Alpinismo e arrampicata sportiva: una convivenza possibile

Alpinismo e arrampicata sportiva: una convivenza possibile
di Andrea Mellano
(pubblicato su Scandere 1989)

Quel giorno di luglio del 1985, allorché l’atletico e sconosciuto giovanotto tedesco Stefan Glowacz, sulle rocce della parete dei Militi in Valle Stretta, si fermò in perfetta spaccata sotto uno strapiombo e, da quella posizione incredibile estratto dal sacchettino della magnesite uno spazzolino da denti, con calma si mise a pulire gli appigli minuscoli che gli avrebbero consentito il superamento dell’ultimo tratto della via di finale e vincere la prima gara di arrampicata della storia dell’alpinismo occidentale, tutti noi vecchi « rocciatori» che eravamo alla base della «mitica» parete con gli occhi stralunati per lo spettacolo di tecnica e classe cui stavamo assistendo, ci rendemmo conto che quel tipo di arrampicata con l’alpinismo non aveva più nulla a che fare.

Le gare di arrampicata sono state certamente un avvenimento traumatico per i più tenaci cultori della ortodossia alpinistica: un elemento disgregatore e sovvertitore dei princìpi sui quali l’alpinismo ha costruito la propria immagine storica.

Bardonecchia 1985. Al centro, Stefan Glowacz (a sinistra) e Thierry Renault.

Le polemiche che già prima della gara di Bardonecchia si erano accese in Francia e in Inghilterra — in Italia non se ne parlava ancora, almeno a livello ufficiale — dopo quel fatidico luglio ’85 ripresero vigore e sulle riviste specializzate divennero l’argomento principale che ebbe, se non altro, il merito di vivacizzare la monotona pubblicistica dell’alpinismo.

Mai attività come l’arrampicata sportiva (il termine «sportiva» è ormai riconosciuto più pertinente dell’improprio «Free Climbing») ebbe il potere di generare tensioni così forti con prese di posizione da parte di molti alpinisti al limite dell’isterismo. L’arrampicata sportiva (quindi protetta) avendo come fine, nella sua dimensione agonistica, la competizione esplicita e diretta, era vista come una attività provocatoria e perciò da respingere e ignorare.

Come parte in causa (purtroppo non come praticante per ovvie ragioni di anagrafe, ma per averne posto, con gli amici Emanuele Cassarà e Marco Bernardi, le basi ideologiche e sportive), mi sono subito chiesto il perché di questa avversione ringhiosa e violenta. In fondo, si trattava di rendere esplicite in una branca dell’alpinismo come l’arrampicata su roccia le tendenze agonistiche dei giovani protagonisti, cercando di dare dignità sportiva alla nuova disciplina che si stava sviluppando.

Bardonecchia 1985. Stefan Glowacz in arrampicata. Lo osserva Marco Bernardi.

La provocazione poteva essere forse la ragione più ovvia di tanta avversione. Ma ne esisteva un’altra molto più complessa ed era, a mio avviso, quella del timore che l’arrampicata sportiva potesse sostituire nell’immaginario della gente ciò che sino allora era stato di pertinenza esclusiva dell’alpinismo.

Ecco allora i custodi delle sacre reliquie alpinistiche richiamare l’attenzione sui «valori» morali e civili dell’alpinismo, che stavano per essere travolti dall’eresia di questo nuovo modo di arrampicare solo per il piacere del gesto atletico e magari anche per vedere subito chi era il più bravo in modo esplicito e senza rischiare l’osso del collo.

Per la gente comune, l’arrampicata sportiva è certamente di più immediata comprensione dell’alpinismo, tutto pervaso di complessi e motivazioni da far venire il mal di testa alle persone cosiddette normali: sì, perché gli alpinisti in virtù di sapere, più o meno, andar per monti si sono sempre sentiti gente speciale e non hanno fatto molto, nei duecento e passa anni della loro storia, per farsi capire più di tanto.

