Walter Bonatti, oltre l’«impossibile»
di Gian Piero Motti
(pubblicato in Storia dell’Alpinismo) (GPM-SdA-32)
A differenza dell’ambiente alpinistico piemontese, che fu duramente colpito dalla scomparsa dei «maestri» Boccalatte e Gervasutti e che seppe riprendersi solo con notevole fatica verso gli anni Sessanta, l’ambiente lombardo, malgrado la guerra, si era conservato assai vitale, e tra le sue file annoverava ancora moltissimi arrampicatori di valore. Tra tutti va soprattutto ricordato Nino Oppio, le cui realizzazioni su roccia in Dolomiti e sulle Prealpi Lombarde avevano raggiunto un livello di difficoltà tecnica superiore a quello delle vie aperte da Cassin e da Ratti. Ma anche Oppio, certamente per la sua modestia, è un altro di quei tanti «eroi sconosciuti» che ogni tanto incontriamo sulla nostra strada. Nel suo caso, saranno i ripetitori delle sue vie a rimanere abbastanza sconcertati e sorpresi dalle fortissime difficoltà incontrate: soprattutto in arrampicata artificiale Oppio seppe fare cose che pochissimi oggi saprebbero fare, anche se dotati di tutto il raffinatissimo armamentario che certo allora Oppio non possedeva!…
Accanto al gruppo lecchese si era venuto a formare un altro nucleo di fortissimi alpinisti, che si radunava intorno a Monza, la piccola città industriale ormai assorbita dall’espandersi di Milano. Lo strano è che i due gruppi agiranno sempre abbastanza distintamente e che avranno anche caratteristiche differenti nell’esprimersi. Il gruppo lecchese, rappresentato dai «Ragni», avrà sempre caratteristiche più competitive, quasi campanilistiche, dove le personalità individuali sono meno precise e meno a fuoco; non per nulla avrà sempre grandissimo successo nelle spedizioni extra-europee, dove si richiede appunto una notevole coesione tra i partecipanti. Nel gruppo monzese, invece, vedremo sorgere delle personalità assai definite, che agiranno al di fuori di ogni rivendicazione di paese o di provincia, ma unicamente in funzione della loro passione e del loro intento creativo. Non è una cattiveria e nemmeno una malignità: è difficile che un «Ragno» realizzi salite con «gente di fuori»; è più facile che un monzese faccia cordata con un ligure o con un torinese. D’altronde quest’infantilismo del gruppo lecchese è del tutto naturale, ed è giustificato dalla presenza forte ed un po’ paternalistica di un Riccardo Cassin, il quale idealmente è il «padre» di tutti i Ragni ed al quale vanno rispetto, ammirazione e riconoscenza. Altrove, non essendoci padri, vi è differente crescita ed altrettanta maturazione in senso più aperto.
Anche se vive a Monza, Bonatti (1930-2011) non è monzese, ma è originario di Bergamo. Ma è nell’ambiente alpinistico dei « Pel e Oss » che egli fin da ragazzine si inserisce, ed è con gli amici Carlo Mauri ed Andrea Oggioni che egli comincia ad arrampicare sulle rocce della Grigna. Sappiamo che Bonatti ha alle spalle un’infanzia certamente difficile, come d’altronde è stata quella dei ragazzi che hanno vissuto la guerra ed ora si trovano in una situazione strana, come un vuoto in cui nulla si riesce a scorgere di positivo. Bonatti è uno di quei ragazzi della Grigna, che ancora non hanno visto il Monte Bianco e le Dolomiti: forse li sognano, ma per ora tutto ciò è nel mondo dell’impossibile e dell’irraggiungibile.
Ma ben presto il giovane Walter dimostra che qualcosa lo differenzia da tutti gli altri. Non solo lo sguardo un po’ glaciale e penetrante, non solo il sorriso stretto e metallico che lascia vedere una piccola parte dei denti. È soprattutto la volontà di riuscire, la straordinaria tenacia nell’agire e nell’attendere, la pazienza, la calma, la grande intelligenza che gli permette a priori di valutare con freddezza ogni situazione, formulando esattamente la teoria in modo da lasciare un minimo spazio al «probabile» nella realizzazione pratica. Come arrampicatore è freddo, calmo, forse un po’ lento. Forse nel suo gruppo vi sono arrampicatori stilisticamente più brillanti e dotati di lui, ma sono anche più nervosi, più inquieti e meno costanti. Bonatti non ha fretta e passa anche dove passano gli altri. Piuttosto saranno poi gli altri a non passare dove passa lui!… Forte della sua determinazione e capace di un autocontrollo divenuto leggendario, Bonatti è l’uomo che si proietta nel futuro pur restando nel presente. Il suo razionalismo ed il suo freddo coraggio, non disgiunti da una lucida presa di coscienza del proprio valore e della propria capacità, gli permetteranno di valicare ampiamente quel limite definito «impossibile» e di realizzare imprese di un valore alpinistico ed umano difficilmente superabile in futuro.
Già solo sulle Grigne, egli concepisce l’allenamento in maniera sistematica, già tutto proteso con il pensiero alle imprese alpine. Egli è certamente un ambizioso, un perfezionista e un insoddisfatto e cerca ogni volta di materializzare nella scalata il suo concetto ideale di perfezione. O forse semplicemente egli cerca nell’alpinismo la grande avventura individuale, dove resta infastidito da ogni restrizione, da ogni limite che giunga dalla collettività e dalle sue regole. È assai vicino a Gervasutti ed al suo agire, ma ancor più esaspera certi concetti. Egli è individualista al mille per mille, ma non nel senso comune che si vuoi dare alla parola e nemmeno in senso negativo. Bonatti attraverso la sua azione cerca di esaltare l’individuo, di ridargli il valore perduto, di riportare la parola uomo ad avere la U maiuscola. In questo senso si è sempre espresso, ma purtroppo dai più non è stato capito; anzi il suo agire gli ha attirato, come in pochi altri casi, critiche, invidie, calunnie, gelosie. Eppure Bonatti non odia i suoi simili, anzi probabilmente li ama profondamente. Forse ne ha pena e li compatisce, vedendoli prigionieri delle catene che essi si sono costruite.
Allora con la sua azione folgorante, che sembra andare al di là di ogni valore morale imposto, egli diviene un vero e proprio provocatore in senso positivo, in quanto cerca di scuotere gli animi, di risvegliarli. Ma purtroppo il sistema gli gioca un brutto tiro ed attraverso l’informazione lo propone alle masse come un modello irraggiungibile, come un superuomo, come una sorta di dio in terra. Bonatti per le masse diviene unico, irripetibile, irraggiungibile; ciò che fa Bonatti nessuno può fare; tutti cadono e muoiono, ma Bonatti non muore. Il suo messaggio amaramente viene tradito e Bonatti non viene capito, anzi, il suo intento finisce per essere negativo, in quanto il suo esempio viene proposto come inimitabile ed assoluto. Ed ecco che allora contro di lui si scagliano gli anatemi di pacifisti, di comunisti, di difensori della morale, di sociologi, di chiunque trova il feticcio di turno su cui appuntare lo spillo. Ma prima che tutti costoro lo vogliano morto, spingendolo a realizzare imprese sempre più rischiose e pazzesche, il nostro Walter intelligentemente capisce il giochetto: abbandona l’alpinismo, saluta tutti e se ne va, lasciando critici e detrattori a rodersi il fegato nello sforzo di comprendere i motivi dell’abbandono…
D’altronde la stessa storia ci insegna che il mestiere del provocatore (anche se agisce a fin di bene) è dei più duri e che si corrono dei rischi abbastanza seri, dove forche, croci e ghigliottine non mancano mai per chi ha «disturbato» il quieto vivere e l’ordine pubblico…
Comunque, ritornando all’alpinismo, Bonatti è uno dei pochissimi che, superando se stessi, sono riusciti a spostare il concetto di limite più volte durante la loro carriera alpinistica. Fin quando Bonatti è rimasto in azione, non ha potuto che essere imitato, anche se le imitazioni sono state di pregevole fattura. Egli stesso, con le sue realizzazioni stupefacenti, ogni volta abbatteva il limite che aveva definito con un’impresa precedente. Forse egli ha avuto l’accortezza di ritirarsi prima di conoscere il declino e la sconfitta. Comunque anche dopo aver lasciato il campo, non si sa ancora esattamente fino a che punto egli sia stato superato. O se lo è stato, si tratta di pochissimi casi d’eccezione, che inevitabilmente hanno sfruttato la scia da lui lasciata.
