Mauro Calibani

Mauro Calibani
intervista di Daniela Feroleto
(pubblicata su UP climbing, set-ott. 2019)

Mauro Calibani, classe 1974, arrampichi da quando avevi circa 16 anni. Chi sei? Che tipo di persona ti definisci?
“Sono un 45enne ruspante, appassionato da sempre di scalata. Irrefrenabilmente creativo sia nella vita che nell’arte che amo di più, l’arrampicata!
Avrei voluto arrampicare sin da bambino, poiché mio padre lo faceva: i miei genitori, non conoscendo l’arrampicata sportiva, ma solo l’alpinismo, mi hanno fatto aspettare fino all’età di 14 anni, quando per la prima volta mio padre mi ha portato sulla Cresta nord-est del Corno Piccolo al Gran Sasso. Prima ho sporadicamente rubato qualche salita durante i corsi di roccia del CAI, conservandole gelosamente tra le mie esperienze più preziose d’infanzia.

Prima di dedicarti all’arrampicata da ragazzino hai provato diversi sport, ginnastica, atletica, basket, calcio… e con i tuoi genitori hai sempre frequentato la montagna attraverso lo scialpinismo iniziato all’età di 6 anni e l’escursionismo ancora prima. Inoltre con loro hai viaggiato tantissimo in camper (Marocco, Tunisia, Egitto, Algeria, Europa). Nonostante i mille stimoli ricevuti dai tuoi genitori e dalle esperienze che facevi ogni giorno con i tuoi compagni di gioco di strada, come è scattata la tua attrazione verso la roccia e quando hai iniziato a salirla?
Sì, ho avuto la fortuna di essere libero, direi che ho combattuto per fare quasi sempre quello che mi piaceva, e i miei genitori hanno in parte assecondato questa mia indole, poi quando ho compiuto 16 anni ho iniziato questo nuovo percorso nell’arrampicata sportiva con Stefano Romanucci, e da quel momento in poi le idee si sono chiarite e ho veramente incominciato ad essere “un vero scalatore”, allontanandomi piano piano da tutto il resto. Avevo scelto l’arrampicata, era come se fosse scritta nel mio dna.

Mauro Calibani a Genova-Nervi. Foto: Massimo Malpezzi

Dopo che hai iniziato ad arrampicare ad Ascoli con i primi rocciatori ascolani, per un lungo periodo sei rimasto da solo, senza compagni, e ovviamente senza una palestra indoor, e tanto meno Youtube o i social network per incontrare/conoscere persone. Come hai fatto a non scoraggiarti in questo percorso? Cosa facevi e come hai trovato i tuoi primi compagni di scalata? (Chiodatura Ponte Arli, visita alle prime falesie note, ecc.)
Quando attorno al ’93 Stefano Romanucci, Cristian Muscelli e Sandro Fanesi andarono all’università per un lungo periodo si allontanarono dall’arrampicata e io rimasi da solo.
Iniziai a imparare a scalare in moulinette in autoassicurazione, e convinsi i miei a farmi devastare la mia camera da letto per attrezzare il mio muretto auto-costruito. Poi saltuariamente partivo in treno e incontravo gli amici con cui facevo le gare giovanili, mi confrontavo con loro anche a distanza, scalando vie sempre più dure.
Iniziai attorno al ‘93/’94 a chiodare la falesia di Ponte D’Arli qui ad Ascoli e da quel momento ebbi nuovamente altri compagni e amici come Riccardo Traini, Alessandro Lupi e Bernardino Sacripanti, tutti loro si appassionarono alla scalata.

Dalle primissime esperienze alle prime vie dure salite da ragazzo, quando hai capito che volevi e che potevi raggiungere il massimo? Cosa ti piaceva dell’arrampicata, cosa cercavi?
Cercavo di imparare tutto attentamente, ogni aspetto che mi permettesse di progredire, non mi sono mai posto limiti, anzi ho cercato sempre di spostarli più avanti, e ancora oggi lo faccio.