A voler leggere tra le righe la storia dell’alpinismo, però, non risulta poi tanto vero che gli alpinisti siano tutti dei candidi angioletti non competitivi. La sempre conclamata mancanza di agonismo nell’alpinismo è una falsità bella e buona; certo, la variabilità delle situazioni ambientali e le condizioni del terreno rendono difficile la competizione diretta (ma eccezioni non tanto rare si sono verificate nel corso della «conquista» delle montagne e delle «vie nuove»), ciò non toglie che un fiero spirito agonistico abbia animato i protagonisti delle imprese di ogni epoca.

Lasciando da parte le solite litanie sugli effetti deteriori e diseducativi della competizione nella pratica ludica, per altro confutate dalla storia dello sport, che se non altro è utile, pur con mille difetti, per incanalare l’aggressività insita nel­l’uomo verso i suoi simili in un gioco retto da regole precise che tutti devono rispettare, posso dedurre che l’avversione all’arrampicata sportiva sia anche dovuta ad un inconscio istinto di conservazione delle proprie motivazioni e gratificazioni derivanti dall’essere alpinista.

Alpinisti siamo tutti: campioni e mezze tacche; la non competizione esplicita pone tutti sullo stesso piano, cosicché tutti possiamo sentirci Bonatti o Messner, tanto, si dice, la soddisfazione è la stessa, sia che si salga una via di secondo grado sia che si scali un «6000» per la prima volta.

Questo transfer di gratificazione è alla base della cultura che origina e dà forza ai conclamati valori dell’alpinismo.

Pubblicizzare e praticare una attività che al contrario dell’alpinismo richiede sempre, anche a livello amatoriale, un confronto tecnico e atletico potrebbe voler dire mettersi contro e in concorrenza con l’attività alpinistica, senza dubbio più complessa e che per molti rappresenta un modo di essere anche fuori dell’ambiente alpinistico.

Vorrei rassicurare gli amici alpinisti che nessuno ha mai pensato di sostituire l’alpinismo con l’arrampicata sportiva, non solo dal punto di vista dell’immagine ma soprattutto sul piano dei «valori». Oggi che l’arrampicata sportiva ha trovato la sua dimensione autonoma, dovrebbe essere chiaro a tutti (almeno spero) che si tratta di una attività diversa dall’alpinismo con il quale non sono possibili confronti in merito.

Ma diversità non vuole dire incompatibilità, tra le due attività esiste una base comune di esperienze tecniche e didattiche che possono risultare utili per ampliare l’area dei praticanti le discipline attinenti gli sport della montagna.

L’arrampicata sportiva, elaborando e adattando le tecniche della arrampicata alpinistica, ha formulato una sua etica e nuove forme di comportamento nella arrampicata su roccia, le quali, di riflesso, hanno influenzato positivamente anche l’arrampicata alpinistica.

Il concetto sportivo della ripetizione del tentativo per il superamento delle difficoltà ha imposto norme precise per l’incolumità dei praticanti. La prima regola, quindi, per l’arrampicata sportiva è la garanzia della sicurezza nel corso della azione. La gratificazione è data dal risultato raggiunto grazie all’abilità e alla preparazione e non al coraggio e allo sprezzo del pericolo dimostrati.

Il «valore» dell’integrità fisica dei praticanti (per la maggior parte giovani e giovanissimi) è senza dubbio la caratteristica più importante della arrampicata sportiva che può essere applicata anche nella arrampicata alpinistica, malgrado l’avversione che gli alpinisti hanno per la limitazione del rischio, considerato lo stimolo princi­pale della loro attività e un simbolo di libertà di azione.

La possibile collaborazione tra l’arrampicata sportiva e l’alpinismo si può sviluppare innanzi tutto nel settore giovanile della promozione e della didattica, come dimostrano le avanzate esperienze compiute all’estero, in particolare in Francia dove l’arrampicata sportiva è insegnata nelle scuole elementari ed è diventata una disciplina sportiva utilizzata nei corsi di educazione fisica dei ragazzi.

