In un tempo in cui il femminismo ha perduto i propri confini, che appaiono quanto mai sfumati come quelli di tutti i valori umani, e viene spesso scambiato per la volontà di acquisizione di caratteristiche maschili da parte delle donne – aspetto che finisce per destabilizzare anche l’universo maschile – sento opportuno mettere in risalto alcune pratiche proposte dalla Libreria delle Donne di Milano, che oltre a essere editrice e punto vendita, offre momenti di aggregazione e scambio che possono promuovere l’identità femminile e maschile, rafforzando la capacità di preservare il proprio benessere e far valere i propri diritti alla vita.
La Libreria delle Donne di Milano conferma d’essere da sempre, più che una semplice libreria, un prezioso presidio culturale.
I brani proposti sono una selezione di uno dei Quaderni di Via Dogana, dal titolo Femminismo Mon Amour – Pratiche femministe per donne e uomini (Grazia Pitruzzella).
Un luogo di pratiche
a cura della Libreria delle Donne
I testi qui raccolti hanno avuto origine alla Libreria delle donne di Milano che è, dalla sua nascita nel 1975, molto di più di una libreria. Oltre a essere un luogo dove si vendono libri è un luogo di riflessione politica e di ricerca di pratiche e di elaborazione teorica, dove la teoria è intesa come messa in parola delle pratiche. La storia di questa libreria e il contesto storico delle pratiche che ne fanno la ricchezza vengono raccontate nel libro Non credere di avere dei diritti. La generazione della libertà femminile nell’idea e nelle vicende di un gruppo di donne.
Come suggerisce il titolo, la libertà non è un diritto che viene concesso alle donne dall’ordine costituito, la libertà viene generata nella relazione con altre donne, nella pratica di rapporti tra donne. In realtà questa pratica ha radici antichissime, ma solo nominandola e sperimentandola consapevolmente ha acquisito dignità politica: «A nessuna di noi, molto probabilmente, è stata insegnata la necessità di curare specialmente i rapporti con altre donne e di considerarli una risorsa insostituibile di forza personale, di originalità mentale, di sicurezza sociale. Fino a quando un’esperienza politica di rapporti fra donne ci ha portato a guardare meglio i fatti del passato. Così abbiamo scoperto, con meraviglia, che fin dai tempi più antichi sono esistite donne che hanno lavorato a stabilire rapporti sociali favorevoli a sé e alle proprie simili. E che la grandezza femminile si è nutrita spesso (forse sempre?) di pensiero e di energie circolanti fra donne» (2).
Anche la pratica dell’autocoscienza che abbiamo riproposto in questo volume con le sue declinazioni attuali si è rivelata congeniale alle donne, perché si è innestata sull’antica pratica sociale femminile, nel passato poco considerata, di trovarsi in luoghi separati per parlare del proprio vissuto. E il femminismo ne ha fatto la sua pratica politica, scommessa che Carla Lonzi ha sintetizzato con «È già politica». Ogni processo di trasformazione, così si capiva con la pratica dell’autocoscienza, passa attraverso la trasformazione di sé, e la realtà cambia nella misura in cui io cambio il mio rapporto con essa. Erano, gli anni ’70, anche anni in cui alcuni gruppi davano vita a progetti come librerie (anche la nostra), centri donne, biblioteche, case delle donne: la cosiddetta pratica del fare. Un fare comunque sempre intrecciato con la riflessione e con l’elaborazione di scritti. L’idea era di creare dei luoghi in cui le donne potessero parlarsi, ascoltarsi, mettersi in relazione l’una all’altra e alle altre, coinvolgendo il corpo e la sessualità, luoghi in cui «noi affermiamo i nostri interessi ed apriamo una dialettica con la realtà che vogliamo trasformare» (3).
Nello stesso periodo alcune donne hanno provato, in maniera forse poco ortodossa, a trasferire la tecnica analitica di ascolto nel contesto politico delle donne, inventando una nuova pratica, la pratica dell’inconscio, ispirata dal gruppo francese “Psychanalyse et politique”. Si indagavano contenuti inconsapevoli dell’esperienza come il rapporto con la madre, l’aggressività, la recriminazione, la dipendenza dall’uomo, le fantasie. Questa pratica, anche se temporalmente e localmente limitata (1974-75 a Milano e Torino), ha lasciato tracce attive fino al presente e ha permesso di individuare e nominare in termini politici alcuni nodi che venivano fuori – talvolta quasi per caso – nel fare. Come quella volta, nel 1976, che in un gruppo intento a produrre una pubblicazione sulle scrittrici, chiamate le madri di tutte noi (4), una delle presenti ha pronunciato la frase inaudita: «Le madri non sono le scrittrici, le madri sono qui tra noi perché non siamo tutte uguali».