(Se ci sono) Chi sono stati i punti riferimento e/o fonte d’ispirazione nel tuo percorso sempre crescente?
Eccome se ce ne sono, il primo tra tutti Stefano Romanucci da cui ho preso lo spirito scanzonato, l’approccio senza troppi limiti e i primi importanti segreti dell’arrampicata, poi tra i principali che sono seguiti ci sono molti dei ragazzi e amici con cui ho gareggiato negli anni a venire come Marcello Bruccini, Cristian Brenna, Luca Giupponi, Stefano Alippi, Luca Zardini, Christian Core, Alberto Gnerro; veri climber e soprattutto persone che attraverso il confronto hanno accresciuto anche con umiltà il loro grande livello. Poi nel mio percorso negli intensi anni del bouldering su roccia, sicuramente Bertrand Lemaire, Stefan Denis e Julien Nadiras, Marzio Nardi. Eravamo persone e amici che hanno fuso le loro menti cercando quella sintonia vibrante preziosa e rara da trovare: il risultato dell’unione tra intelligenza, passione, fantasia e amicizia. Poi molti altri amici anche meno forti da cui ho appreso e continuo ad apprendere.

In fiera

Hai creduto così tanto nel bouldering che hai praticamente abbandonato l’arrampicata sportiva per molti anni. Perché?
Perché ho capito che in questa nuova pratica ci fosse molto di più, più armonia, più raffinatezza, un bagaglio motorio nuovo, infinito e stravagante con cui esprimersi e dare vita a passaggi meravigliosi. Linee create dalla natura simili a sculture, che durante le salite più intime, ti toccano nel profondo. Poi perché tiri come un mulo, che sembra che scoppi; per tutto questo amo, ed ho amato in maniera assoluta il bouldering… assieme anche al resto.

Sei stato e tuttora sei un atleta veramente anomalo… poco amante degli allenamenti e delle diete ferree, anzi, un grande estimatore del buon cibo e del relax, ma come hai fatto a diventare così forte? Fortunatamente dotato o c’è di più?
Credo di essere assurdo, da un lato sono come un panda pigrissimo e sornione, e dall’altro bilanciato da una parte di me più guerriera, testarda e ambiziosa, il tutto è mescolato a una forte necessità di “creare”, e di accrescere anche me stesso. Dotato sì, ma soprattutto devoto all’arte della scalata.

Ancora oggi molti pensano a te come uno costantemente allenato e che viaggia per il mondo scalando: in realtà, a parte il primo periodo, da quando hai creato E9 hai sempre conciliato lavoro e famiglia, talvolta scalando anche a week end alterni… Non ti sei scoraggiato nonostante il pochissimo tempo da dedicare alla scalata e hai continuato a puntare in alto. Come fai? Cosa tiene alta questa passione?
Il bisogno che ho di muovere il mio corpo sulle linee più belle, non ce la faccio proprio a non vederle, quando vedo ogni nuova parete, sasso, o muro di un palazzo, io ci devo immaginare la linea di salita, e il bello è che ho la sensibile propensione per quelle stupende! Quindi salire linee facili o meno facili è solo una questione continua che si ripete da anni nel tempo.

Tornando al bouldering, quando tu hai iniziato ad allenarti indoor sul tuo pannellino in cameretta, c’era un altro fortissimo tuo coetaneo che si stava facendo notare, mi riferisco a Christian Core. Voi due siete stati avversari, ma in realtà anche amici e vi siete allenati insieme per un periodo. Cosa ci racconti?
Christian, nonostante abbia iniziato a fare bouldering successivamente a me, ha da subito deciso di specializzarsi in questa nuova disciplina, finalizzandola inizialmente soprattutto alle gare, e i suoi risultati hanno parlato chiaro!!
Io sono approdato alle gare di bouldering dopo, a causa di un importante infortunio culminato con un intervento al polso della mia mano sinistra. Iniziai a gareggiare in coppa del mondo nel 2001.
Io e Christian, credo di poter affermare, siamo stati grandi rivali, ma questa nostra rivalità ci ha portati a spingere di brutto sull’acceleratore, in alcuni degli appuntamenti più importanti, sentivo che era come se fossimo da soli, senza avversari, uno contro l’altro, consapevoli della nostra amicizia, ma fortemente ambiziosi. Io scalavo solo su roccia poi andavo alle gare, Christian invece era molto più metodico nella preparazione. Abbiamo regalato all’Italia titoli e piazzamenti importanti, ancora oggi i migliori nel bouldering.

