In un tempo in cui il femminismo ha perduto i propri confini, che appaiono quanto mai sfumati come quelli di tutti i valori umani, e viene spesso scambiato per la volontà di acquisizione di caratteristiche maschili da parte delle donne – aspetto che finisce per destabilizzare anche l’universo maschile – sento opportuno mettere in risalto alcune pratiche proposte dalla Libreria delle Donne di Milano, che oltre a essere editrice e punto vendita, offre momenti di aggregazione e scambio che possono promuovere l’identità femminile e maschile, rafforzando la capacità di preservare il proprio benessere e far valere i propri diritti alla vita.
La Libreria delle Donne di Milano conferma d’essere da sempre, più che una semplice libreria, un prezioso presidio culturale.
I brani proposti sono una selezione di uno dei Quaderni di Via Dogana, dal titolo Femminismo Mon Amour – Pratiche femministe per donne e uomini (Grazia Pitruzzella).
Una scommessa da giocare insieme
di Laura Colombo
(19 giugno 2023)
Le pratiche, nel movimento delle donne, sono un fatto politico davvero importante perché hanno permesso loro di aprire uno spazio di soggettivazione e anche uno spazio di libertà, innanzitutto per le donne ma anche per gli uomini. In un incontro a Lugano di qualche anno fa con l’Associazione Archivi Riuniti delle donne del Ticino, Chiara Zamboni (1) parla diffusamente delle pratiche nel movimento politico delle donne, spiegando che sono processi che iniziano da donne in relazione tra loro, che possono subire modificazioni nel loro svolgersi, restituendo quindi un senso di libertà, ma anche di precarietà. In estrema sintesi, si tratta di sperimentare in relazione, a partire dal desiderio soggettivo, e fare scoperte a partire dall’esperienza, andando al di là di quello che si pensa di sapere. Si tratta di imparare una nuova lingua per dire la propria esperienza e fare mondo, trovare parole nuove, non più irrigidite nelle forme che altri avevano pensato.
Quello che mi ha sempre affascinato e attratto dei racconti sui primi gruppi femministi è che l’uscita di scena delle donne (dalla scena della politica fatta con gli uomini) per ritrovarsi, insieme, in un altrove senza una rappresentazione già data, ha liberato energie incredibili, come testimonia ancora oggi la Libreria delle donne di Milano, un posto venuto al mondo da quel desiderio. Più che un’uscita di scena è stata a ben vedere un mettersi al centro, e questo ha avviato una vera e propria rivoluzione simbolica, una trasformazione radicale della vita collettiva, che non ha distrutto cose e persone ma ha sovvertito l’ordine dei rapporti, togliendo sostanza alle istituzioni patriarcali e dando vita a nuove forme di relazione.
La Libreria è uno dei luoghi più importanti del femminismo italiano e non solo, un luogo che ha dato vita a molte delle pratiche che ancora oggi sono essenziali, dove possiamo continuare a fare ricerca. C’è un testo molto forte da leggere o rileggere, quello che viene comunemente chiamato Il non credere (2). È un racconto appassionato e coinvolgente perché fa un’elaborazione a partire da un luogo collettivo di relazione tra donne e soprattutto perché srotola pensieri che restano serrati all’esperienza man mano ripercorsa e raccontata. Leggendolo, si può cogliere la potenza di quello che è successo in quegli anni, che è una scommessa ancora aperta.
Nel suo libro, Il capitale amoroso, Jennifer Guerra fa una ricerca intorno all’amore come pratica, come esercizio quotidiano. Quindi l’amore non inteso come emozione o sentimento «irrazionale e indomabile» (3) ma come «amore pubblico, disinteressato, che dalla dimensione privata si riverbera su tutta la società, in grado di colpire anche chi decide di sottrarsi alla sua potenza» (4).
I passaggi in cui Guerra sviluppa il suo pensiero sull’amore come pratica che assume una dimensione pubblica mi hanno ricordato il lavoro di Françoise Duroux, filosofa francese (5). In lei troviamo il concetto di philia come amicizia, una forma di amore amicale, un legame tra esseri umani che investe la dimensione pubblica, scardinando le logiche di potere e sopraffazione.
Leggendo il libro di Jennifer Guerra ho anche ricordato una cosa che mi è successa tanti anni fa con L’ordine simbolico della madre di Luisa Muraro (6). Ricordo perfettamente la circostanza, perché ho capito col tempo che quello è stato il fatto fondativo del mio femminismo. Ero sull’autobus verso Milano, diretta al mio lavoro, quando mi sono imbattuta nel concetto di amore femminile della madre che mi ha scompaginata, facendomi intravvedere un orientamento nel caos in cui mi trovavo.
Mia madre non è stata femminista, anche se anagraficamente avrebbe potuto esserlo. E io mi dibattevo tra la rivendicazione di un suo sguardo amorevole e legittimante e la ricerca di questa impossibilità attraverso la ribellione, la partecipazione disordinata a vari gruppi femministi, che in provincia erano per lo più legati all’emancipazionismo e alla parità, e un rapporto ingarbugliato con gli uomini. Infatti lavorando in un contesto prettamente maschile, entravo in una competizione estenuante e sempre in perdita, nonostante il mio perfezionismo, aumentando lo struggimento e la sofferenza di cui non venivo a capo.