Al di là dunque delle finalità agonistiche che l’arrampicata sportiva si propone, vi sono aspetti ricreativi ed educativi di grande interesse che possono essere sviluppati a qualunque livello di impegno.

Bardonecchia 1985. In mezzo a molti volti noti, al centro (in canotta bianca) è Thierry Renault.

Attraverso l’esperienza della arrampicata intesa come sport e gioco, i giovani possono giungere anche all’alpinismo con una mentalità e un concetto della sicurezza che privilegia l’aspetto sportivo e tecnico a quello del rischio fine a se stesso, con il risultato che in montagna ci saranno forse meno eroi ma molti più ragazzi che tornano a casa.

L’avventura della arrampicata sportiva, iniziata per merito dei torinesi a Bardonecchia nel 1985, ha già assunto dimensioni internazionali di rilievo. Le gare di arrampicata sono state accettate perfino dall’UIAA che si è posta, con un apposito Comitato del quale fanno parte il CAI (in posizione di attesa) e la FASI, la Federazione che in Italia rappresenta l’arrampicata agonistica. Nel 1989 sono state organizzate dal Comitato internazionale gare di Coppa del Mondo in Europa, Russia, Stati Uniti; per il 1990 sono previste competizioni in tutti i continenti per la disputa del Campionato del Mondo e una dovrebbe svolgersi proprio a Torino sulla palestra «Guido Rossa», il primo e storico impianto per l’arrampicata indoor.

Le gare e i campionati ad alto livello sono certo importanti e un segnale della diffusione di questa nuova disciplina sportiva, ma altrettanto importanti sono quelle iniziative volte a contribuire lo sviluppo dell’educazione sportiva nei giovani, mediante una disciplina che stimoli, divertendo, il loro interesse per l’azione e l’esercizio fisico.

Questo è uno degli scopi principali della Federazione e uno dei più importanti punti di convergenza sul quale potrà svilupparsi la collaborazione con il Club Alpino Italiano e le sue sezioni nazionali AGAI e CAAI.

Andrea Mellano

Il CAI e le gare
di Carlo Crovella

Andrea Mellano, del quale qualche settimana fa ho pubblicato sul questo Blog un mio ricordo strettamente personale, ci ha lasciati nell’agosto 2024.

Mellano è importante nella storia dell’alpinismo per diversi motivi, ma sicuramente è noto a tutti per aver fatto parte di quel gruppetto che ha contribuito, nei primi anni Ottanta, all’invenzione dell’arrampicata sportiva.

Se Marco Bernardi può esser definito il “papà” dell’arrampicata sportiva, possiamo però dire che, per tale disciplina, Andrea Mellano ed Emanuele Cassarà (personaggio che non gode di adeguata considerazione storica, ma che è risultato altrettanto importante) sono stati degli “zii”, attenti e premurosi, in quanto hanno creato i presupposti ottimali perché si arrivasse alla nascita del nuovo sport.

Alla fine di quel decennio, con un articolo pubblicato nel 1989 su Scàndere (annuario del CAI Torino), Andrea delinea come, a suo parere, avrebbe potuto svilupparsi una felice convivenza fra alpinismo e arrampicata sportiva. È interessante rileggere queste considerazioni a oltre 35 anni di distanza, consci di tutto quello che è accaduto nel frattempo. Alcuni risvolti oggi ci paiono chiari, se non chiarissimi: prendere atto che, circa 35 anni fa, li si dovesse addirittura precisare ai lettori, appare davvero sconcertante.

Altre considerazioni di Mellano, invece, vertono su temi che non si sono sviluppati appieno. Per esempio il mondo del CAI, nei confronti dell’arrampicata sportiva, è sostanzialmente rimasto in una posizione “di attesa, come Andrea sottolineava già allora.