Sembrava sconcertante ma tutte capivano che questo fatto era sempre stato sotto gli occhi, oscurato però dall’egualitarismo dei gruppi femministi, oppure sistemato sotto il nome di invidia. Lo squilibrio che si crea quando una donna si trova di fronte a un’altra che ha un di più desiderabile, richiedeva nuove riflessioni e una nuova pratica. È stata chiamata la pratica della disparità ed è stata accompagnata alla proposta di entrare con quella donna in una relazione di affidamento, che sottintende parole come fiducia, fidarsi… Una relazione duale che però non rimane isolata perché apre a un intreccio infinito con altre relazioni e altri desideri. Quell’alleanza tra la donna che vuole e la donna che sa, infatti, è più di un rapporto personale e invisibile, diventa esso stesso rapporto sociale. Abbiamo sperimentato l’efficacia di questa relazione che libera il proprio desiderio e potenzia la presa di parola. Abbiamo sperimentato che il partire da sé, il partire dalla propria trasformabile soggettività, legandoci in un rapporto di fiducia a un’altra ci ha fatto guadagnare in libertà e agio nella vita di tutti i giorni in svariati contesti sociali. E si capisce che la parola politica non è più associata ai rapporti di forza e alla gestione del potere, che stiamo parlando di una politica del desiderio.
Ci sentiamo di proporre questa politica, di raccontare le pratiche del passato e di pensare quelle del presente insieme a chi è in cerca di parole e di forme politiche fuori dalle strade battute e dalle strutture patriarcali agonizzanti.
La Libreria delle donne è un luogo aperto al pubblico, a donne e uomini interessate/i a condividere l’avventura di pensare in presenza.
Note
(1) Per chi vuole approfondire le invenzioni politiche della Libreria e il modo in cui sono nate, rimando a Non credere di avere dei diritti. La generazione delia libertà femminile nell’idea e nelle vicende di un gruppo di donne, Rosenberg & Sellier, Torino 2016 (8a).
(2) Ivi, pp. 13-14.
(3) Ivi, p. 93.
(4) Catalogo n. 2 Romanzi. Le madri di tutte noi, detto Catalogo giallo, Libreria delle donne e Biblioteca delle donne, Milano – Parma 1982.
Una inesauribile ricerca di senso
di Traudel Sattler
Autocoscienza ancora – sì, ancora! Questa pratica congeniale alle donne che da sempre hanno la consuetudine di trovarsi tra di loro per parlare di esperienze anche intime, alla fine degli anni ’60 è diventata una pratica politica e in questo senso è un’invenzione originaria del femminismo. La modalità che ne sta alla base è il riferirsi a sé e al proprio vissuto, cioè la singola trova in sé quello da cui partire, anche senza sapere in quale direzione andrà, e la presa di parola viene potenziata dalla presenza di altre.
Grazie al movimento delle donne questa modalità ha continuato a lavorare nella società, talvolta in modo carsico, per insorgere in modo sorprendente e in forme inaspettate, come ad esempio il #MeToo scoppiato nel 2017. Un evento che non ha preso il nome di autocoscienza ma ne aveva molti ingredienti: una donna comincia a raccontare una molestia che prima della presa di coscienza poteva sembrare anche una cosa banale o comunque da tacere per vergogna, e un’altra dice: è successo anche a me, un’altra ancora e un’altra ancora e così comincia a rivelarsi la politicità della cosa, cioè che si tratta di un fenomeno strutturale di ricatti sessuali e di abuso di potere. La novità è stata il canale di comunicazione, la rete. L’altra novità, di portata storica perché ha cambiato il senso comune, è stata l’efficacia dell’azione: si è rotta la complicità anche tra uomini, e il potere finora indiscusso di un produttore cinematografico e di molti altri dopo di lui è crollato. Il terzo elemento nuovo è stata la portata di questa presa di parola: il #MeToo è stato come una valanga a livello globale, attraversando continenti, lingue e culture diverse.
Ultimo caso a Milano nel mondo della pubblicità pochi mesi fa. A partire da una segnalazione di un pubblicitario e da una pagina Instagram molte donne che lavorano in questo settore hanno scritto nei social dei soprusi subiti e hanno preso coscienza che non si trattava di episodi isolati ma di un abuso di potere sistemico. Inoltre ci sono gruppi di autocoscienza nati in anni recenti e da tempo esistono quelli costituiti da soli uomini. Abbiamo anche visto che qualche giovane attivista fa esplicito riferimento a questa pratica come una possibilità per affrontare questioni del nostro tempo come l’eco-ansia legata alla crisi climatica o come l’intensificarsi della violenza maschile contro le donne. C’è una nuova curiosità nei confronti di questa pratica e qualcuna ci chiede: raccontami quell’esperienza…
Ora, non si tratta certo di proporre un modello o una tecnica, ma piuttosto di vedere l’autocoscienza come «un’inesauribile ricerca di senso, come un motore di ricerca che non ha fatto il suo tempo», come dice Manuela Fraire con una formula che mi piace.
