Lo scrittore Sandro Veronesi commenta il suo articolo sul diario a staffetta del Coronavirus che stanno tenendo 8 scrittori: “Il virus sono io, gli esseri umani sono il vero virus, è ora di cambiare”
Il virus sono io
di Sandro Veronesi
(pubblicato su La Lettura 3 del Corriere della Sera il 29 marzo 2020)
19 marzo 2020. Oggi sono morte 427 persone. 427 e un numero mostruoso. Più o meno come se morissero tutti insieme i calciatori delle 20 squadre di serie A, titolari, riserve, allenatori, massaggiatori e pure gli arbitri. Proviamo a pensare a come l’avremmo vissuta, a come la vivremmo. Bene, oggi è successo esattamente questo. Ed è successo anche ieri, solo che ieri i morti sono stati di più, 475, quindi vanno contati anche i giocatori di una partita di serie B. E l’altro ieri. E l’altro ieri ancora. E domani. E dopodomani.
E’ la Caporetto della scienza quella che stiamo vivendo — e come per ogni Caporetto la colpa viene data ai soldati semplici, vigliacchi e disertori. Fucilateli, i bastardi. Fucilateli tutti. In Lombardia più della meta degli ospedali è infettata (cioè sono infettati i medici e gli infermieri, ai quali non viene fatto il tampone perché non è previsto dai dannati protocolli dell’Oms, e per questa ragione probabilmente moriranno in parecchi, non prima però di avere a loro volta contagiato i pazienti di tutti i reparti, sofferenti di altre patologie, che infatti stanno morendo come mosche), ma lo sdegno collettivo viene indirizzato su quelli che vanno a correre nei parchi. Cadornismo, si chiama – per l’appunto. Scaricare la responsabilità sui sottoposti. Cadornismo.
Oggi era la festa del papà. La mia festa. Gianni se n’e ricordato subito, ieri a mezzanotte e sette, e da Prato, dov’è in isolamento insieme alla fidanzata, mi ha mandato un messaggio: auguri, babbo. Gli altri se ne sono dimenticati — ma hanno tutte le giustificazioni. Umberto da solo, a Londra, dove si stanno accingendo a fare ancora peggio di noi, almeno in termini di arroganza e di doppiezza del messaggio: rintanato nella sua casuccia, con la sua piccola riserva di cibo e di prodotti per la casa, i suoi libri, il suo telelavoro con l’università, lo stendino in soggiorno con la roba ad asciugare. Cosa sta per succederti, figlio mio? Come passerai le prossime settimane? E tu Lucio, incastrato in quella che doveva essere la vacanza più bella della tua vita, in Australia con la tua ragazza, con il volo di ritorno per Londra che ti è già stato cancellato e un’infinita di domande che chiedono risposta. Soprattutto una: è meglio che trovi riparo laggiù, in Australia, e ci resti finche qui in Europa l’emergenza sarà passata, oppure e meglio comprare altri biglietti per tornare in Europa? Oggi ci saremo mandati mille messaggi, mille vocali, saremo stati al telefono mille minuti, ma non ne siamo venuti a capo. Vediamo domani, abbiamo detto. Qui ormai ogni giorno cambia il mondo, e con il mondo cambia il senso delle cose, delle scelte, del rapporto con gli altri. Vediamo domani. Ripenso ai versi di River Phoenix citati da suo fratello Joachim mentre prendeva l’Oscar: corri in soccorso con amore, la pace seguirà.
20 marzo 2020. Ieri era la festa del papà, e alla fine gli auguri me li hanno fatti anche Umberto e Lucio, con un giorno di ritardo. Ma oggi il numero è 637, e io non sono riuscito a non saperlo…
Però il tema di oggi è un altro, per me. Il tema di oggi e ciò che ho detto l’altro ieri in un’intervista video via Zoom a un programma televisivo olandese – e che oggi dev’essere andata in onda, perché me ne sono arrivati gli echi via Twitter. L’ho detto in inglese, ora che mi vedo nello schermo mentre lo dico mi chiedo: ma sono sicuro? Sono almeno d’accordo, con quello che ho detto? Io ho detto questo: il coronavirus non è un virus, e un anticorpo. Noi siamo il virus, gli uomini sono il virus, io sono il virus, e questa epidemia è la flotta di anticorpi che la Madre Terra ci ha spedito addosso per cercare di fermarci. Ho detto questo. Nella mia lingua, qui in Italia, è una cosa che non ho mai detto. Nemmeno in casa, nemmeno inveendo con il telecomando in mano contro il telegiornale, come faccio ormai tutte le volte che accendo la tv. L’ho detto in inglese, l’altro ieri, via Zoom, agli olandesi.