Perché tutto questo abbia potuto accadere in lui, quali traumi si celino dietro questo fenomeno, le cause del suo agire, è un rompicapo un po’ inutile che lasciamo agli addetti ai lavori. D’altronde, anche se riuscissimo a capire cosa si nasconde dietro il mantello, il nostro Walter Bonatti resta comunque Walter Bonatti, in quanto è soltanto un’operazione che altri fanno di lui e non un qualcosa da lui voluto. Che Bonatti sia stato un personaggio « scomodo » per molti, date le premesse esposte, è più che naturale. Che qualcuno voglia divertirsi a distruggerlo servendosi del «puzzle» della psicologia, è anche più che naturale. Faccia pure. A noi interessa ciò che Bonatti ha compiuto nell’ambito dell’alpinismo, e questa è una realtà che nessuno può distruggere. Se poi dovessimo scoprire che Bonatti è un nevrotico per cause X e Y, non si riesce a capire cosa potrebbe mutare nelle imprese che lui ha compiuto. Ma sappiamo tutti che è molto difficile ammirare (non adulare!) chi ci sovrasta. E sempre più facile cercare di abbatterlo e distruggerlo per motivi di quieto vivere e per non avere paragoni fastidiosi.
Un’eccezionale carriera alpinistica
Nel 1949 Bonatti non ha ancora vent’anni. In una sola stagione estiva ripete la parete nord delle Grandes Jorasses (via Cassin), la parete nord-est del Pizzo Badile (via Cassin) e la parete ovest dell’Aiguille Noire de Peutérey (via Ratti). L’inizio della carriera è folgorante. Nessun italiano si era ancora cimentato con queste pareti (escludendo, naturalmente, i primi salitori…!) ed il racconto dei pochissimi ripetitori stranieri non era stato certo allettante. Ma Bonatti non può accontentarsi di ripetizioni.
Abbiamo già parlato del Grand Capucin du Tacul. Si tratta di uno splendido obelisco di rosso protogino, una delle più ardite ed eleganti costruzioni rocciose della catena alpina. La sua parete est è alta più di 400 metri, caratterizzata da immense lastre levigate e compatte, solcate da esili fessure che come strani geroglifici striano le placche che qua e là vanno chiudendosi sotto tetti orizzontali giganteschi. È una parete impossibile in arrampicata libera. In Dolomiti forse qualcosa di simile era già stato fatto, ma sul granito nessuno aveva mai osato fino a quel punto. Certo Ratti aveva vinto in artificiale il diedro di 40 metri sulla Ovest della Noire, i tedeschi a furia di chiodi erano passati sulla Sud del Dente del Gigante. Ma si trattava di passaggi isolati.
Qui ci si trovava di fronte al problema di una parete da salire quasi interamente in arrampicata artificiale e gli enigmi per il granito erano molti. Teoricamente la cosa era anche possibile, ma che tipo di chiodi portare? quanti chiodi? e le incognite del granito, dove un solo metro di roccia levigata può arrestare inesorabilmente la progressione? Allora non c’erano i chiodi ad espansione e poi Bonatti non li ha mai usati.
Ma Bonatti passa all’azione e dopo due tentativi, con il torinese Luciano Ghigo, nel 1951, realizza l’impresa, che naturalmente desta i commenti più disparati e contraddittori. Il numero dei chiodi usati, per l’epoca, è impressionante: quasi duecento, quattro i giorni d’arrampicata (durissima) spesi in parete. Bonatti aveva dunque infranto il tabù che ancora regnava sulle Alpi Occidentali.
A scanso di equivoci, bisogna subito dire che l’impresa fu un grandissimo capolavoro di intelligenza e di intuito. Nel dedalo di diedri e di fessure, Bonatti, come guidato da un filo di Arianna invisibile, seppe sempre trovare la via logica e suggerita dalla natura. E con i chiodi che allora aveva a disposizione, più volte seppe veramente fare miracoli di tecnica e d’audacia. Si disse che la sua via non sarebbe stata mai più ripetuta. Invece lo fu poco tempo dopo. È il destino delle grandi realizzazioni in artificiale. La Est del Capucin di oggi non è certo più quella che trovò Walter Bonatti nel 1951: i belgi dicono che è una scala per galline, tanto è zeppa di chiodi, anche in quei lunghi tratti dove Bonatti passò in libera. Comunque sia, anche oggi, chi ripete la Est del Capucin resta veramente ammirato dell’intuito dimostrato da Bonatti durante la prima salita.
Il significato di quest’impresa è determinante ai fini del futuro sviluppo dell’arrampicata su roccia nelle Alpi Occidentali. A proposito il grande alpinista francese Jean Couzy ebbe a dire: «La prima salita della parete est del Grand Capucin ha tolto la stessa ipoteca che era stata tolta per il calcare venti anni prima sulla Nord della Cima Grande di Lavaredo. Ormai si è affermata l’opinione che non vi sia conformazione granitica anche estremamente ripida che non possa essere superata con una tecnica adeguata, a condizione di impiegarvi il tempo ed i mezzi necessari. Si devono sempre trovare fessure chiodabili, quando si abbia una certa abitudine nella scelta dei passaggi».
Infatti la risposta francese alla Est del Capucin non si fece attendere molto e fu realizzata, come vedremo, con la prima salita della parete ovest del Petit Dru, impresa certamente superiore dal punto di vista tecnico, ma che venne dopo l’altra.
Nel 1953 si prepara una spedizione nazionale al K2 e tutti i migliori alpinisti italiani si danno naturalmente da fare per essere prescelti. Bonatti non può mancare. E allora, con l’amico Carlo Mauri, magnifico arrampicatore che per una serie di sfortunatissime circostanze ha dovuto uscire dalla scena del grande alpinismo, Bonatti inventa qualcosa di nuovo nel campo dell’alpinismo invernale.
Infatti compie la prima invernale della parete nord della Cima Ovest di Lavaredo, aprendo a questa nuova forma d’alpinismo orizzonti ben più vasti. Va comunque ricordato che già prima alcune grandi realizzazioni erano state effettuate in inverno sulle Dolomiti, quali la via Comici sulla Nord della Grande di Lavaredo e la via Soldà sulla parete sud della Marmolada, magnifica impresa di eccezionale valore tecnico, compiuta da due scalatori austriaci di indiscusso valore: Hermann Buhl e Kuno Rainer (1950). La spedizione al K2 per Bonatti è una parentesi triste. In seguito a circostanze non ancora del tutto chiare (1), egli deve abbandonare a poche centinaia di metri dalla vetta e si trova costretto a bivaccare con attrezzatura leggerissima a quasi 8000 metri di quota (in realtà 8100 m, NdR).
A dispetto di ogni teoria che voleva il contrario, anche da quest’esperienza uscirà indenne, dimostrando che le possibilità dell’uomo non hanno certamente un limite definito.
Dopo il K2 Bonatti vive una parentesi amara e precipita in una crisi esistenziale in cui tutto viene messo in discussione. Ma egli si riscatta e ne esce realizzando un’impresa stupefacente, forse una delle massime che l’alpinismo ci ha offerto durante la sua storia. Egli a poco a poco si va convincendo di poter scalare da solo il fantastico pilastro sud ovest del Petit Dru, che si alza per più di 800 metri, levigatissimo e compatto, da un orrido canalone ghiacciato che si incastra alla sua base.