Leggere e rileggere quel secondo capitolo del libro di Luisa Muraro è stato essenziale: non capivo e mi pareva impossibile operare lo spostamento dalla ribellione/rivendicazione all’amore per mia madre. Intuivo, però, la potenza di questo atto e sono rimasta nell’apertura, legandolo inizialmente alla scena più allargata, al mio desiderio di avere con le altre una misura che facesse star bene me e noi “nella nostra pelle”, per arrivare man mano a cogliere la potenza del gesto e della nominazione dell’amore femminile per la madre, ovvero la mediazione giusta per poter dire quello che mai avevo potuto dire e poter vedere quello che mai avevo potuto vedere. Che cosa? La bellezza e legittimità delle relazioni tra donne, la ricchezza di una società femminile che già c’era e che era parte di me, la possibilità di una relazione differente con gli uomini, la possibilità di un senso libero del mio essere donna, potendo pronunciare con gioia questo nome, senza cadere nell’essenzialismo di un’etichetta che imprigiona in ruoli o significati precostituiti.
Insomma, mi ha permesso di fare un passaggio da quello che credevo di sapere di me a quello che non conoscevo ma era lì, eccedenza per me senza voce né senso, passaggio che oggi chiamerei simbolico. Ciò mi ha portato a vedere più precisamente e vedere altro, riconoscendo la mediazione che rende possibile questo mutamento. Posso dire che, al momento, mi pare una storia di trasmissione avvenuta, perché sono tutte cose che, avendo la fortuna di una figlia, ho passato poi a lei.
Il numero 3 della rivista Via Dogana intitolato proprio L’amore femminile della madre, ospita l’articolo di Luisa Muraro L’amore come pratica politica: a una donna, che aveva posto un’obiezione profonda alla necessità di amare la madre, Luisa Muraro dà una risposta che anche oggi ci può orientare: «La risposta della pratica politica è migliore. Con la pratica io introduco una innovazione nel mio presente (per esempio tengo e rendo conto dei beni ricevuti dalle mie simili; espongo desideri e problemi, senza più difendermi col silenzio; mi vincolo al giudizio di una donna affidabile; ecc.) rendendo il presente più vivo e libero, in quanto non più dipendente da quello che è stato; diventa invece vero il contrario, che il passato si presenterà mutato ai miei occhi, perché io sono mutata. Nelle parole della donna che mi ha insegnato la politica, oltre al posto dato alla pratica, tale che l’amore stesso diventa pratica, colpisce il cambiamento dello sguardo. Le parole di lei invitano a guardare la realtà come qualcosa che può mutare perché noi stesse possiamo mutare. Così, il movimento che ci ha portate a capire la necessità dell’amore femminile della madre, mostra questo amore all’opera: si mostra come opera di questo amore. E così il cerchio si chiude in un movimento circolare che ci comprende e dà forza» (7).
Ho parlato di scommessa poco fa. Credo, e con me le amiche della redazione di Via Dogana 3, che ripensare a Eros e Philia in una dimensione pubblica sia molto importante per il presente che abitiamo, credo sia una scommessa che dobbiamo giocare insieme.
Note
(1) Chiara Zamboni, Le pratiche come modalità del simbolico in: https://www.yumpu.com/it/document/read/916826/le-pratiche-come-modalita-del simbolico-chiara-zamboni
(2) Libreria delle donne di Milano, Non credere di avere dei diritti. La generazione della libertà femminile nell’idea e nelle vicende di un gruppo di donne, Rosenberg & Sellier, Torino 1987.
(3) Jennifer Guerra, Il capitale amoroso. Manifesto per un eros politico e rivoluzionario, cit., p. 15.
(4) lvi, p. 80.
(5) Françoise Duroux, Il paradigma perturbante della differenza sessuale. Una filosofia femminista, a cura di Chiara Zamboni e Stefania Tarantino, Mimesis, Milano 2021, libro che raccoglie alcuni dei suoi più importanti scritti.
(6) Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre, Editori Riuniti, Roma (1991) 2022.
(7) Luisa Muraro, L’amore come pratica politica, in via Dogana n. 3, dicembre 1991, pag. 19.
Il senso della pratica della memoria come pratica politica
di Sandra Divina Laupper
(17 aprile 2023)
Una sfida con la quale, in realtà originariamente nostro malgrado, noi del gruppo Baubó di Bressanone ci siamo ritrovate a dover fare i conti, è stata quella con il passato nazista della provincia di Bolzano dove abitiamo, dove per ben tre quarti la popolazione è di madrelingua tedesca, popolazione che durante la seconda guerra mondiale ha ampiamente aderito al nazismo. Soprattutto dopo l’8 settembre 1943, l’adesione al nazismo non fu più solo di tipo ideale, ma anche fattuale, con conseguente organizzazione della popolazione sudtirolese nelle varie strutture naziste militari e civili. Quindi, la responsabilità storica dei sudtirolesi è dunque paragonabile a quella dei tedeschi di Germania e Austria. Anche Elisabeth Hofer, Monika Brigo e io, che componiamo il gruppo Baubó, facciamo parte del gruppo etnico tedesco e siamo particolarmente sensibili a questo tipo di responsabilità storica.
