La mina del Castelletto
Amedeo Tosti, nel suo La guerra sotterranea – episodi della guerra di mine sulla fronte italiana (1935) commenta: «L’insidia sotterranea – galleria, pozzo, cunicolo – fu sempre, fin dalle guerre più antiche, l’arma dell’esasperazione, l’ultima ratio dell’attaccante contro l’inflessibile tenacia del vallo, della trincea, della fortezza nemica. Quando tutte le armi alla superficie si erano dimostrate inefficaci o insufficienti a debellare la resistenza avversaria, l’offensore si sprofondava nelle viscere della terra, per cercare di scalzare la difesa, demolendo le fondamenta delle costruzioni oppure aprendo una via insospettata all’assalto estremo e vittorioso».
Il Castelletto della Tofana, in passato chiamato Punta Col dei Bois, è un’appendice rocciosa della Tofana di Rozes, divisa da questa dalla piccola Forcella di Rozes. È foggiato a forma di balconata pressoché a ferro di cavallo e contornato da numerose guglie. Prima della guerra la sua salita era di media difficoltà. I lavori bellici e la potente mina italiana (7 volte più grande di quella del Col di Lana) che lo hanno reso famoso, ne hanno profondamente modificato forma e accessibilità. Gli austriaci in guerra lo chiamavano Schreckenstein, la «roccia del terrore», per la somiglianza con la roccia omonima presso Ausig, in Boemia.
Fin dai primi mesi di conflitto gli italiani si trovarono nelle vicinanze della Tofana di Rozes e di Mezzo: ma questa posizione non serviva a nulla, non si poteva cioè invadere la Val Travenanzes, porta d’accesso alla Pusteria. Causa di quel blocco erano due postazioni nemiche, quella della Forcella di Fontana Negra (tra le due Tofane) e quella del Castelletto, l’estremo spuntone a sud ovest della Tofana di Rozes. Sessanta austriaci alla Forcella Negra e assai di meno sul Castelletto tenevano in scacco da mesi e mesi gli attacchi degli italiani, grazie ai cecchini armati dei micidiali Mannlicher a cannocchiale. Il 20 luglio 1915 il generale Antonio Cantore, il valoroso ufficiale che le truppe chiamarono in seguito «il papà degli alpini», fu colpito da una fucilata in piena fronte proprio mentre voleva rendersi conto di persona del perché Fontana Negra fosse così inespugnabile. La forcella fu presa solo un anno più tardi.
Ancora più temuto era il Castelletto, che i documenti descrivono come una specie di torrione merlato, alto sopra un vasto ghiaione; si staccava, separato da una fenditura mostruosa, dalla Tofana di Rozes. Era più basso di questa di almeno 600 metri, pure, protendendosi imprendibile sulla Val Costeana, bloccava da un lato ogni avanzata sulla Val Travenanzes e se non impediva, certo ostacolava sensibilmente ogni movimento sui tornanti della Strada delle Dolomiti da Cortina al Passo del Falzàrego.
Dopo i ripetuti attacchi degli alpini, quasi un anno di sangue e di morti inutili, con ostinazione si seguì un’altra strada e finalmente si pensò di ricorrere alla gelatina. Potrebbe sembrare l’uovo di Colombo, ma l’esitazione con cui si ricorse a questa nuova tattica era giustificata dai risultati che per esperienza spesso non erano così soddisfacenti. Al contrario di quanto affermato con emozione patriottica dal Tosti, il difficile e lungo lavoro di preparazione poteva essere improvvisamente nullificato dalla contro-mina del nemico: per quanto si stesse attenti a lavorare in silenzio e a mano, lo scavo della galleria presto era indovinato dal difensore, il quale in fretta e furia poteva, con solo qualche metro di perforazioni, far saltare in aria tutta la parte finale del lavoro e comunque impedire la posa della mina.