Bonatti ha già tentato il pilastro con gli amici monzesi e sa benissimo a che genere di difficoltà va incontro. Ma riesce gradualmente a caricarsi di un’energia straordinaria ed incredibile, che lo conduce fino all’assoluta certezza di riuscire. Egli allora entra come in una dimensione mistica e visionaria, in cui l’impossibile non esiste ed in cui tutto può riuscire. Ed eccolo infatti lottare per sette giorni da solo su quelle placche immani. È un uomo che vive su un altro pianeta, che penetra una dimensione sconosciuta: parla con se stesso, discute con il proprio sacco, parla con la roccia.
Ogni gesto va calcolato, studiato, analizzato; nessuno gli è accanto, nessuno divide l’angoscia, i timori, le paure. Eppure Bonatti sale costante, metodico, sereno, quasi indifferente. Sa di poter riuscire. Ma sul cammino incontra difficoltà tremende, più volte deve risalire il tratto già superato per svellere i chiodi, più volte deve compiere pendoli sul vuoto per raggiungere zone più fessurate ed arrampicabili, più volte si trova di fronte all’impossibile, alla strada chiusa. Ma sempre trova pazientemente la chiave per uscirne. Ad un certo punto si trova in una situazione estremamente critica: alcuni pendoli ed alcune traversate a corda orizzontali, irripetibili in senso inverso, in quanto egli ha ritirato la corda, lo portano in una specie di guscio liscio e gigantesco, racchiuso tra tetti insuperabili. Non solo potrebbe essere la sconfitta, ma anche la trappola mortale da cui non si riesce più ad uscire, in quanto né scendere né salire riesce possibile. Dopo un momento di atroce sconforto, Bonatti ritrova tutto il controllo di se stesso e ritorna ad essere una fantastica macchina psicofisica: a circa 15 metri da lui, sospese sul vuoto, scorge alcune schegge di roccia. Allora eccolo più volte lanciare una specie di «lazo» formato da anelli di cordino, da moschettoni e da chiodi, nel disperato intento di poter agganciare quegli spuntoni rocciosi. Infine vi riesce, ma, al momento di tuffarsi a pendolo nel vuoto, egli esita ancora a lungo. Se il «lazo» non tiene, è la caduta mortale. Poi socchiude gli occhi e si abbandona al moto pendolare, dominando il canale di ghiaccio su un vuoto di alcune centinaia di metri. Quando l’oscillazione si arresta, eccolo risalire la corda a forza di braccia ed issarsi con uno sforzo sovrumano sulle schegge di roccia…
Ciò che Bonatti ha compiuto sulle placche del Petit Dru è qualcosa di irripetibile e di assolutamente fantastico, anche se la sua impresa suscitò feroci critiche da parte dei difensori dei valori della vita. Si può dire che egli in solitaria salì sempre in autoassicurazione, ma evidentemente una parete come quella non poteva concedere altre alternative. Bisogna sottolineare il fatto che Bonatti, anche se quest’affermazione può sembrare una battuta di spirito, si è sempre dimostrato un alpinista prudentissimo ed assai scrupoloso in ogni manovra che garantisca la sicurezza.
Chi in quest’impresa cerca il fattore esclusivamente tecnico, chi vuole conoscere il grado di ogni passaggio superato, chi vuole sapere se Bonatti superò il tale passaggio in arrampicata libera o artificiale, è cieco, accecato dal suo spirito di competizione ed è evidentemente fuori strada. Ciò che conta è il valore umano di quest’impresa, è la dimostrazione delle straordinarie capacità dell’uomo, di cui egli stesso deve a poco a poco convincersi, a dispetto di una parte di se stesso che lo imprigiona e lo rinchiude nel campo del definito e del limitato. Straordinario è che Bonatti, in quegli anni, sia giunto a convincersi della possibilità di poter compiere un’impresa come quella, più ancora che la realizzazione stessa. Realizzazione che, dal punto di vista alpinistico, resta indubbiamente come un capolavoro di audacia e di tenacia.
Ma Bonatti sembra insaziabile, inarrestabile, come posseduto da un demone interiore, che però egli sa amministrare e controllare con grande intelligenza. Decide di divenire guida ed infatti si trasferisce a Courmayeur. Gli ambienti locali gli rendono la vita piuttosto dura, ma Bonatti sempre risponde elegantemente con imprese eccezionali, che non lasciano spazio ad alcuna discussione. Con meticolosa cura, quasi con affetto morboso, egli va alla ricerca di tutte le pareti ancora inscalate del Bianco: le attacca, le supera; in estate come in inverno non c’è parete che sembra potergli resistere. La stampa si impadronisce di lui e ne fa l’uomo della leggenda, strumentalizzando anche in modo laido e vergognoso alcune tragedie in cui Bonatti rimane purtroppo coinvolto e che causano la morte di alcuni tra i suoi più cari amici. Se forse vi è un torto in Bonatti, questo è nell’aver sempre scelto per compagni degli alpinisti che potessero giocare un ruolo di secondo piano rispetto a lui. Ma purtroppo, quando si ha a che fare con personalità come quella di Bonatti, è sempre estremamente difficile l’accordo tra uomini di pari forza.
Così nel 1961, in un tentativo di salita al Pilone Centrale del Frêney, la tragedia lo colpisce durissimamente. Infatti durante la drammatica ritirata, dopo giorni e giorni di bufera violentissima, periscono di stenti i compagni Andrea Oggioni, Pierre Kohlmann, Robert Guillaume ed Antoine Vieille.
È l’occasione buona per i profani, gli incompetenti e per tutti i nemici che Bonatti si è fatto con la sua azione alpinistica. Piovono accuse assurde, si fomentano polemiche che non hanno senso, dove ciascuno vuole dire la sua, anche chi le montagne le ha solo e sempre viste con il cannocchiale da fondovalle. E si dimenticano coloro che sono morti per un ideale di vita, su cui si può discutere fin quando si vuole; ma non per questo si deve perdere il rispetto per chi è caduto lungo il suo cammino, lungo una strada che deliberatamente era stata scelta, ben conscio dei rischi che essa presentava.
Ma ancora una volta Bonatti sa reggere l’assalto e torna all’alpinismo. Sull’insidiosissimo Grand Pilier d’Angle realizza ben tre imprese capolavoro, dando a ciascuna parete della montagna la soluzione logica ed appropriata. Poi, nel 1963, vuoi dire qualcosa di nuovo anche nell’alpinismo invernale e con il forte Cosimo Zappelli supera in condizioni ambientali durissime la via Cassin sulla parete nord delle Grandes Jorasses, sempre fedele al suo stile severo, elegantissimo e pulito: niente corde fisse, niente assalti successivi, nessun aiuto dalla base. L’impresa è un vero modello di eleganza per gli specialisti dell’alpinismo invernale. L’anno successivo le Grandes Jorasses lo vedono ancora protagonista; infatti, con Michel Vaucher, apre una via difficilissima sulla parete nord della Punta Whymper. I due si trovano coinvolti in una situazione estremamente critica, ma facendo forza sulle loro eccezionali capacità e su un morale non comune, riescono a venir fuori anche questa volta pressoché indenni.
Bonatti decide allora di chiudere con l’alpinismo, ma forse ancora non riesce a trovare tutta la forza per staccarsi da qualcosa che egli in fin dei conti ama al di sopra di ogni cosa. Così, nell’inverno del 1965 per l’ultima volta supera se stesso ed apre una nuova dimensione dell’alpinismo, realizzando ciò che mai era stato realizzato: da solo, in inverno, apre una nuova via sulla parete nord del Cervino. Per quasi una settimana il suo mondo è quello tetro, senza sole, ghiacciato, di quelle rocce instabili e rotte dal gelo. Ma anche questa volta Bonatti ritrova la forza mistica che lo sostiene in queste occasioni e quasi con dolcezza e senza fretta si alza sul muro ghiacciato e disumano. Ai passaggi superati da nomi strani come La traversata degli Angeli. Reinhold Messner, di cui sappiamo la forza ed il valore, tornato da un tentativo di ripetizione di questa via ebbe a dire: «Avrei potuto dire che sono tornato perché il tempo era cambiato. Invece ci tengo a dire che sono tornato perché non sono riuscito a passare. Ciò che quell’uomo ha saputo fare da solo su quella parete ha del fantastico e dell’incredibile».