Personalmente non lo considero un difetto del CAI né un danno per l’arrampicata sportiva. Infatti io penso che sia un bene che l’arrampicata sportiva, caratterizzata dall’essere uno sport con annessa componente agonistica, sia “governata” da un’apposita Federazione, la FASI, peraltro frutto anch’essa di un’iniziativa torinese (ancora una volta con lo zampino determinante di Andrea).

L’articolo di Mellano non è incentrato sul tema specifico delle gare di arrampicata, ma, rileggendolo a distanza di così tanto tempo, ha suscitato in me alcune considerazioni che riguardano il rapporto fra il CAI e il mondo delle gare. Va però precisato che, al tempo di questo articolo, complessivamente si ragionava ancora in termini di gare su roccia naturale, mentre l’evoluzione successiva ha portato indiscutibilmente al modello di gare su strutture artificiali con prese “applicate”.

Non sono poche le differenze: un conto è competere fra individui per verificare chi riesce meglio e più in fretta a superare le difficoltà opposte dalla natura e un altro conto è, invece, muoversi su itinerari dall’essenza totalmente “artificiale”. Le prime gare della storia, disputandosi su roccia naturale, avevano ancora un collegamento sotterraneo con l’alpinismo, pur differenziandosi da esso. Il modello successivo è invece espressione di un mondo che non ha più nulla in comune con l’andar in montagna né con le sue tematiche e i suoi valori.

Questa precisazione è rilevante, ma le mie considerazioni attuali riguardano in generale il rapporto fra il CAI e le gare, a prescindere dalla natura della gare stesse.

Parto da questa considerazione di base: il CAI si occupa dell’andar in montagna per diletto, nelle sue infinite sfaccettature, ma non dell’agonismo e io troverei contraddittorio se la componente agonistica rientrasse nelle finalità del CAI. Si può pensare (come mi pare che si stia ultimamente facendo) di stringere delle collaborazioni fra CAI e istituzioni agonistiche, in particolare per coinvolgere i giovani e i giovanissimi, con la speranza di indirizzarli ad una successiva frequentazione delle montagna. Sono invece contrario a eventuali ipotesi, che sa volte sento in giro, di assorbire l’attività agonistica nel CAI, lasciando solo quest’ultimo a occuparsi delle gare e delle squadre agonistiche.

Alla stessa conclusione sono da tempo giunto per quanto riguarda il mondo dello scialpinismo: il settore delle gare con le pelli, che qualcuno chiama Skialp Race, giustamente fa riferimento alla FISI, la federazione che si è sempre occupata, per statuto, dello sviluppo agonistico degli sport invernali. Non avrebbe senso che se ne occupasse il CAI, che invece, coerentemente, ha competenza sullo scialpinismo “turistico e amatoriale” in tutti i suoi risvolti, compreso quello didattico e della formazione.

Io sono convinto dell’opportunità di questa profonda divisione dei compiti fra CAI e Federazioni agonistiche, sia sulla roccia che sulle nevi (ma anche in altri settori, come, per esempio, quelli della MTB e delle corse in montagna).

Nelle nostre frequenti chiacchierate del 2023-24, Andrea ed io non siamo mai arrivati ad analizzare il parallelismo fra “alpinismo e arrampicata sportiva (con annesse gare, NdR)”, da una parte, e, dall’altra, “scialpinismo e gare di scialpinismo” (attività quest’ultima che io sostengo dovrebbe perdere ogni collegamento con il termine “scialpinismo”).

Non so dire, quindi, cosa mi avrebbe risposto Mellano circa il mio pregiudizio sulle gare di scialpinismo: magari Andrea mi avrebbe bollato come uno di quei “sacri custodi delle reliquie alpinistiche” che, con tipica ironia torinese, egli stigmatizza, in riferimento all’arrampicata, nell’articolo del 1989.

Conoscendolo, se ad Andrea fosse passata per la mente una battuta del genere, di sicuro non se ne sarebbe stato zitto.

