiungemmo il nostro tavolino ridendo come matti. Ci faceva esilarare: io scoprivo che il legno da scolpire era molto più duro del previsto (“una specie di maggiociondolo” avrebbe sentenziato Mauro Corona che di legno s’intende assai); lei, neppure scalfita da una qualche vaga sensazione di ignoranza, si affacciava sul nuovo mondo senza timore e piena di allegro e fiducioso ottimismo.
Finita la colazione e fatti i bagagli ci dirigiamo verso la Parete Zebrata, dove scelgo di salire la via Rita, un itinerario non difficile ma comunque abbastanza lungo e adatto al “day after”.
In quei giorni Bibi incominciò a lavorare presso la ditta di Luca Moro: la So.Ra.Ro si occupava di smaltimento rifiuti: la decisione di abbandonare la Facoltà di Agraria cui era iscritta non fu facile ma fu presa in breve tempo. Credo d’essere stato io uno dei fautori principali di quella scelta: la proposta di Luca avveniva nel bel mezzo di una crisi studentesca, ed era allettante. Non avevo dubbi, io, che c’ero passato.
Questo comportava che potessimo allontanarci da Milano solo nei weekend, ma la gioia di Bibi nello scoprire di aver trovato una sua strada era ben più importante di qualche gita. Bibi aveva 25 anni: fu l’inizio di una lunga carriera, dedicata totalmente alla difesa dell’ambiente, che la portò il 22 febbraio 2011 ad essere insignita da Giorgio Napolitano del titolo di Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana.
Arrampicare nella Valle del Sarca è stato l’anticamera della prima uscita in Dolomiti. Il 20 settembre siamo alla base dello spigolo nord-ovest della Seconda Torre di Sella: oggi la via Demetz sembra particolarmente affollata, ma non ce ne facciamo un problema, data la bella giornata tiepida quanto basta. La cordata che ci segue è condotta da un simpatico ragazzo veneto. Siamo alla sosta subito dopo un passaggio impegnativo, forse il passo chiave, che Bibi ha superato con facilità. Mentre sto per ripartire, il ragazzo è decisamente in affanno, ed esita a fare quel movimento che lo porterebbe fuori dalla difficoltà. E’ molto vicino a noi, che lo incoraggiamo. Lui per due volte ci risponde “Me manca el coraio!”, poi alla fine, giusto poco prima che io gli butti un anello della nostra corda con moschettone, si decide e sbuffando ci raggiunge e ci ringrazia. Bibi comincia a capire cosa significa fare da capocordata e trovarsi, magari anche solo per un momento, non all’altezza della situazione.
Giunti in cima è ancora presto, così nella discesa decido di salire in vetta alla Prima Torre di Sella e di scendere a corda doppia per la via Steger, un modo per impratichirla in questo genere di manovre. Dopo qualche doppia che le faccio fare assicurata da me, l’ultima prima di raggiungere la base la conduce in autonomia, autoassicurata con il nodo Prusik.
La domenica dopo, 27 settembre 1987, non andiamo così lontano e ci accontentiamo del classico giro della Grignetta: Torre, via Corti + Spigolo sud del Fungo (via Boga, per me rp) + Lancia, via degli Accademici.
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Bel posto i prati del passo Fiocca sotto allo spigolo del Sumbra😉😁
La cosa simpatica e’ che, quando da giovani si incontrava una ragazza, che nulla aveva a che fare con la scalata e le si proponeva il giorno dopo di andare a scalare, lo si motivava sempre “al fine di farle conoscere il proprio mondo”.
Non so se sia il caso di questo articolo ma generalmente vi era sotto la ben più concreta motivazione di non perdersi nemmeno un giorno in parete, magari “casualmente” capitando nella falesia dove si sapeva sarebbero andati gli amici….
A me questa storia è piaciuta meno delle altre.
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Ebbene io, novello Girolamo Savonarola, mi rivolgo a voi, vanesi ex fricchettoni e peccatori col pensiero (e anche non col pensiero…).
Smorzandovi i bollenti spiriti fuori tempo massimo, vi dico: la Bibi del tempo che fu oggi ha sessantun anni.
Panta rei. Tutto passa.
N.B. Però sono certo che è una splendida (🤩🤩🤩) sessantunenne. Il notaio (Alessandro) conferma?
Eh sì Franceschi, come non concordare con te sul carattere ispiratore di alcune toponomastiche alpine. Questo colorito ricordo dei favolosi anni ‘80, in tutto il loro splendore vitale, atletico, festaiolo ed erotico, comprese le bollicine cantate da Vasco Rossi mi ha suscitato tuttavia qualche riflessione malinconica ma soprattutto democristiana ovviamente, copyright by Cominetti, di fine domenica stellare in montagna. Ho osservato, e sia ben chiaro che non mi riferisco al narratore che non conosco di persona, che alcuni “bon vivant” alpinisti e non, loro sì miei amici e sodali, di quell’epoca senza remore e sensi di colpa, dopo i dolori degli anni di piombo e di sangue, sono poi stati acchiappati allo svoltare del secolo da tristi e cupi pensieri apocalittici sulla fine del mondo e sulla disastrosa e inarrestabile decadenza dei tempi moderni. Espiazione, contrappasso…o semplicemente, come spesso accade si tende col tempo ad identificare l’avvicinarsi del proprio “termination day” con il “termination day” del mondo? Chissà….Allegria! Allegria! Diceva in quegli anni Mike, riprendendo un antico motto longobardo senza però citare il finale, un po’ volgarotto, ma profondamente saggio sulla inevitabile e tuttavia sopportabile oscurità (“negher” dice per la precisione il testo originale riportato nei codici conservati nella Biblioteca Ambrosiana) di una parte cruciale e delicata del nostro corpo e quindi della nosta vita. Domani è un altro giorno..
L’amor che move il sole e l’altro stelle…quello che muove il mondo…nel 1927 il Pian della Mussa, in val d’Ala, ispirò a Toni Ortelli il celebre canto “La Montanara”…
Adoro questi racconti di vita vera e vissuta con o senza consapevolezza.
Amori, dolori, perdite e nuovi incontri sono singole pennellate di un quadro complesso e ognuno ha il proprio.
Però bisogna saperlo raccontare e tu lo sai fare molto bene.
Sempre avvincenti, i diari di Alessandro!
ecche cazzo ! Per leggere la tua storia con Bibiana stavo bruciando la torta al forno