«… Verso mezzogiorno mi sembra di udire, tra le raffiche del vento, delle grida umane. Pochi minuti dopo le voci si ripetono. Non ci sono dubbi: qualcuno è lassù. Ma dove? Sulla cima o su una delle due creste? Allora grido anch’io: “Chi siete? Dove siete?”. Dalla loro risposta saprei orientarmi verso la vetta, perché da dove mi trovo vedo soltanto rocce senza forma. Schiacciato contro quel cielo azzurro-ghiaccio, il Cervino appare senza cima. Ma le voci si perdono nel vento e tutto torna come prima… Sono ancora solo con la mia fatica. Gli sforzi di tutti questi giorni e l’aria sempre più rarefatta appesantiscono il sacco in maniera insopportabile. Mi sembra di essere diventato un personaggio biblico, condannato, per i suoi peccati, a salire eternamente. Verso le tre del pomeriggio, quando mi trovo a soli cinquanta metri dalla vetta, improvvisa e splendente, appare la croce. Il sole l’illumina da sud e la rende incandescente. Rimango quasi abbagliato. Penso alle aureole dei santi. Gli aerei, che finora mi hanno assordato con il loro rombo, sembrano intuire la solennità del momento. Forse per discrezione, si allontanano per un po’ e mi lasciano percorrere gli ultimi metri in silenzio, completamente solo. Come ipnotizzato, stendo le braccia verso la croce, fino a stringere al mio petto il suo scheletro metallico: le ginocchia mi si piegano e piango (Walter Bonatti, I giorni grandi, Arnoldo Mondadori Editore, 1971)».
Nota
(1) Poi chiarite con la pubblicazione del libro K2. Una storia finita. Relazione di Fosco Maraini, Alberto Monticone, Luigi Zanzi sulla spedizione italiana al K2 del 1954 (Priuli & Verlucca, 2008).
Lascio il mio commento qui…sperando che possa ricevere nuovamente…le news. Bye!
https://www.montagna.tv/243405/si-e-conclusa-sul-monte-bianco-la-carriera-di-patrick-gabarrou/amp/
Gabarrou anche lui un immorale, eppure è un credente praticante…boh…?
@48 Guarda che in città TUTTI vivono così (stile ferroviario), o quanto meno moltissimi: non sono solo io a seguire tale stile, in cui peraltro mi trovo benissimo e non vedo perché dovrei camvbarlo. Se mi guardo intorno, anche fra i miei amici/conoscenti che NON vanno in montagna, lo stile di vita durante la settimana è sempre quello. L’unica differenza è che, alla domenica, hanno un altro “passatempo”: la bici da strada, le gare podistiche, il canottaggio… Siccome gran parte della popolazione italiana vive in contesti urbani, e molti in contesti metropolitani, è probabile che, numericamente, siano più numerosi quelli in “stile ferroviario” che gli “alternativi”…
Bonatti, tutto muscoli ben oliati, che lotta con il serpente a petto nudo è una foto che rasenta il vergognoso per tuffarsi nel ridicolo.
Instagrammer anzi tempo.
Crovella è completamente andato, basta non leggerlo
“Visione ferroviaria”?!?
Mi piace!
Adotterò anch’io l’espressione, grazie.
Crovella, scrittore, storico politicante, consigliere condominiale, istruttore Cai, polisportivo brambilla, cazzo, ma capite che questo si è stampato un biglietto da visita firmato protocollo ed è capace di ammorbare chiunque su qualsiasi argomento.
Riconduce TUTTO alla sua visione sistemica e ferroviaria (perché si sviluppa su rigidi binari d’acciaio) perché in fondo è la cosa più comoda da fare sempre, per chiunque.
Con lui vale il fingersi pazzi squilibrati violenti, così ti lascia perdere.
Sarai capace di leggere, ma non sei capace di capire.
Solo tu puoi confondere “il diritto individuale alla massima libertà in montagna” con il “fare grado” e tantomeno con il “non saper rinunciare, a non saper tornare”.
Nessuno ha mai scritto qualcosa che possa assomigliare a questa confusione. Mai.
Senza conoscere te né il tuo curriculum aldilà di quanto scrivi qui, ho una precisa opinione sul perché tu debba operare questa confusione e perché non possa accettare o capire quello che scrivono gli altri.
Ma è una mia opinione e non la esporrò.
@ 45
Concordo.
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E’ la prima motivazione per cui ogni week end l’elicottero vola.
Sì si sono capacissimo a leggere e confermo che anteporre il diritto individuale alla massima libertà in montagna, nell’attuale mondo della montagna, può portare facilissimamente a sconfinare nell’ “andare alla cazzo”. Il trend in atto è che gli amatoriali forti, gli “accademici” per caprici, si stanno assottigliando sempre più. I nuovi forti quasi sempre passano al professionismo (o GA o sponsorizzati) e quindi, statisticamente, cambiano categoria. Cosa succede allora? Che si sta assottigliando, specie in termini di giovai generazioni (ma non solo), la schiera di soggetti cui puoi fare discorsi tali da portarli nel range degli amatoriali “forti”, mantenendoli però al di qua del confine del non ritorno (oltre il quale si entra nel regno di “andare alla cazzo”). E non solo i giovani, ma un po’ tutta la platea è oggi sotto una pressione pazzesca di stampo prestazionale. “Fare il grado” (che può mutuarsi in tutte le declinazioni delle infinite attività, dall’alpinismo in quota allo scialpinismo, allo sci ripido, perfino ad un certo escursionismo “spinto”)il lo giudico molto discutibile, perché porti delle persone facilmente condizionabili (e la realtà dimostra che possono anche essere d’età) al limite oltre il quale scatta il “non saper rinunciare, a non saper tornare”. Questo tipo di mentalità io la giudico moralmente deprecabile. Lo dicevo già 40 anni fa, a maggior ragione lo dico nel mondo “social” dei nostri giorni.
Vero.
Couzy se non erro fece la prima invernale con Desmaison.
Poi Desmaison fece la prima solitaria.
“I vs commenti appaiono dei proclami di una squadriglia di kamizake, che si esaltano per i loro compagni “caduti” e in certi casi li osannano”
Cazzo Crovella, ma allora non sei proprio capace di leggere!
@ 37 e 39. Piccola nota da pignolo, Jean Couzy con la ovest del Dru non c’entra niente… Erano Magnone, Berardini, Dagory, Lainé.