Sta di fatto che io resto convinto che sia meglio che il CAI resti alla larga dal mondo delle gare, in tutte le versioni.

Alpinismo e arrampicata sportiva: una convivenza possibile ultima modifica: 2025-03-24T05:23:00+01:00 da GognaBlog

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40 pensieri su “Alpinismo e arrampicata sportiva: una convivenza possibile”

  1. Beh , ritengo che mi sia chiara la differenza ,  ma l’eliminazione del rischio e la “spotlight” su quel movimento , quella difficoltà  etc. , è arrivata dopo un periodo di “vale tudo” , dove “resting”  , mungiture alle coppie , piedi sullo spit , mezzi azzeramenti ed altre amenità , non costituivano motivi di grave biasimo.Adesso , nei limiti delle mie capacità e del tempo a disposizione , cerco di fare il passaggio nel modo corretto.

  2. Le prime sono un po’ delle aberrazioni…delle forzature….gli altri sono termini con significati logici e precisi. Spero ti sia chiara la differenza 

  3. @37
    .
    .
    Nel mio piccolo ,la visione “sportiva” dell’arrampicata mi ha portato a considerazioni che prima sembravano “senza senso” : quali appoggi ed appigli ho usato ?
    Sono passato esattamente sulla linea delle protezioni ?
    Rotpunkt ?
    Lavorato ?
    Moulinette ?
    .
    .
    C’è stato un periodo in cui queste finezze non esistevano…

  4. Due considerazioni.
    La prima: gli alpinisti “tradizionali” che videro la nascita dell’arrampicata sportiva, spesso si rinchiusero a guscio in modo iperdifensivo perchè, più o meno inconsciamente, capirono che stava per arrivare una ondata di gente che scalava o avrebbe scalato molto meglio di loro. Perchè quello che ha portato innanzitutto l’arrampicata sportiva è una migliore preparazione tecnica sul gesto ed atletica e di conseguenza essere in grado di scalare su difficoltà maggiori, molto maggiori. E che questa cosa sarebbe accaduta non solo sulle pareti di bassa valle ma anche poi in montagna lo si poteva intuire da subito e per questo molti si chiusero a riccio per cercare di difendere un primato che, se mai lo avevano avuto, di certo lo stavano per perdere. 
    La seconda: arrampicata sportiva non è arrampicata di gare. Il termine sportivo come sappiamo indica il fatto che le protezioni sono già messe (spit, fittoni), non sono amovibili (friend ecc.). E’ una pratica in cui la componente psicologica esiste visto che la chiodatura delle vie deve (dovrebbe) evitare la caduta a terra, ma non necessariamente le vie devono essere chiodate a metro (vedi per esempio La Loubiere, Ceuse ecc..). Le gare sono altra cosa, sono state altra cosa. Personalmente ho fatto con grandissimo piacere arrampicata sportiva e non mi è mai passato per la testa di fare una gara. La sfida e la competizione è con la via. Le gare sono altro. E oggi sono ancora altro visto che la diversificazione delle competizioni, cosi come la tipologia dei movimenti sulla plastica, portano l’attuale arrampicata indoor – soprattutto il boulder – ad essere quasi “un altro sport” rispetto all’arrampicata sportiva in falesia. 
    Quindi bell’articolo, ma come ha detto qualcuno, dal punto di vista storico. Oggi porsi il problema della convivenza di cui al titolo è del tutto privo di senso. E’ come dire se la formula uno può convivere con la parigi dakar.

  5. @34: personalmente quell’affermazione non l’ho mai sentita. E in ogni caso il tempo ha dato ragione alla visione di Mellano (e conseguente commento 4).