Ci ho pensato tutto il giorno, facendo i lavori di casa — perché questo facciamo, ormai, dalla mattina alla sera, io e mia moglie: altro che leggere, io leggevo prima, ora non ne ho proprio più il tempo, ora devo lavare, pulire, cucinare, gettare l’immondizia, rifare i letti, spazzare, igienizzare il bagno, fare la spesa, cucinare di nuovo, scaricare e caricare la lavastoviglie, la lavatrice, l’asciugatrice (abbiamo l’asciugatrice, in cantina). E mentre facevo tutte queste cose mi chiedevo: ma davvero penso quello che ho detto agli olandesi? Noi siamo il virus? Il corona è un anticorpo? Penso davvero questo? E dopo tanto riflettere la risposta è arrivata. (Notare che ci ho riflettuto dopo averlo detto, non prima).
La risposta è: sì, sono d’accordo.
A cosa serviamo, ormai, noi uomini sul pianeta Terra? Perché dovremmo continuare a vivere, noi, dopo che la Madre Terra si è sbarazzata di altre migliaia di specie inutili o dannose, inclusi i dinosauri che sembravano i padroni del mondo? Non aiutiamo nessun processo naturale a compiersi, bensì ci industriamo a piegarlo ai nostri fabbisogni. Non contribuiamo in alcun modo al mantenimento di alcun equilibrio, ma sbilanciamo ogni giorno poderosamente le forze in campo per trarne il massimo profitto. Sappiamo tutti benissimo che la maggioranza delle cose che facciamo in capo a una giornata è nociva o tossica per il pianeta che ci ospita, ma continuiamo a farle. Abbiamo perfino generato il bisogno di farle, cioè le facciamo per non crollare, per non morire. Danneggiamo in qualunque modo l’oggetto che ci ospita e non riusciamo nemmeno a concepire di smettere di farlo. E chi, in natura, si comporta così? Qual e l’unica forma di vita che danneggia l’organismo che lo ospita fino a distruggerlo? Il virus. Noi siamo diventati un dannato virus, per il nostro pianeta, e il nostro pianeta cerca di difendersi.
Sì, sono d’accordo con quello che ho detto. Io sono un virus. Mangiare la carne o il pesce mi piace. Non mi è necessario, ma mi piace. Mi piace andare in macchina e in aereo, mi piace fare tutte le docce che mi pare usando la quantità d’acqua e di sapone che mi pare, mi piace avere il frigorifero pieno, mi piace sbarazzarmi il prima possibile dei rifiuti che produco, ficcarli dentro un cassonetto e disinteressarmi della fine che fanno. E mi piace riprodurmi, anche parecchio, almeno io, dato che ho generato cinque figli. Sono un virus. La natura sta cercando di sbarazzarsi di me, tirando alla cieca nel mucchio, uccidendo ogni giorno migliaia di miei simili, in tutto e per tutto uguali a me, ugualmente pericolosi e incoercibili, ma non ci riuscirà perché io sono – noi siamo – un virus potentissimo.
Ho detto questo, alla tv olandese, l’altro ieri, ma non l’ho detto così dettagliatamente perché l’ho detto in inglese, e dunque l’ho detto meglio, rozzamente. E oggi il mio faccione gironzola per il web mentre pronuncio quelle rozze, sagge parole, e su Twitter fioccano commenti che non avrò mai il bene di capire. Per esempio: «Ja das best maar ik heb er nu ff geen zin in om er zo naar kijken»: cosa vorra mai dire? Che sono uno stronzo? Che ho ragione?