Sono esterrefatto dal messaggio di fondo di molti di voi. I vs commenti appaiono dei proclami di una squadriglia di kamizake, che si esaltano per i loro compagni “caduti” e in certi casi li osannano. Se si mette la libertà di scelta di seguire questo modello (“andare alla cazzo”) davanti al valore della vita umana, si è moralmente MOLTO criticabili, altro che “sabbie mobili”. Lo dico e lo ripeto. Questo a prescindere dall’ “aggravante” dei figli, elemento che si aggiunge w diventa determinante. Sono felice di esser cresciuto alpinisticamente in un gruppo-Scuola dove la mentalità dominante è diametralmente opposta. Eppure questo non ci ha impedito di saper “viaggiare” anche su terreni impegnativi e tecnicamente difficili, sia con gli sci che senza 8vie in quota ecc). Certo, NON abbiamo scritto pagine di storia alpinistica (bhe bhe, fino a un certo punto: i ns. raid in sci, che hanno coinvolto anche il sottoscritto, in alta montagna – 4000, ghiacciai, tour ad anello, un segno lo hanno lasciato. Di alcuni ho relazione anche sul Blog), ma non ce ne frega niente. Quello che ci interessa è che l’andar in montagna sia un fattore “sano”, rinfrescante, rigenerante dei ogni individuo fra una settimana di stress cittadino (lavoro, figli, grane condominiali, grane del CAI, politica, altre società sportive, culturali e di volontariato in cui si è coinvolti…) e la prossima che sta per iniziare. In questo gruppo, la montagna è un catalizzatore umano, un meccanismo che da incontrare persone simili o che vengono “avvicinate” fra loro con l’insegnamento didattico. Si formano amicizie che durano decenni e decenni, si incontra il partner della vita (in matrimoni, che, salvo rarissime eccezioni, risultano stabili e sereni, anche loro pluridecennali), si fanno incontrare fra loro i ns figli, che a loro volta creeranno la generazione successiva, frequentandosi non solo in montagna in senso stretto ma in generale (giri in bicicletta, vacanze al mare, compartecipazione alle scuole di vela, ecc) così come abbiamo fatto noi a suo tempo. Per puntare a questo obiettivo dobbiamo “rinunciare” alle grandi performance? E chissenefrega delle performance, anzi l’alpinismo che “spinge”, sconfinando nell’andare alla cazzo”, non lo consideriamo un valore etico e morale, bensì un “disvalore”. Visto l’assioma di fondo del modello didattico del CAI, imperante da circa 25 anni, è incredibile che ci sia ancora gente che sbandiera l’alpinismo che “spinge”, ammettendo la prevalenza della libertà individuale di” andare alla cazzo”. Specie gli istruttori del CAI dovrebbero insegnare a starne distanti, da tale modello sbagliato: bisogna insegnare l’approccio diametralmente OPPOSTO.
Concordo con Roberto Pasini #35:
“Togliamoci dunque dal crepaccio senza fondo della moralità e della precettistica, laica o religiosa.”
Anche perché si cade inevitabilmente in trappole cognitive inaspettate che rendono veramente scivoloso il tema.
Come è capitato a Giuliano Bosco #35:
“l’istinto di protezione nei confronti dei figli è uno dei “valori fondanti” su cui si basa qualunque società in qualunque parte del mondo (compreso il “mondo animale”)”
Che da per scontata una cosa assolutamente non vera. Basta pensarci un attimo e ci si rende conto del numero di società umane in cui la protezione dei figli è al massimo uno dei valori, tra tanti altri anche più forti.
Senza parlare del mondo animale, dove esistono anche specie che predano i propri piccoli…
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Concordo con tutto quello che scrivi. La Cousy e’ più lunga ma tecnicamente molto più difficile non direi. Unica riga non condivisibile della bella ricostruzione storica dì Motti.
La Bonatti-Ghigo alla est del Capucin è una gran bella via, ha una grande continuità nelle difficiltà, sempre verticale, lo posso affermare perché l’ho salita a metà degli anni 80. Si infila in mezzo agli strapiombi cercando, astutamente la via d’uscita aggirando strapiombi con traversi per collegare diedri verticali che regalano un’arrampicata entusiasmante. Il pilastrone del Capucin poi è bellissimo, circondato da una corona di cime e guglie spettacolari. Il granito rosso del Capucin a differenza del Dru è ottimo. La Magnone è più dura? Sicuramente è più lunga ed ha un attacco più pericoloso e un avvicinamento più faticoso. Sulla est Bonatti fece dell’artificiale, ma lo fecero anche i francesi al Dru. Sulla est del Capucin non furono usati chiodi a pressione, Sulla ovest del Dru ne furono messi diversi lungo la traversata di collegamento arrivando dalla via Allain sulla nord. Perché i francesi per raggiungere il punto dove erano arrivati la volta precedente e poter finire la via, salirono dalla più facile parete nord. Comunque questi confronti lasciano il tempo che trovano , visto il livello di entrambi le vie.
Tra l’altro se non erro Jean Cousy e soci si avvalsero dei chiodi a pressione. Certo la via e’ più lunga della Bonatti al Capucin ma….
Comunque la via più logica e pazzesca era chiaramente sul pilastro sud ovest e guarda caso il Walter non se la fece scappare.
Tornando a parlare dì montagna, nell’articolo si dice che la risposta francese alla est del Capucin fu la via alla ovest dei Dru tecnicamente più difficile. Siamo sicuri che fosse davvero più dura tecnicamente? In ogni caso poi con il pilastro sud ovest si è’ ripreso lo scettro.
Bello scritto dì Motti comunque.
La foto iniziale bellissima, il volto segnato da qualche zuccata sul granito, le mani come badili e se non erro una bella bistecca davanti…. Camicia dì ordinanza. Un mito. Insuperato, insuperabile.
Se ci mettiamo sul piano della precettistica morale relativa alle attività ludiche consentite al buon padre/madre di famiglia finiamo tutti nelle sabbie mobili. Ovviamente il tema non si pone per le attività non ludiche. Penso infatti che nessuno oserebbe tracciare di immoralità un genitore che fa il poliziotto, il pompiere, il soldato….Non solo. Senza indulgere alle fantasie di persecuzione che ogni tanto emergono nel blog, non dobbiamo dimenticare che a volte il giudizio morale prelude alla norma e allora le sabbie mobili diventano bollenti. Ugualmente controverso, come già detto da qualcuno, è il tema della “modica quantità” che non fa scattare il giudizio morale. Rischia di più ( vista l’incidenza degli infarti) facendo una ferrata il buon padre di famiglia cinquantenne un po’ sovrappeso, che ama il cibo ad elevato indice glicemico e il buon vino e ha magari il colesterolo alto che gli sta intasando le coronarie o il buon padre di famiglia cinquantenne figaccione, vegano, che si sveglia alle 5 per scolpire tartaruga, bicipiti e dorsali prima di andare al lavoro e affronta un vione classico dopo sei mesi di allenamento in falesia? Qui entriamo in un lavoro di fino che richiede un bilancino da applicare caso per caso, come il manuale ad uso dei confessori che in gioventù mi mostro’ un amico gesuita e che classificava il grado di immoralità delle diverse pratiche sessuali in ambito familiare ed extra. Togliamoci dunque dal crepaccio senza fondo della moralità e della precettistica, laica o religiosa. Un approccio basato su un utilitarismo pragmatico e consapevole ci consente forse di trovare la quadra tra buon senso, libertà e responsabilità. Cosa è davvero importante e vitale per me nella mia scala di priorità/bisogni/valori ? Cosa sono in grado di fare realisticamente con le mie attuali risorse fisiche e mentali ? Cosa mi consente in questo momento la realtà che mi circonda? Quali saranno probabilisticamente le conseguenze delle mie azioni su di me e sugli altri ai quali attribuisco valore e importanza? Veloci domande, veloci risposte, con onestà e senza sconti, davanti allo specchio e poi “ e anda” senza rimpianti e rimurgini, assumendosi le responsabilità del nostro destino, per quel tanto di lui che possiamo governare con il nostro agire.
Dal momento che nessuno ti ha giudicato, mi sembra il minimo che rendi a chi la pensa diversamente da te, il rispetto o almeno la delicatezza.
Quante persone muoiono sul lavoro? Sicuramente molte più che in montagna!
Eppure si continua ugualmente ad andare al lavoro proprio per una questione anche morale, devi mantenere la tua famiglia!
Non mi pare si tratti di morale ma di buonsenso!
L alpinista, se estremo ancora di più , ne è totalmente privo,altrimenti non rischierebbe tanto.
Ma quale ” appassionato” di montagna non ha fatto suo almeno per una volta il motto di Gervasutti ” osa, osa sempre …..”? Chi non ha rischiato andando oltre il proprio limite, traendone poi piacere invece che paura?
È nella natura umana rischiare che ha poco a che fare con la morale legata al dovere.
Com’è che diceva quella canzone da boomers … “Nessuno mi può giudicare …”.
Buona montagna a tutti.
Giuliano Bosco io non ti giudico, quindi non giudicare.