Si tratta di una sensibilità che ci rende consapevoli che, l’eredità lasciata ai propri discendenti dai tedeschi che hanno aderito al nazismo, non è tanto quella di una colpa per i crimini compiuti dalla Germania nazista, giacché la colpa di un crimine ricade inevitabilmente su chi questo crimine lo ha effettivamente compiuto, ma piuttosto quella dell’infamia. Chiunque, in un modo o nell’altro, aderì al nazismo, ha raccolto l’infamia di questi crimini sul proprio capo. E dove non c’è una chiara presa di posizione rispetto a questi crimini, l’infamia ricade anche sulle generazioni seguenti.
Siccome sono sensibile a questo tipo di infamia, ci tengo, dovunque se ne presenti l’occasione, a esprimere una chiara posizione di condanna nei confronti del nazismo e di tutto ciò che ha comportato per la nostra terra, ma soprattutto una chiara posizione di condanna nei confronti di tutto ciò che il nazismo ha comportato per ognuna delle innumerevoli vittime dei crimini contro l’umanità, come per ognuna delle innumerevoli vittime dei crimini di guerra oppure della repressione politica violenta.
Nella primavera del 2014 ho cominciato a rendermi conto che riguardo ai crimini nazisti, nei discorsi comunemente accettati dalla gente, circolavano delle relativizzazioni che non potevo non considerare inaccettabili. E soprattutto mi sono resa conto di quanto sia comunque impotente qualsiasi tipo di argomentazione razionale, anche se basata su fatti storici ampiamente documentati, quando si tratta di confutare queste relativizzazioni perché basate su discorsi già preconfezionati e ben muniti di difese; proprio perché non sempre sono razionali (anzi!) sono impenetrabili a qualsiasi tipo di argomentazione storica, anche se ben spiegata e dimostrata.
Quindi ciclicamente, alle riunioni di Baubó, tornavo a lamentarmi di queste esperienze frustranti. Ma discutendo con Monika ed Elisabeth di questi miei insuccessi, delle liti e degli scontri più o meno inutili avuti al riguardo, mi resi conto che non solo anche noi, a Baubó, avevamo bisogno di un confronto più differenziato con tutto ciò che riguardava la storia del fascismo e del nazismo nella nostra terra. Si trattava soprattutto di affrontare la questione del passato nazista dei sudtirolesi dal punto di vista del simbolico, cioè dei gesti da fare, delle posizioni da prendere, degli atteggiamenti da assumere per dare senso alle nostre parole. Quindi, c’era bisogno di una precisa pratica politica per riuscire a creare un contesto in cui la verità fosse non solo dicibile, ma soprattutto anche riconoscibile come tale per chi vi partecipava. La pratica che abbiamo inventato e affinato con gli anni è quella delle gite della memoria che, dal 2017, compiamo tutti gli anni in primavera, alternando, di anno in anno, una visita a Bolzano a una a Merano.
A Bolzano visitiamo il passaggio della memoria presso l’ex campo di concentramento, facendoci accompagnare dall’ANPI locale che su questo argomento è più che preparata e documentata. A Merano invece visitiamo la sinagoga della comunità ebraica con l’annesso piccolo museo sulla shoah. Anche qui, si tratta di una visita guidata che prenotiamo con ampio anticipo. Per organizzare queste gite, mettiamo insieme un gruppetto di 10-15 persone con cui trascorriamo tutta la giornata, incluso il pranzo. Di anno in anno, se possibile, torniamo a invitare le stesse persone, perché ci interessa che questa pratica aiuti a instaurare dei rapporti di fiducia e di stima tra chi vi partecipa e anche tra loro e noi di Baubó. La nostra gita della memoria non è semplicemente un’offerta culturale che può essere accettata o no, a seconda dei gusti o degli interessi personali, ma è un invito a prendere chiaramente posizione in favore di chi ha subìto la violenza criminale nazista.
Per questo noi ci spostiamo nei luoghi in cui queste violenze sono accadute e sono state documentate. Si tratta di mettersi in cammino e di farlo insieme ad altre e altri, in modo da creare un contesto in cui sia possibile discutere apertamente, anche sugli aspetti controversi e conflittuali della questione. Siccome un contesto costruito attraverso rapporti vincolanti permette anche di confliggere, le nostre annuali gite della memoria, che noi concepiamo espressamente come una pratica politica, rappresentano anche un’occasione privilegiata per assumersi l’autorità di esprimere dei giudizi e delle chiare prese di posizione. Chi partecipa potrà condividere o contestare questi giudizi, ma non potrà sottrarsi all’autorità di un luogo e di una pratica votati alla memoria delle vittime.
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