Lo scavo iniziò il 3 gennaio 1916 e fu diretto da due ufficiali, i sottotenenti Tissi e Malvezzi. 120 minatori lavorarono nei due cantieri Sullivan e Ingersoll, a turni di 6 ore per 4 squadre di 30 uomini. Gli strumenti erano la mazza ferrata e lo scalpello (detto «pistoletto»). I Kaiserjäger austriaci si accorsero di queste manovre, «ci sembrava di montare la guardia ad un vulcano» scrisse nel diario un ignoto ufficiale; ma non fecero a tempo a preparare la contro-mina. All’ultimo infatti, gli italiani, sapendo che il nemico aveva compreso tutto, accelerarono i tempi con il perforatore meccanico. In sei mesi, 507 metri di galleria erano stati scavati, nella camera di scoppio furono sistemati in calcestruzzo e in sacchi di terra ben 350 quintali di gelatina, portati in loco dagli alpini con le corvé e con esposti issaggi di corda nel vuoto. Alle ore 3,30, nella notte dell’11 luglio 1916, la mina fu fatta brillare, alla presenza del re d’Italia e del generale Cadorna, che seguirono lo spettacolo dalle non distanti Cinque Torri. Dopo l’esplosione e la frana della vetta del torrione ci si rese conto che le perdite austriache erano state minime: sembrò anche che la carica fosse eccessiva e disposta in modo tale da scaricarsi soprattutto verso l’alto e non a lato. L’occupazione della postazione austriaca fu ritardata, dopo lo scoppio, di ben 44 ore: fumo ed esalazioni avevano reso irrespirabile l’aria della galleria, sassi e macigni continuavano a precipitare per ogni dove per lo scuotimento d’aria della tremenda detonazione e dei continui colpi di fucile, di mitragliatrice e di cannone. Il primo attacco degli alpini fu respinto da una furibonda resistenza, il giorno dopo però i Kaiserjäger abbandonarono spontaneamente la postazione, ormai indifendibile.
Nel 1967 i cortinesi installarono 1400 metri di fune metallica e 216 pioli di ferro per unire tra di loro le vecchie opere militari presenti sul versante ovest della Tofana di Rozes e sul Castelletto, rendendo così possibile la salita alla vetta della Tofana di Rozes per un itinerario al tempo stesso emozionante ed estremamente istruttivo. Fu dunque un’iniziativa assai meritoria, al contrario di tante altre vie ferrate costruite senza alcun senso. Si parte dal Rifugio Dibona 2050 m. Un bel sentiero panoramico traversa sotto l’immane parete sud della Tofana di Rozes e si arresta a 2400 m, all’inizio della galleria. Si entra così nel cunicolo di 507 metri scavato dagli alpini e lo si risale per circa 200 metri di dislivello, alla luce delle torce elettriche. Allo sbocco, si scende leggermente e si segue una cengia ad ovest fino al segnale «Via Ferrata Giovanni Lipella, 17.9.67». Una fune fa accedere ad una cengia successiva e a dei gradini di pietra. Lasciando a destra una segnalazione per alcune grotte naturali, si prosegue a sinistra sulla via ferrata che s’inerpica sulla scura parete nord ovest, a volte bagnata, fino ad una nuova zona di sfasciumi. Una segnalazione «Cantore» indica una scappatoia per il Rifugio Giussani 2561 m senza il raggiungimento della vetta (variante delle Tre Dita). La ferrata invece sale a destra e per altra cengia porta ad un selvaggio anfiteatro. Qui è il tratto più difficile ed esposto della via ferrata, fino alla cresta ovest e all’anticima 3027 m. In breve ora si prosegue senza più difficoltà fino alla croce della vetta, a 3225 m. La Ferrata Lipella è classificata di media difficoltà. Naturalmente è obbligatorio il completo equipaggiamento da via ferrata, cioè imbragatura, cordini, moschettoni a ghiera, dissipatore e casco di protezione. Nella parte alta del percorso è presente la neve, a volte assai dura, e al mattino presto si può trovare formazione di vetrato. La discesa si svolge per la via normale verso il Rifugio Giussani (ex Cantore): è segnalata, ma anche qui occorre fare attenzione all’eventuale neve, perché il versante è assai scosceso e rivolto a nord. Dal Rifugio Giussani si fa ritorno per sentiero al Rifugio Dibona.
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Il cappello di Cantore, esposto in uno dei musei di guerra, mostra un foro non compatibile col “Mannlicher” austriaco, ma compatibile col ’91 italiano: e Cantore fu chiamato “papà degli alpini”solo dopo la sua morte: in vita era temuto per il cinismo con cui mandava all’assalto di postazioni imprendibili centinaia di soldati, non solo Alpini. La”leggenda” che sia stato ucciso da un tiratore italiano ( cosa senz’altro più possibile, vista la distanza del Cantore dalla postazione austriaca) forse non è una leggenda; comunque, tutte le leggende nascono da qualcosa di vero…
Ovviamente scherzavo Marika…solo che non uso le faccine, quindi non si vede…
Si scusa, hai ragione Simone Di Natale.
*commento relativo ad articolo precedente. Sorry
Non fa una piega…così come scegliere se scrivere nella discussione giusta o sbagliata…
Sono donna e sono guida alpina (UIAGM). Credo che come in nessun altro campo professionale l’essere maschio o femmina conti così poco. I requisiti sono e devono essere gli stessi. Preparazione, sicurezza, atteggiamento… La montagna per salire non ti chiede il “gender passport”. Poi sarà il cliente che sceglierá la sua guida, maschio o femmina, brutto bello, sensibile duro, alto basso…