Enzo Ferrari sosteneva che un pilota con un figlio perde un secondo al giro.
Forse bisognerebbe fare attenzione a mettere tutto sullo stesso piano in nome dei “propri valori”. Ribadendo che ognuno si comporta come meglio crede, l’istinto di protezione nei confronti dei figli è uno dei “valori fondanti” su cui si basa qualunque società in qualunque parte del mondo (compreso il “mondo animale”) ed è strettamente e intimamente collegato al tema della prosecuzione della specie. Ci andrei cauto a confrontare questo “valore fondante” con il piacere personale che può derivare da una prestazione estrema e, in quanto tale, esposta a notevoli rischi.
Questa considerazione, molto spesso emerge “spontanea” nel momento in cui il figlio nasce. Ricordo di averne parlato tanti anni fa con una validissima Guida Alpina che aveva all’attivo attività importanti e che era diventato padre da poco. Mi diceva che la nascita del figlio lo stava facendo diventare molto più prudente fino a rinunciare a certo itinerari che presentano elevati pericoli oggettivi (si parlava dello Sperone della Brenva, niente di estremo ma con rischi poco prevedibili).
Nella maggioranza dei casi ci pensa l’istinto personale a far scattare l’autolimitazione.
Quello su cui si può, forse discutere, è sulla CONSAPEVOLEZZA di quello che si va a tentare. Se siamo veramente consapevoli dei rischi, pericoli a cui andiamo incontro, se abbiamo dei margini, se siamo in grado di poter rinunciare, se siamo veramente preparati per affrontare quella determinata ascensione, se abbiamo ben presente che ci potranno essere degli imprevisti e come tali andranno affrontati al momento, se abbiamo tenuto nella giusta considerazione le condizioni meteo e della montagna.
Ma non se è giusto o sbagliato, se è morale o immorale. Perchè sono scelte personali, ed è evidente che ognuno di noi la può pensare in modo diverso, come è giusto che sia. Ognuno di noi ha i propri valori a cui da un’importanza diversa. C’è chi l’amore per una persona è tutto , c’è chi invece i soldi sono tutto.
Quello di cui tu stai parlando è il tuo senso del dovere verso i valori che tu ritieni degni e fondanti.
Che non valgono per tutti.
Quello che tu non dici ma che traspare da quello che scrivi è qualcosa di differente: quello che viene in mente a te come primo esempio è il prode Ettorre.
Che vale ancora meno per tutti, ma anzi è un archetipo decisamente censurabile.
Il senso del dovere. L’ho descritto mille volte! Come si fa a dirmi cora, dopo mille volte, “ma cosa intendi epr senso del dovere?”
Non voglio riscrivere tutto: il senso del dovere può avere molteplici riscontri, ma con riferimento al tema “rischio in montagna”, il senso del dovere è principalmente verso le persone che dipendono da noi, economicamente ma non solo. sono i nostri congiunti, in particolare i figli, se piccoli/adolescenti(giovani adulti, possono essere anche altri soggetti Ho già fatto mille volte (Bertoncelli perdonami!) l’esempio al piccolo imprenditore/artigiano/professionista che ha un’attività con 5-7-10 dipendenti o collaboratori (e rispettive famiglie), i quali, se muore lui, il titolare, vanno in strada dalla sera alla mattina. ecc ecc ecc.
Della serie: vuoi fare la vita in cui anteponi il soddisfacimento egoistico delle tue passioni (anche quelle, in partenza, positive come la passione alpinistica)? Ebbene fai pure, ma allora sceglie di NON avere altre responsabilità. Se viceversa scegli di avere altre responsabilità, in particolare se METTI AL MONDO DEI FIGLI, dovresti seguire un approccio che tende a minimizzare l’esposizione al rischio in montagna (di questo stiamo parlando, potrebbe valere anche per qualsiasi altro risvolto della vita) e non seguire con l’andazzo, oggi molto diffuso, dello “strappare” le ascensione/discese/arrampicate, cose che evidentemente non riduce l’esposizione al rischio.
Ognuno scelga come preferisce, ma chi ha i piedi in due scarpe io lo critico senza se e senza ma: o stai di qui o stai di là. Se, con figli piccoli/adolescenti ecc, vai in montagna “alla cazzo”, pur essendo forte tecnicamente, confermo che io definisco questo comportamento “immorale” (sul punto, faccio riferimento alla definizione più volte espressa, per cui non fatemela ripetere). Ciao!
“Siamo nell’ambito del “libero arbitrio” e ognuno si regola come meglio crede in funzione di una miriade di variabili.”
“ognuno (ovviamente) fà come crede giusto fare”
Giuliano, è esattamente quello che intendevo.
Ma aggiungerei però che è ben poco laico e per nulla accettabile il pretendere che la propria morale abbia valore universale, che debba valere per tutti, fino ad arrivare a giudizi gratuiti su persone che hanno avuto incidenti e a dare dei cazzoni a chi a te pare applichi morali differenti (senza in realtà sapere nulla e capendo anche meno) .
Mescolare poi Sangiuliano, Sallusti, i cannibali, i giudizi politici, quelli morali (come successo di là) mi pare poi ridicolmente patetico.
Mi/Vi chiedo, ma in montagna cosa ci andate a fare dal momento che la pensate così?
Perchè mettete a repentaglio la vostra vita, in modo così inutile? E poi venite qui sul blog a criticare chi, come voi, rischia in modo inutile?
In fondo la montagna è pericolosa per tutti: professionisti, amatoriali, prudenti, estremisti. Certo l’alpinista estremo rischia di più e più volte. Non ci sono dubbi. Ma spesso gli incidenti avvengono in modo banale , alle persone più prudenti che non erano andate a fare cose estremo e/o palesemente pericolosee. Basta ed amen. Ed a tutti: professionisti, amatoriali, prudenti, azzardoni, moralisti, immorali, alpinisti, escursionisti, vi verrà detto senza distinzioni di classe, età, bravura e/o idelologia: ve la siete andata a cercare.
Si può morire pure inciampando nel tappeto del salotto di casa …
Qui si parlava di esposizione prolungata al rischio elevato insito nella pratica dell’alpinismo estremo e di come tale esposizione possa essere considerata alla luce delle responsabilità familiari.
That’s it.
Totò diceva che la morte è una livella.
Ma che differenza tra la morte di un alpinista amatoriale/professionista sposato e con figli, e la morte di un alpinista amatoriale/professionista non sposato e senza figli ?
La prima viene condannata e costui andra all’inferno? Mentre la seconda è scusata?
E un escursionista sposato e con figli che muore cadendo da un sentiero, perchè inciampa, anche lui è immorale oppure è scusato perche è solo un escursionista sfortunato? In montagna mica muoino solo gli alpinisti.
@18. Beh, nn è proprio così difficile. Senza arrivare a citare i massimi sistemi, ma limitandosi al concetto di “responsabilità personale nei confronti dei propri familiar”, forse è abbastanza facile capire che ci sono rischi che probabilmente è meglio non prendersi.
Bonatti, quando faceva alpinismo di altissimo livello, non mi risulta che fosse sposato nè che avesse figli. Nella mia modesta concezione della vita, la presenza di una moglie e, ancor più, di figli, costituisce una sorta di “spartiacque delle responsabilità”. L’assenza di legami familiari (e delle conseguenti responsabilità), rende certamente l’individuo più libero di disporre della propria esistenza e quindi di esporsi ai rischi elevatii che sono inevitabili quando si pratica l’alpinismo ad elevati livelli. Un altro grandissimo (e “fortissimo”) dell’alpinismo di tutti i tempi fu Giusto Gervasutti, anche lui, mi risulta, senza moglie e figli. Entrambi (Bonatti e Gervasutti) nn disdegnavano certo la compagnia femminile però “casualmente” quando producevano salite memorabili non avevano nessuno a casa che li aspettasse ansioso.