637. Corri in soccorso con amore, la pace seguirà.

22 marzo 2020. Ieri è stato il giorno della foto storica e oggi è il giorno in cui è uscito l’articolo che ci ho scritto sopra, e che il Corriere della Sera, articolo e foto, ha messo in prima pagina. Copio la descrizione che ne ho fatto: «L’immagine che meglio di tutte ha finora saputo riassumere la surreale, perturbante, violenta alterità di questo momento storico. E stata scattata da una persona comune, cioè non da un fotografo professionista, a Prato, per l’appunto, ieri mattina, da una finestra che dà sul piazzale dell’Esselunga, e mostra una lunga coda di persone che aspettano il proprio turno per entrare nel supermercato, ordinata e soprattutto perfettamente rispondente alla disciplina del distanziamento che tanta fatica facciamo ad assimilare, in Italia, nonostante sia l’unica difesa che abbiamo contro la diffusione del contagio. La prima cosa che viene in mente, vedendola, e Golconda di Magritte, il celebre quadro in cui si vedono le persone sospese nell’aria come nere gocce di pioggia e, appunto, distanziate l’una dall’altra in maniera geometrica e inquietante (inquietante proprio perché geometrica). “Distanziate” da quasi settant’anni (Golconda è del 1953), quelle due immagini si parlano, e così chiaro: meno chiaro è cosa si dicano, ma questo dipende dal fatto che ormai ogni lingua e diventata improvvisamente difficile da capire, anche la più familiare – figuriamoci quella che si inventano le immagini per comunicare tra loro. In ogni caso, come sempre quando parliamo di foto storiche, vi è in quello scatto un che di unico ed esemplare – ciò che tutti volevamo vedere e nessuno però aveva ancora visto. Quella coda, infatti, è perfetta, ripiegata più e più volte su se stessa per sfruttare per intero la grande superficie del piazzale, e si dipana ordinatamente senza bisogno di una sola transenna».
L’hanno vista tutti quella foto, tra ieri e oggi. E oggi qualcuno ha letto il mio articolo, dove dico che quella coda è «cinese», nel senso che è il frutto dell’azione della comunità cinese sulla popolazione della mia città. A oggi Prato ha avuto solo 5 morti per il coronavirus, nonostante ospiti la comunità cinese più grande d’ltalia – anzi, ora l’abbiamo capito, proprio per quello. E’ una cosa che andava detta, e sono contento che sia toccato a me. Basta con questa storia dell’incompatibilità, della non integrazione, dei cinesi che mangiano i gatti e che non muoiono mai. I cinesi di Prato hanno insegnato ai loro concittadini indigeni ad affrontare l’epidemia, hanno distribuito mascherine e guanti, hanno mostrato come usarli, hanno dato l’esempio dello stare a casa e del fare le code restando distanti. E’ importantissima questa catena che si e creata, che ha già portato e porterà ancora all’emulazione – una specie di contagio del bene. Mi dicono per esempio che la comunità albanese di Prato, anch’essa molto nutrita, ha rimesso a disposizione della città la somma che la città aveva raccolto qualche mese fa per aiutare le popolazioni albanesi colpite dal terremoto. Se questi esempi dovessero propagarsi come si propaga il virus, se l’autodisciplina insegnata dai cinesi ai pratesi dovesse essere imparata anche da bolognesi, romani, baresi e palermitani, e si riuscisse davvero a mitigare il contagio, come dicono gli specialisti, in attesa che la scienza produca i farmaci adeguati, per la mia città sarebbe un doppio trionfo. Lo spero profondamente, perché sarebbe la scintilla di un mondo nuovo, e sarebbe partita dallo stesso posto da cui sono partito io.
Sono contento anche d’essere riuscito a convincere Lucio a tornare in Italia, e di avergli pure trovato il biglietto: non erano due cose facili. Anche lui, appena sarà rientrato, se ne andrà a fare la quarantena a Prato, dove ci sono già suo fratello, sua madre e sua sorella. Umberto, da solo, a Londra, rimane vigile, spiritoso e vitale come sempre. E Gianni mi sembra bello centrato, consapevole, disciplinato. La vita qui a Roma e dura, praticamente io e Manuela facciamo solo lavori domestici, ma i bambini sono fantastici e ci rendono tutto più facile. Un po’ di ottimismo. Non è che non pensi più a quella cosa che il virus siamo noi, e il Covid-19 un anticorpo: è una riflessione da approfondire, ma nei giorni a venire. Oggi, come ieri, c’è una fiammella di speranza da tenere viva, per via di quella foto, per via del modello-Prato. Mi ci voglio riscaldare.
Intanto, cominciamo a entrare nell’ordine di idee di rimettere i debiti ai nostri debitori. Sarà il primo passo, inevitabile, perché i nostri vengano rimessi a noi – e, dopo, ripartire.
Corri in soccorso con amore, la pace seguirà.