Non essendo mai stato un metodico dell’allenamento e non esistendo intorno a te palestre di alto livello in cui potersi allenare, come hai fatto diventare campione del mondo nel 2001? Eri già fortissimo su roccia, perché hai scelto di iniziare a gareggiare?
Io in realtà ero davvero appagato dalla scalata sui sassi in natura, dove stavo spingendo con tutto me stesso, poi gli amici mi spinsero a provare, avendomi visto in azione tra i sassi. Così provai, e già dalla prima gara di coppa del mondo a Gap mi classificai al secondo posto, poi per un po’ di anni a seguire non ho mai più mancato una finale… Giovanni Cantamessa, responsabile del CUS Bologna per cui gareggiavo ai tempi dell’università e amico scomparso, vide in me un cavallo da corsa, mi prese sotto la sua ala e mi portò a vincere! L’8 settembre 2001 a Winterthur vinsi il primo campionato del mondo della storia del bouldering, in una gara memorabile: in finale chiusi 5 blocchi su 5! … il secondo ne salì 3!

Mauro Calibani modello durante la messa in scena di una sfilata, parte di uno shooting per un catalogo E9. Foto: Archivio E9.

Dopo vittorie così importanti è difficile smettere di gareggiare e tornare a essere “soltanto” scalatore. Come hai vissuto questa “uscita di scena”?
Gareggiare è parte dell’indole umana, e la mia paura era che non arrivasse mai il bisogno di smettere. Poi un giorno, al mio ultimo Campionato Europeo a Birmingham nel 2006, lessi le date di nascita dei più giovani partecipanti agguerriti… e fu poi naturale decidere di far loro largo, mi sentii fuori luogo.

Lasciando il mondo delle gare hai potuto concentrarti solamente sulla roccia e si può dire che da quel momento in poi ti sei davvero completato sperimentando qualunque forma di arrampicata. Sei stato uno dei primi a introdurre ufficialmente lo stile trad in Italia con una salita ancora oggi di altissimo rilievo. Come ci sei arrivato?
Grazie alla mia curiosità di cambiamento e di continua evoluzione, non amo essere uno specialista, ma vorrei essere bravo nell’interpretazione di tutti i terreni legati alla scalata.
Quando per la prima volta vidi Hard Grit (importante video inglese che documentava bellissime salite sul gritstone) tutto divenne logico, semplice da comprendere. E immediatamente dopo un viaggio in Inghilterra io facevo trad! Anche se già in montagna i terreni più classici li avevo provati.
Nel 1999 scoprii la linea di Is Not Always Pasqua e logicamente decisi di non intaccare la roccia con nessuna protezione fissa poiché mi sembrò naturale affrontarla nello stile più pulito. Fu così che nel 2002 realizzai il mio progetto, forse anche un po’ visionario. La salita di Is Not Always Pasqua (E9 7a, o 8b+). Ancor più importante nacque l’idea di mantenere tutta la nostra zona di arenaria come spazi dedicati al clean climbing.

Mauro Calibani in uno splendido passaggio su terreno privato. Foto: Daniela Feroleto.

Ma forse il tuo nome è esploso quando hai annunciato il tuo 8c+ di blocco Tonino 78. Grazie a Julien Nadiras hai iniziato a credere di poterlo salire, ma com’è avvenuto questo processo? In che modo ti ci sei dedicato? (anche aneddoti simpatici). E poi, da dove è uscito questo nome?
Tonino 78 rappresenta un mio momento creativo di ricerca del limite nel bouldering, l’avvicinarmi ad un’espressione massima della mia fisicità, attraverso l’incontro con una linea che presentava le esatte caratteristiche di cui necessitavo in quel momento.
Il sasso era lì da tempo, fermo ed imponente, lo utilizzavamo in passato come riparo per la pioggia essendo un tetto. Poi qualche sporadico tentativo senza fiducia sull’evidente e improbabile uscita, e poi finalmente un giorno passandoci sotto con Julien attorno al 2002, fu fantastico, dopo 30 minuti che ci fermammo sotto per caso, io liberai la partenza da in piedi, che fu valutata sul 7c+ e fu chiamata Leonardo da Vinci. E subito riuscì anche a lui!
Questa è la magia del bouldering, le salite a volte arrivano inaspettate, anche di linee sotto ai tuoi occhi da anni…
Iniziammo a tastare gli appigli della partenza da seduti e ne risolvemmo magicamente i movimenti. Qualche giorno dopo riuscii nella sit sull’8b, ma Julien era tornato a Parigi. Scese di nuovo e la risolse anche lui. Poi mi venne in mente di guardare la partenza dal fondo che avrebbe dato un’ ultima partenza logica dal punto più basso. Da questo momento in poi, mi sono goduto vicino a casa e senza pressioni un lungo periodo di tentativi, sognando di salire qualche cosa di nuovo, una sequenza di movimenti che mi svuotavano dentro, poi nel gennaio 2004 la magica salita, quella che fu perfetta, fluida e senza sforzo, ma che mi costò un anno di passione a modo mio. Julien, una volta saputo della mia salita integrale, scese tempo dopo e riuscì nell’impresa: fu forse per entrambi la fine di un processo di ricerca dell’estremo, un incontro finale su Tonino 78 che ci ha uniti, profondamente, per l’ultima volta. Il nome? Fu semplice darglielo, era scolpito sulla pietra da un certo Tonino, nato nel ‘78, e fu così naturale e simpatico chiamarlo in questo modo…