Ovviamente esistono moltissimi alpinisti “di punta” che sono “ammogliati e/o affigliati”. Così al volo mi vengono in mente i nomi di Messner e di Casarotto. Il primo ha avuto l’abilità/fortuna di riuscire a portare “le scarpe da vecchio”. Il secondo, purtroppo, no. Siamo nell’ambito del “libero arbitrio” e ognuno si regola come meglio crede in funzione di una miriade di variabili.
Tuttavia, così come esiste la libertà di praticare l’alpinismo che si vuole indipendentemente dalla propra condizione familiare, esiste anche la libertà di credere che il comportamento più corretto risieda nel non esporre la propra famiglia al rischio continuo che si produce dalla pratica dell’alpinismo estremo.
Ciò detto ognuno (ovviamente) fà come crede giusto fare.
Senso del dovere e utilità sociale
ti ha già scritto tanto Matteo. Quindi passo.
Aggiungo solo che l’alpinismo, come l’arrampicata sono delle bellissime, appaganti e divertenti attività inutili. Ma è inutile accumulare anche tanti soldi, tanto dietro non te li porti.
Crovella, di aspetto religioso non ho detto nulla. Ho fatto un riferimento ad Armando Aste che era molto religioso, ma ho anche detto che non gli ha impedito di fare un alpinismo estremo per quel tempo. Forse, a detta sua, lo ha limitato, perchè a detta sua avrebbe potuto fare di più. Ma a mio avviso non l’ha limitato più di tanto, vista la qualità delle sue realizzazioni.
Quello che lo ha fermato, ad un certo punto della sua vita di alpinista è stato prendersi carico di suo fratello, per assisterlo durante la malattia inguaribile che lo aveva colpito. Quindi stop all’alpinismo, nonostante la ancora tanta passione e il fisico ancora valido, per dedicarsi ad assistere il fratello. Sicuramente più che un grande senso del dovere, direi un grande senso di amore verso una persona molto cara.
Allora visto che proprio non riesci a capire vedo di essere più chiaro che posso.
Parlando da un punto di vista sempre e solamente laico.
Il senso del dovere lo devi mettere davanti a tutto…proposizione interessante, solo che è un po’ troppo generica per essere accettabile o fondante un’etica: come minimo dovremmo metterci d’accordo su quello che si intende per dovere, verso cosa e fino a che punto.
Esempio banalissimo, la propria patria, quello che tu fai, ma vabbé usiamolo. E’ morale uccidere i nemici della propria patria? Sempre? Tutti? E se la tua patria è la Russia è quindi giusto invadere l’Ucraina? Se sei tedesco e la tua patria decide che gli ebrei sono nemici è giusto servire ad Auschwitz? E se invece sei israeliano 45000 morti palestinesi perlopiù civili sono giusti a fronte di 1200 morti israeliani di cui solo 500 civili?
Senso del dovere quindi bocciato come fondamento di una morale.
Utilità sociale, allora? Direi che se c’è un’attività con ben poca utilità sociale è proprio l’alpinismo (e in fondo lo sport in generale): non serve a vincere il cancro né la fame nel mondo, non spinge avanti la conoscenza e nemmeno la tecnologia, non è arte (se non per gli appassionati) e non produce nulla, ma in compenso ha un certo impatto ecologico.
Utilità sociale bocciata.
Quanto alla differenza morale alpinisti amatoriali e tra alpinisti al top, professionisti vorrei far notare che tutti questi ultimi (e sottolineo tutti) sono stati prima amatoriali. E che molti hanno fatto imprese decisamente arrischiate proprio per cercare di diventare professionisti (il Capo sullo Scarason in primis)
Quindi i fondamenti della tua etica sono ben labili, infatti essa è riflesso delle tue convinzioni ideologiche.
Cosa che va benissimo, intendiamoci, ma non è certo universale e non è difficile metterne in luce i limiti
Benassi rileggi bene. verto che esistono anche amatori che hanno scritto pagine di alpinismo (vuoi che non lo sappai io torinese?). Ma io NON mi riferisco a quelli, ho detto che il subsettore è molto segmentato, io mi focalizzo in particolare su quegli alpinisti che NON scrivono alcuna pagine di alpinismo, per cui che vanno in montagna per una passione che dovrebbe essere arricchente e che diventa invece una droga, con annesso rischio di over dose. Per gli amatoriali totalmente sconosciuti, accentuare l’esposizione al rischio (o anche solo non abbatterla all’incomprimibile del 5% della fatalità) è totalmente imbecille. Non saper rinunciare solo per fare la milionesima ripetizione di una via o di un itinerario ampiamente battuto è da stolti.
In generale, visto che spesso si collega il mio ricorso di giudizi moralità con risvolti di tipo religioso ecc, ricordo che ho precisato mille volte che io mi riferisco esclusivamente ad una moralità “laica”: il senso del dovere. L’aspetto religioso è davvero personale e non metto becco. ma il senso del dovere lo devi mettere davanti a tutto. invece viviamo in una società che osanna addirittura i ribelli e li esalta come eroi omerici, come fossero Ettore che si sacrifica per la propria patria. Ettore aveva sì il senso del dovere, uno che non sa rinunciare perché preso dalla “frenesia” è l’anti-Ettore e non l’Ettore dei giorni nostri.
Scusate ho messo il post nel posto sbagliato. Andava messo sul tema della genitorialita’. Va beh tanto i temi sono quelli in questi giorni
Walter …Enorme …
Certo la strada del giudizio morale sui comportamenti (non sulle persone, ma sempre e solo sui comportamenti) è lastricata di questioni complesse. Quali sono le attività nelle quali è “immorale” assumersi rischi elevati avendo responsabilità personali ? Il criterio è quello dell’utilità sociale? Quindi quelle percepite come “inutili” in una determinata epoca storica (perché le valutazioni circa l’utilità sociale cambiano nel tempi e nelle culture) sono le più esposte al giudizio morale negativo? Quali sono le attività a bassa utilità sociale percepita oggi che non giustificano il rischio? L’Alpinismo ..e poi …l’elenco sarebbe lungo, con implicazioni anche inquietanti…Io lascerei perdere il controverso giudizio “morale” e cercherei di assumere un approccio più “laico” basato su giudizi di “efficacia” dei comportamenti e di consapevolezza come abbiamo già detto. Certamente fare certe salite in certe condizione non solo esterne ma anche interne (perché non hai la velocità di Killian ad esempio, oppure la cordata non e’ ugualmente performante…) è un comportamento poco efficace se il tuo obiettivo è vivere una lunga vita felice e di amore, a meno che tu persegua una bella morte ed eroica, che è pure un obiettivo che molti uomini si pongono: meglio un giorno da leoni…lasciamo dunque in sospeso il giudizio morale e magari stimoliamo le persone a farsi domande di verifica, su se stessi e sulle proprie scelte e capacità, senza sconti e ingiustificati entusiami (Sorrentino definisce giustamente, con antica saggezza partenopea, l’entusiasmo immotivato come una delle più pericolose tendenze dall’animo unano) a meno che i comportamenti generino reati che coinvolgono altri, ma di questo si occupano i giudici, non i teologi o i filosofi morali, e neppure le casalinghe di Voghera.
Anzi, mi correggo, il livello non centra, fanno attività alpinistica dicendo qualcosa di proprio.
Anche questa affermazione è una bischerata. La storia dell’alpinismo la scrivono in molti di più. Ad esempio quelli che non appaiono sulle riviste patinate ne sui social, ma fanno attività alpinisti di alto livello.
Ti sei scordato una bella fetta di “sconosciuti amatoriali” che nulla hanno a che fare con l’alpinimo da te praticato.
Sei troppo settoriale.
B
7) Crovella
Ma perchè ci dovrebbe essere questa divisione tra amatoriali e professionisti? E cosa conta essere sconosciuti?
Si può essere benissimo amatoriali e sconosciuti ma praticare alpinismo estremo.