Lunedi 23 marzo. Io oggi non ho voluto sapere. Io oggi non so. Non ci sono numeri, oggi, in casa mia. Sono stato appresso tutto il giorno al rientro di Lucio dall’Australia, fra tre giorni, che è appeso a un filo, e questo filo si chiama Qatar Airways: se il suo volo viene cancellato siamo nei guai. Sono stato appresso tutto il giorno alle richieste di video e di interviste e di dichiarazioni d’incoraggiamento per le raccolte fondi, per la lettura, per un futuro migliore, per la resistenza e per la resilienza. Ho aspettato, nei giorni scorsi, ho preso tempo, perché non ero sicuro che quelle cose andassero fatte, cioè che fossero buone cose da fare: poi, oggi, ho deciso di farle, non perché abbia risolto il mio dubbio, ma perché le persone che chiedono sono veramente tante. Forse non serve a nulla, ho pensato, ma a me chiedono questo, di continuo, ogni giorno, e dunque è questo che io devo dare. Sono stato appresso tutto il giorno alla scuola via Internet dei figlioli, tramite il mio computer, tramite il mio smartphone. Sono stato appresso al cibo, scongela, prepara, cucina, mangia, sparecchia, carica la lavastoviglie, fai partire la lavastoviglie, scarica la lavastoviglie, prepara, cucina, mangia, sparecchia, carica la lavastoviglie, fai partire la lavastoviglie, scongela per domani. Non ho sentito la tv. So che è morto Arbasino, naturalmente, e proprio a lui ho dedicato una lettura di due minuti che mi è stata chiesta: ho letto la prima pagina di America amore. Ma su Twitter ho postato la foto della dedica che mi ha fatto su Marescialle e libertini: «A Sandro Veronesi, dal mare della memoria». Che bella dedica. Il mare della memoria. E’ la vecchiaia, il mare della memoria. Lui c’è stato. Ci ha navigato. Ora e arrivato in porto.
Dopo cena, con la tv spenta, io e mia moglie abbiamo parlato di come i bambini si siano perfettamente adattati alla nuova situazione. Molto sorpresa lei, non molto sorpreso io. Per me è normale che i bambini si adattino a questa vita, che per molti versi è migliore di quella che facevano prima – molto meno tossica. Io credo nel mondo nuovo, e credo dunque anche nell’uomo nuovo: ovviamente non nel senso della mistica fascista, ma nel senso letterale di nuova concezione dello stare al mondo da parte dell’essere umano. Adattarsi è la prima delle caratteristiche che quest’uomo nuovo deve avere, anziché – come faceva quello vecchio, cioè io, il virus – adattare l’ambiente alle proprie esigenze. E ce l’abbiamo in casa, quest’uomo nuovo che si adatta, sono i bambini: basta non contagiarli, basta non appestarli con il nostro modello che non funziona più, e che verrà definitivamente spazzato via dall’epidemia. Per questo, pur facendoci veramente un grandissimo culo – perché non ho avuto il tempo di dirlo ma noi abbiamo la tata in quarantena in casa, una persona in più di cui occuparsi, una in meno a dare una mano – io e mia moglie ce la stiamo cavando bene, alla fin fine: perché se la stanno cavando bene loro, i bambini, e loro sono l’esempio che noi seguiamo.
Corri in soccorso con amore, la pace seguirà.
Martedi 24 marzo. Altro giorno senza numeri, per me. Non voglio conoscerli, tanto non posso fare niente. Altro giorno di lavori in casa. Altro giorno di suspense per Lucio, il suo volo è ancora attivo ma la paura che lo cancellino tende le ore come corde di violino. Oggi ho lavorato su un sogno che ho fatto. Faccio sempre dei sogni nella notte tra il lunedì e il martedì, poiché il martedì mattina ho il mio appuntamento con la psicoanalista. Appuntamento che resiste anche di questi tempi, grazie alle videochiamate WhatsApp, così come sopravvive l’abitudine di fare sogni nella notte prima, o soltanto quella di ricordarmeli al mattino.
Ero in un ristorante, di notte tardi, assieme a Vinicio Capossela e altre quattro persone, dopo aver presentato insieme un libro in pubblico. Il libro non era né mio né suo, forse aveva la copertina bianca (Einaudi?), forse era stato scritto da una donna. Forse l’autrice era al tavolo con noi. Vigeva una regola ferrea, per la quale si poteva stare in gruppi di sei persone al massimo: si fosse aggiunta una settima, una delle sette sarebbe morta. A un certo punto vedevo arrivare nel ristorante uno dei manager di Vinicio, Luca Bernini, da solo: radioso, sorridente, ringiovanito. Era diretto verso di noi. Poiché ero un po’ stanco mi alzavo dal tavolo per lasciargli il mio posto, così che la regola del sei venisse rispettata: salutavo Vinicio, salutavo gli altri, salutavo Luca Bernini incrociandolo nel mezzo della sala, ma quando ero alla porta del ristorante mi accorgevo di avere dimenticato al tavolo il libro che avevamo presentato – la mia copia. Mi fermavo e mi paralizzavo nel dubbio, se andarmene lasciando perdere il mio libro o tornare al tavolo a recuperarlo, violando pero la regola del sei e condannando a morte uno di noi, magari me stesso. Rimanevo bloccato in questo dubbio, non andavo né avanti né indietro. Fine del sogno.