Mauro Calibani su Tonino ’78, a Meschia

Dal bouldering a 360 gradi come sei tornato in falesia e in montagna?
Mi piace ogni forma d’arrampicata, ho iniziato in montagna con mio padre sul Gran Sasso, poi con Stefano l’arrampicata sportiva e infine la mia personale ricerca nel bouldering. Non amo fare le stesse cose, quindi ho bisogno di variare il menù!

Mauro Calibani in genere viene associato al bouldering, ma in realtà sei sempre stato uno dei precursori nelle varie specialità dell’arrampicata, per esempio uno dei primi in Italia a sperimentare il Deep Water Soloing con notevoli prestazioni. Non ti sei mai fermato, hai voluto metterti in gioco anche qui, perché?
Adoro il mare. Come ho già detto, ho bisogno della polivalenza nella mia sfera arrampicata, e soffro non poterne padroneggiare bene ogni sfumatura, per cui sono programmato per voler fare tutto alternando in base al bisogno interiore. Anni fa ho scoperto la scalata sul mare, in Sardegna attorno al 2004: poi andammo in Puglia, dove con E9 effettuammo anche un raid con il team nel 2007 (“Dove finisce la terra”). Infine il mio approdo a Maiorca.
Anche per imparare questa nuova disciplina ho combattuto contro le mie paure, e l’ho fatto in maniera determinata, poiché prima di spingere al limite, ho dovuto imparare ad avere la serenità di controllare le cadute, e dopo una testarda sperimentazione (mi sono anche perforato un timpano cadendo), sono naturalmente entrato anche in questo favoloso mondo. Anni fa nel settore di El Diablo trovai il feeling perfetto in un magico giorno in cui anche il grande salto a più di 10 metri dal mare di Two Smoking Barrel si lasciò salire in stile flash.
In quella vacanza salii il 90% delle vie al primo colpo fino all’8b. Il DWS ti fa vibrare dentro, quando entri in sintonia è una delle più belle espressioni dell’arrampicata in cui la libertà di essere senza fili si unisce alla danza verticale, inebriata dalle forti emozioni!

Mauro Calibani su Voortrekker, a Frosolone

Poche settimane fa, all’età di 45 anni hai salito la via più dura della tua vita. Perché è arrivata ora? Cosa ha in più il Mauro di oggi rispetto al giovane Mauro nel pieno della sua forma fisica?
Sì, sono riuscito su una mia creazione cui tenevo molto! Non amo ripetere le cose altrui, poiché sono consapevole della mia creatività e capacità di intuizione. Incontrando questa linea, Voortrekker, ho dovuto piegarmi alla sua magnificenza! E così mi sono nuovamente rimesso in gioco, e infine anche questa volta è arrivato il momento magico. A 45 anni sento dolori spesso dappertutto, non entro nei dettagli, oltre che ho poco tempo libero spensierato, ma proprio per questo quando incontro una linea meravigliosa come questa, non posso fare altro che desiderarla cercando di ottimizzare il mio tempo al meglio e in questo l’esperienza accumulata mi aiuta.