Ho un amico che non è un professionista e non parla ne racconta mai di quello che fa in montagna. La vive tutta per se. Lo sa lui e l’eventuale suo compagno di cordata. Lo possiamo inserire negli amatoriali, perche lo fa solo per pura passione, il suo alpinismo è di ottimo livello, perchè ha capacità e visione.
Quindi?!?!?!?
Esco spesso da solo per lunghe escursioni, pur vecchio, ed anche in bici da strada, con salite discese, traffico.
In entrambe i casi il rischio non è mai nullo, ho uno scopo di gita e/o di esperienza fisica e gestisco al meglio quel rischio pur ridotto ma sempre esistente, in quanto sento la responsabilità di tornare a casa e di non mettermi nei guai. In sintesi, conscio di essere uno normale ed ormai di basso livello fisico, sto attento a tutto, dall’appoggio di piedi e mani, all’evoluzione meteo e, cosi come in bici, applico grande prudenza preventiva. La mia “posta in palio” è sempre lontana dal relativo rischio del momento.
Nessun pensiero di moralità o religione applicata al rischio può venire con me, il pensiero a Dio lo rivolgo in altri ed opportuni contesti.
Anche in facili escursioni ho visto venirmi incontro la nube, il temporale…o anche ho percepito un segnale negativo del mio corpo, allora dietro front, senza esitare.
Non devo essere assillato dalla conquista ( di che?), ma d’altro canto non riesco neppure a concepire che si possa formulare un’idea di immoralità, sarebbe morale star sempre in casa?
Purtroppo, e sovente, nelle cronache luttuose credo di percepire che c’è stata una perdita totale di razionalità e coscienza, quando tutto diventa pericoloso intorno a te, soprattutto il meteo, ma non sai rinunciare in tempo utile.
…perché è ovvio che l’umanità è divisa in due, che esistono due tipi differenti d’uomo.
Ci sono i superiori, i prescelti, i leader, gli unti dal signore per i quali è ammesso, lecito o addirittura ciò che agli altri, gli inferiori non può e non deve essere concesso…
Intervengo solo per una precisazione (mamma che fatica!): ho sempre scritto (Bertoncelli perdona l’ennesima ripetizione, ma se gli altri non ci mettono acume… non è colpa mia) che occorre fare una profonda distinzione fra, da una parte, il segmento dei professionisti della montagna (sia GA che accompagnano stile gregge, ma sono esposte paradossalmente al “rischio clienti”, sia gli alpinisti al top che scrivono la storia dell’alpinismo e ormai non possono che essere professionisti a tempo pieno) e, dall’altra parte, il grane mare magunm degli alpinisti amatoriali. Questo mare magnum di amatoriali è a sua volta estremamente frastagliato e segmentato, se facessi la scomposizione nei vari sottoinsiemi scriverei un tomo stile enciclopedia. Mi limito agli amatoriali “tipici”, fra i quali inserisco anche me stesso, cioè quelli che lavorano con impegno, hanno una famiglia con annesse responsabilità umane e morali, hanno infiniti altri interessi (culturali, politici, sportivi ecc) e, infine vanno anche in montagna, in genere nel week end e in qualche giorno di ferie. In questo ultimo settore specifico (che NON ha nulla a che fare né con Bonatti né con Desmaison ecc ecc), io giudico immorale che uno vada in montagna “alla cazzo”, cioè facendosi travolgere dalla passione che diventa frenesia e acceca la lucidità.
Nel segmento dei professionisti, rischiare la propria pelle o farla rischiare a propri compagni di cordata è cmq tema molto diverso che assumersi eccessivi rischi per la tracotanza che travolge gli alpinisti amatoriali. Rischiare la pelle per scrivere una pagina di storia dell’alpinismo per me è da scemi cmq, ma almeno è un prezzo che paghi per scrivere una pagina della storia dell’alpinismo. Viceversa rischiare la pelle (anche senza perderla, parlo della sola “esposizione al rischio”) per una gita in più, fatta da sconosciuto amatoriale è da cretini totali. In più se ci sono congiunti (in particolare figli “fragili”, cioè piccoli/adolescenti/giovani adulti) è un atto immorale, perché non solo perdi la tua pelle ma fai pagare le conseguenze anche a figli che hai messo la mondo.
Gianni Comino, quando è andato ai seracchi della Poire sulla Brenva, era ben cosapevole del rischio a cui si esponeva. Infatti c’è andato da volutamente da solo.
Sicuramente si era preparato, aveva studiato molto il comportamento dei seracchi, ha scelto il momento che ha ritenuto realtivamente più sicuro. Insomma non ha improvvisato, poi avrà anche sperata in un pò di fortuna. Ma chi non spera in una certa doise di fortuna? Purtroppo la fortuna non è stata dalla sua parte ed è andata com’è andata. E’ da condannare la sua scelta di esporsi ad un rischio così alto? Io non lo farei, non me la sentirei, come non me la sono sentitata di fare tante altte cose anche molto meno pericolse. Quindi non lo consiglierei a nessuno, perchè sono scelte molto personali, ma allo stesso tempo non condanno Comino.
Mi intrometto tanto piove…
Non credo che sia questa l’interpretazione. Crovella dice che si è immorali quando ci si impegna in cose pontenzialmente troppo pericolose e lo si è ancora di più se ci sono imepegni familiari come avere un figlio. Quindi non è un fatto di essere o non essere consapevoli del rischio a cui ci si espone.
Cominetti (1), non sono nella testa di Crovella, ma mi pare che il suo discorso riguardi più l’impreparazione, o la sottovalutazione colpevole del rischio, mentre tu qui parli di moralità. La morale cattolica dice che nessuno può decidere della propria vita, e in questo senso anche il suicidio sarebbe immorale. Ma è questo il discorso?
Poi comunque quando uno è forte, allenato, preparato anche mentalmente, è chiaro che ha tutte le carte in regola per perseguire un ideale, che è legittima l’ambizione di fare qualcosa che nessuno o pochi, prima di lui, abbiano fatto. Questo mette fuori gioco la predica “crovelliana”, perché non stiamo parlando di principianti senza la patente rilasciata dal CAI. La morale cattolica invece sarebbe contraria anche a questo tipo di rischi, diciamo, “relativi”, ma anche lì dipende da come uno interpreta le cose. Però veramente vogliamo parlare di questo?
In un blog di alpinisti sarebbe magari il caso di provare a stabilire quali possano essere, invece, i veri e propri limiti oltre i quali l’oggettività del rischio supera la posta in palio. In altre parole, quelli che giocano alla roulette russa hanno già perso in partenza, indipendentemente dall’esito finale del gioco: sei d’accordo? Mi riferisco a per esempio a canaloni da dove si scarica giù di tutto, o a versanti particolarmente valanghivi che sono però obbligatori per una salita, cose così. Dov’è il limite? Tu di vie ne hai fatte e ce ne saranno che non rifaresti mai più, per nessun ideale al mondo, perché troppo pericolose.
Piove: parlacene.
Non parliamo poi di Desmaison che trascina sulla Walker il suo compagno che muore di sfinimento tra le sue braccia.
Che dire poi di di Gary Hemming l’alpinista figlio dei fiori, fragile e maledetto.
E del fachiro Cozzolino?
E del visionario Comino?
Ma la lista potrebbe continuare
Certamente per Crovella, Bonatti, non è certo un alpinista da portare ad esempio. Con tutte le tragedie che ha vissuto, doveva esse a capo di una banda di immorali, e non l’eroe omerico che ha fatto sognare generazioni.
Piove…
Bonatti sembra insaziabile, inarrestabile, come posseduto da un demone interiore, che però egli sa amministrare e controllare con grande intelligenza…
…E si dimenticano coloro che sono morti per un ideale di vita, su cui si può discutere fin quando si vuole; ma non per questo si deve perdere il rispetto per chi è caduto lungo il suo cammino, lungo una strada che deliberatamente era stata scelta, ben conscio dei rischi che essa presentava.
Secondo il pensiero di Crovella sarebbe tutto totalmente immorale.
Piove. Parliamone.