Ora, la bellezza di essere in analisi con una lacaniana è che la cosa più importante di questo sogno, partendo dalla quale abbiamo svolto un’interpretazione assai ricca di nettare, è il significante «sei»: non già inteso come numero bensì come seconda persona singolare del verbo essere. Un punto di partenza formidabile per precipitare subito, senza tanti preamboli, nei crepacci del sé, con tutto quel che segue.
Non starò qui a ripetere tutto il processo, lungo e laborioso, e del resto ancora in corso, partito da quel «sei» e finito nei gangli del mio inconscio; mi limito a evidenziare la bellezza di questa impostazione: la cosa più importante di quel sogno è la polisemia. Tutto quanto, anche il richiamo all’epidemia che tanto ci opprime, non è che un pretesto per approdare alla chiave del discorso più intimo e vero di cui essa, la polisemia, è la custode, e che permane nella propria perentoria asincrona essenza: il dubbio tra il «sei» e il «sono». Ecco. Questa oggi è stata la mia evasione. Il resto, uguale a ieri e – spero, sì, arrivo a sperare questo – a domani. Tanto il tema rimarrà invariato per tanti giorni ancora.
Corri in soccorso con amore, la pace seguirà.
Mercoledi 25 marzo. Niente numeri nemmeno oggi, non ho voluto saperli. Il volo di Lucio resiste, per adesso, non è stato cancellato. E stamattina, puntualmente, mi ha scritto Luca Bernini…
Non so, sarà stato un anno che non ci sentivamo. Mi ha mandato via WhatsApp un video di Joni Mitchell che canta Coyote davanti a Bob Dylan in uno studio di registrazione. Poi un messaggio per sapere come sto. Guarda, gli ho detto, che ti ho sognato proprio ieri notte. Lui era sbalordito, io un po’ meno. Si vede che l’ho sentito arrivare.
Ho però saputo dei contagi e dei ricoveri eccellenti: il principe Carlo, Borrelli, Bertolaso. Si va oltre il cadornismo: Principi e Generali feriti, eroi, e la colpa sempre più degli ultimi. E penso a loro, allora, agli ultimi — quelli che non possono permettersi di «combattere questa guerra stando a casa», come ci chiedono di fare. Quelli che in queste settimane hanno ricevuto una diagnosi di tumore e quelli che di tumore dovevano operarsi. Quelli in chemioterapia, in radioterapia, in dialisi. Penso a chi doveva subire un trapianto di organo, a chi doveva impiantarsi il pacemaker, il bypass, gli stent, l’anca di carbonio, la vite nel femore, il cristallino nuovo. Penso alle donne che dovevano fare interruzioni di gravidanza e a quelle che in casa vengono picchiate. A quelli che hanno figli autistici, malati di sindrome di Asperger, di Lyme, di Down. Penso ai carcerati, tra i quali viene per la prima volta ammesso in via ufficiale che ci sono casi di contagio. Penso ai preti, soli, nella chiesa vuota. Penso a quelli che sono stati lasciati dal fidanzato o dalla fidanzata, ai vecchi abbandonati negli ospizi, ai senzatetto buttati per terra, con il freddo che è tomato. Ai profughi provenienti dai campi libici, sui gommoni pieni d’acqua nel Canale di Sicilia, senza che ci sia nessuno a salvarli. Penso ai volontari delle Ong sparsi per gli ospedali d’Europa e calunniati dai sovranisti. Penso a quelli che lavorano, non soltanto al personale sanitario che lotta negli ospedali, penso a tutti quelli che lavorano ancora, e sfiorano l’infezione ogni giorno, in ogni momento, lavorando – finché, fatalmente, la contrarranno. Penso a quanto sia diversa la prospettiva dal loro punto di vista, e penso a quanto rimanga uguale, però, la risposta da dare, sempre la stessa, l’unica possibile — altro che guerra – finché la scienza continuerà a lasciarci così indifesi: corri in soccorso con amore, la pace seguirà.