Col passare degli anni le cose cambiano e spesso anche le persone che un tempo ti erano sempre al fianco oggi hanno preso strade diverse. Hai ancora un solido gruppo di amici che arrampica con te? Da O a 100 Quanto è importante sulla riuscita di un obiettivo avere i compagni giusti? A differenza di molti che poi hanno abbandonato l’arrampicata, o che la vivono come un hobby, come riesci ad essere sempre motivato?
Bella considerazione… ho difficoltà a scrivere… La sfera amicizia è un aspetto chiave anche della mia vita e della mia evoluzione. E’ anche grazie ai miei più cari amici che sono riuscito a crescere, grazie al loro supporto e alla loro fiducia e stima. Oggi mi sento più solo, anche se ho la fortuna di avere “Te” (mia compagna di vita Daniela Feroleto), scalatrice doc…
Ma quegli amici che vorrei ancora avere al mio fianco per ridere e scherzare come prima non ci sono più, molti di loro hanno cambiato direzione e non riescono più a vivere l’arrampicata come lo facevamo tempo fa, alla mia maniera, in modo vero, profondo e assoluto. So che è normale, ma era così bello quando il gruppo era coeso e forte…

È indubbio che con l’avvento dei social network l’arrampicata sia per buona parte diventata una moda e un modo per esibirsi e affermarsi attraverso un “post”. Tu hai deciso di stare fuori da questo mondo rinunciando ai “Like”. Cosa ne pensi di questo radicale cambiamento di direzione dell’arrampicata e non solo? Pensando alla parola “climber”, c’è una grande differenza tra una figura come la tua (e molte altre del “passato”) e le persone che oggi approcciano questo mondo. Cosa significava essere un climber fino a pochi anni fa e cosa sembra significare oggi?

Mauro Calibani in apertura di Blatte dal Madagascar, Seconda Spalla del Corno Piccolo al Gran Sasso. Via da lui aperta con Massimo Monti e Daniela Feroleto, luglio/agosto 2011.

In generale credo che il mondo dei social networks mi inquieta, sia responsabile di questo cambiamento radicale troppo repentino del modo di comportarsi delle persone, dei ragazzi, e della società. Tutti sprecano il loro tempo a cercare di mettere in mostra se stessi e di rendere speciale qualsiasi cazzata, cercando quella perfezione che non potrà mai arrivare. Ci si allontana dalla reale ricerca di crescita inferiore a vantaggio dell’immagine di se stessi. Io ho deciso di restare fuori, come un eremita, auto imponendomi questa che ritengo essere la strada più giusta. In passato c’era il contatto reale fisico e spirituale con gli amici più grandi che t’introducevano alla vita o alla scalata. Scalare significava bramare di volerlo essere, sentendo storie, guardando, e facendo tesoro delle poche informazioni, ma soprattutto sognando. Oggi tutto è a portata di mano e anche i climber moderni sono radicalmente cambiati, penso con nostalgia a Patrick Edlinger, a Patrick Berhault, a Ben Moon o Jerry Moffat, a Wolfgang Güllich, agli scalatori di anni fa che vivevano squattrinati sotto ai ponti pur di continuare radicalmente solo a scalare, che esploravano sperimentando con passione. Mi piace sentire di appartenere di più a persone come loro.

Infine, che cosa consiglieresti ai giovani climbers di oggi?
Consiglierei di guardare ciò che è stato fatto in passato per affrontare meglio e nella maniera più corretta il futuro. Rispettando il più possibile la roccia e riflettendo bene prima di agire, magari condividendo le proprie idee con altri per capire se quello che si pensa possa dover essere corretto perché la condivisione porta a una crescita collettiva molto diversa dall’ “egoindividualità”! Suggerirei di essere avidi di conoscere ciò che è stato fatto con amore prima di loro, perché solo cosi ci potrà essere una “bella” crescita personale.

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Mauro Calibani ultima modifica: 2020-04-10T05:42:33+02:00 da GognaBlog

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1 commento su “Mauro Calibani”

  1. Ho conosciuto Mauro Calibani diversi anni orsono, più di venti, a Roccamorice tramite il compianto Tiziano Cantalamessa. Stava arrampicando nel settore delle Placche Nere e precisamente sulla Via  “L’orso Marsicano”.Quello che mi colpì maggiormente fu la sua determinazione smisurata in una sola parola vidi in lui proprio le caratteristiche dell’arrampicatore  “forte” nel vero significato della parola.Vedendo in seguito i suoi video, nel corso degli anni  ,quello che mi ha stupito e’ l’atteggiamento con il quale affronta una via da arrampicatore maturo ed esperto identico a quello che aveva da giovane. 

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