In Italia è stata chiamata autocoscienza, ma la pratica si è diffusa più o meno nello stesso periodo in quasi tutti i paesi industrializzati, diventando un elemento costitutivo della politica delle donne. Verso la fine degli anni ’60, il movimento antiautoritario sembrava anche per le donne un buon contesto per la ricerca della propria libertà. Ed era anche il momento storico in cui le nostre costituzioni avevano promesso l’uguaglianza tra uomini e donne e non c’erano ostacoli formali all’accesso delle donne all’istruzione e al mercato del lavoro. Eppure in quel movimento antiautoritario per molte donne c’era qualcosa che non andava, c’era un disagio diffuso in quelle assemblee e manifestazioni, in quelle aule universitarie, nei rapporti intimi con i maschi. Io sono venuta un po’ dopo, ma anch’io sentivo quel disagio: nelle assemblee, sempre affollatissime e infinite, le donne parlavano pochissimo: o scimmiottavi il discorso dei compagni o restavi muta come me. Negli esami universitari facevi la recita del sapere neutro-maschile, e se non ci stavi alle imposizioni della cosiddetta rivoluzione sessuale tutta su misura della sessualità maschile eri frigida o inibita e comunque da mandare in psicoterapia.
Questo senso di frustrazione per una libertà promessa che si era rivelata fasulla ha portato molte donne a compiere gesti dirompenti come disertare le assemblee miste nelle università per trovarsi in gruppi separati e mettere in parola la propria esperienza. Un gesto con un forte impatto simbolico e pratico che ha aperto la strada per noi di pochi anni più giovani. Ispirate dai gruppi che si erano costituiti negli USA sotto il nome di consciousness raising, anche in Europa le donne cominciavano a trovarsi in piccoli gruppi con modalità diverse tra di loro che comunque avevano un punto comune: la presa cli coscienza a partire dal proprio vissuto. Per molti gruppi, anche per il mio, significava partire dalla propria sessualità, dall’esperienza del corpo, e la presa di parola era accompagnata dall’esplorazione del nostro corpo, usando, oltre lo speculum, anche il libro Noi e il nostro corpo (1) di un collettivo di donne di Boston, un testo che è stato tradotto in tante lingue. Il nostro intento era sottrarci al potere dei medici, e in generale a ogni interpretazione precostituita della differenza femminile. È stata un’esperienza inebriante, sentivo quella specie di vertigine che ti capita quando lasci il terreno conosciuto e non hai neanche le parole per dirlo. E subito mi venne in soccorso qualcosa che per me è stato ed è sempre un ingrediente irrinunciabile della politica delle donne: la fiducia. Non so da dove mi venisse, penso che sia quella fiducia originaria che hai nei confronti della madre quando ti insegna a parlare. E questo mi ha dato la forza per sottrarmi alle dinamiche del potere maschile compresa l’eterosessualità obbligatoria.
Quindi non erano le contraddizioni della società che mi avevano spinta a cercare libertà e giustizia, ma contraddizioni e sentimenti che venivano dal profondo, creando una vera e propria urgenza di parole da dire e da ascoltare. Dappertutto fiorivano gruppi di autocoscienza, è stata una pratica liberatoria, in Germania dove stavo io come in Italia. E qui vorrei sottolineare che per me il femminismo italiano ha decisamente un di più per quanto riguarda l’elaborazione dell’autocoscienza: questa pratica, per sua natura orale, è stata approfondita e messa a punto in forma scritta da Lanzi. È proprio da lei che vogliamo ripartire.
Certo, rispetto al femminismo delle origini ci troviamo in un mondo profondamente cambiato e pieno di nuove contraddizioni: attraverso i social network ogni angolo della vita personale viene esternalizzato, l’intimità sembra messa in vetrina, ma parlare veramente di sé crea imbarazzo. Quando si dice trasformazione di sé viene inteso come ottimizzazione di sé. Oggi la differenza femminile viene sempre più neutralizzata in nome della parità e dell’inclusione, a partire dal linguaggio, e così rischia di perdere la sua forza creativa. Le nostre emozioni vengono scippate dal capitalismo neoliberista ancora prima di essere messe in parola; il farsi della soggettività, essenziale per l’autocoscienza, può essere bloccato dall’offerta di una vasta panoramica di identità possibili.
E ora c’è da indagare. Quali forme può assumere l’autocoscienza di fronte a queste sfide? Una cosa mi sembra certa: la scommessa originaria di questa pratica, il dire la propria esperienza risignificandola in una relazione di fiducia non si esaurisce ed è una potenzialità che ciascuna e ciascuno porta in sé. Dà un orientamento, il resto è da inventare. È vero, è una pratica rischiosa a livello personale, avventurosa direi, perché porta ad abbandonare le strade battute e le parole dette da altri ma promette un pensiero più originale e più vero.
Nota
(1) The Boston Women’s Health Book Collective (a cura di), Noi e il nostro corpo. Scritto dalle donne per le donne, Feltrinelli, Milano 1974.
(continua)
Scopri di più da GognaBlog
Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.

Grazie, Giovanna, per la condivisione!
Leggendo con piacere questi pezzi mi è venuto in mente un documentario di MeMoMi fatto da Sabina Fedeli sulla Liberia delle donne https://memomi.it/libreria-delle-donne