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Mac (ma checcazzo di nome c’hai? non ci credo che ti chiami così), Veronesi è uno che sa scrivere, ma il mio ri-ri-ri segnalarlo riguarda solo il punto di vista che secondo me è originale e comunque diverso da tutti quelli che ho sentito.
Visto che si è tanto discusso sul tema, mi stupisco ancpora oggi che questo pensiero sia passato così inosservato. Ma sarò rincoglionito io.
Non mi piace. Suona bellamente posticcio. E quindi non di stronzaggine si parli, ma di ambigua piaggeria. Siamo sicuri che si debba esprimere su ogni cosa qualcosa in bella copia? Senza nemmeno uno scarabocchio, un inizio cancellato e riscritto? Un cazzo di dubbio o di misteriosa ineffabilità? Taci, se puoi. Anche se è più forte di te aprire la seducente ruota
Volevo solo fare notare come questo articolo vede la pandemia dal punto di vista opposto a tutti quelli che l’hanno discusso fin”ora.
Se Colao avesse avuto un riferimento del genere forse avrebbe buttato giù un piano diverso, magari migliore.
Non è bello vivere in uno Stato/Azienda e fare il capitale umano e/o la risorsa dell’azienda stessa.
“Il virus sono io.” Nel frattempo si è quintuplicato.
Sono andato a cercarlo perché tra la metà di marzo o stamattina ci ho pensato ogni giorno. Ho pensato ogni giorno a questo articolo di Sandro Veronesi, che non ho mai apprezzato particolarmente come scrittore, perché, ricordavo, che esprimeva chiaramente la nostra, di tutti, posizione nei confronti del Corona Virus. Lo faceva in maniera quasi scolastica elencando i comportamenti negativi nei quali tutti cadiamo, chi più, chi meno. A casa non ho l’asciugatrice e non faccio la doccia ogni giorno, ma prendo l’aereo e mangio quello che mi piace.
Ecco, mi è sembrato che quest’articolo sia stato il più profondo tra quelli apparsi qui nel blog sul tema del Corona Virus. Eppure è stato così poco commentato e sicuramente non letto o sottovalutato, chissà.
Volevo riproporne la lettura dopo 3 mesi significativi in cui ne abbiamo viste e vissute di ogni tipo. E anche in risposta a diversi articoli sullo stesso tema apparsi qui.
A volte non serve comprarsi un vestito nuovo. Basta cercare nell’armadio per trovarne uno adatto.
Simpatico e divertente scrittore intelligentemente spettacolare sull’attualità.
Non sento mai da tutte queste “personalità” che appaiono sui media, affiancate da giornalisti ammiccanti che sanno come mettere nei posti giusti le cose che vengono dette, non sento mai da loro delle proposte realizzabili, proposte concrete.
Tocca sempre agli altri.
Ai politici non penso proprio, sono tali perché non hanno idee per dirigere, seguono sempre i venti del momento e sono chiamati classe dirigente.
Alla gente sì, penso tocchi unicamente alla gente, ma la gente ha bisogno di tanto tempo per capire e muoversi.
Intanto dappertutto continuano i soliti giochi truffaldini e opportunisti sulla pelle della gente, con la differenza (ora sembra grande?) che questa volta troppe pelli si secchino.
Sarà una grossa crisi mondiale se non si lascia andare a lavorare chi ha poche probabilità di morire, i giovani, e si tiene ben isolato chi le ha, fino al vaccino.
Ma la politica ormai va così: sempre più egoista, ignorante e stupida per continuare a esistere… e noi pure?
“Se qualcosa ci deve servire”.
5 parole pronunciate dalla giornalista verso la chiusura del video.
Richiamano la critica al sistema esposta da Veronesi per redarguire noi tutti.
Non esprimono niente di concreto, allundono alla dimensione spirituale.
Non inidicano cosa fare per cessare l’avidità che chiamiamo normalità. Non serve.
Meglio, non serve a colui che ha un po’ di senso della poesia – come dice lo scrittore intervistato – colui che è in grado di riconoscere e condividere che il virus siamo noi, colui che ne intellege il significato, chi sente il valore spirituale di quell’allegoria.
A questi, non servono programmi alternativi per avviarsi ad abbandonare di credere nel sistema produttivistico.
Lo farà a sua misura, integrando in sé ciò che condivide sul cammino verso un paradigma meno orrifico.
A causa del nuovo spirito che ora lo anima, la sua intelligenza, da sé, creerà il necessario.