  6. Si Luciano però tra quelli che fanno il 9b 9b +  in falesia e fanno le gare quanti ne puoi contare a parte Schubert.
    Perfecto mundo , jumbo love, la Dura dura ? Dimmi a parte Schubert quanti garisti le hanno ripetute…..
    Il mio punto è il seguente ….il mondo delle gare soprattutto nel boulder è anni luce lontano dalle competenze motorie che servono per scalare su roccia. Detto questo sicuramente gli atleti di oggi saranno se lo vorranno convertire su roccia preparatissimi a livello atletico.
    La mia è una analisi senza giudizio morale semplicemente sul gesto. Ma sono anche disposto a cambiare idea. Grazie ciao

  7. Mastronzo, riassumo nel seguito la mia opinione (e poi chiudo, perché alla fin fine chi vuole capire capisce…):
    1) Se si vuole fare alpinismo e arrampicare in montagna, si è liberi di farlo.
    2) Se si vuole arrampicare sulla plastica in palestra, si è liberi di farlo.
    3) Si tratta di due attività distinte. In un altro campo, quello della navigazione a vela, c’è chi attraversa un oceano, magari in solitudine, e chi corre una regata in una baia attrezzata allo scopo, con tanto di classifica finale. Ripeto: attività  differenti.
    4) Ciò che critico sono le esternazioni del tipo: “Chi non arrampica sulla plastica è rimasto indietro. È un caiano. È un vecio scarpún”. E non dirmi che non l’hai mai sentito…
     

  8. Bertoncelli #32: al commento #4 non leggo alcuna critica verso “chi preferisce l’alpinismo o l’arrampicata libera, in ambiente naturale, all’arrampicata su plastica in palestra” (per usare le tue parole al #5).
    Semmai ci leggo una critica verso lo “stopposo ambiente alpinistico” e al generico e stereotipato “caiano medio”.

  9. @ 31
    “[…] non vedo dove sarebbero queste presunte critiche […]”
     
    Prova a leggere, per esempio, il commento 4, al quale è seguita la mia osservazione (5). 

  10. Bertoncelli:

    a nessuno passa per l’anticamera del cervello di criticare chi attraversa a nuoto lo Stretto di Messina a velocità inferiore a quella realizzata da altri nei cento metri in piscina olimpionica.

    A parte che personalmente non vedo dove sarebbero queste presunte critiche, allo stesso modo a nessuno dovrebbe passare per l’anticamera del cervello di dire a chi nuota in piscina: “Sì, vai forte, ma in mare poi? Con le onde la velocità cala, eccome se cala!” (vedere #27).
     
    Comunque sono discorsi stantii, ampiamente superati dalla realtà.
    L’articolo proposto ha valore solo come documento storico, in quanto è lampante come la convivenza fra arrampicata sportiva, arrampicata agonistica, alpinismo, ecc. sia non solo possibile, ma realizzata.
    Honnold, per dirne uno già citato, viene dalla plastica.

  11. @25. Probabilmente a te i nomi nuovi dell’arrampicata, quelli che tu chiami atleti, non dicono nulla, ma sono tutti ragazzi che su roccia fanno almeno il 9a. Lo sconosciuto (fino ad allora) vincitore delle olimpiadi, il 19enne Toby Roberts è impegnato su Perfecto Mundo, 9b+ che provava lo scorso autunno. La Rogora scala sul 9b, la 17enne Anastasia Sanders ha salito da poco un 8c+, la coreana  Seo Chae-hyun ha un livello di 9a+, la Garnbret non ha bisogno di presentazioni (l’ho vista scalare varie volte nelle falesie slovene, quando le frequentavo) e potrei andare avanti con tutti i nomi di quelli che sono al top del ranking IFSC. Ad alti livelli credo che il sogno di tutti sia ancora quello di cimentarsi con le vie iconiche dai gradi altisonanti, non solo quello di vincere qualche gara di livello internazionale.

  12. @ 26
    Sí. Aggiungo inoltre che a nessuno passa per l’anticamera del cervello di criticare chi attraversa a nuoto lo Stretto di Messina a velocità inferiore a quella realizzata da altri nei cento metri in piscina olimpionica.
     

  13. Per quanto riguarda il nuoto però il gesto è lo stesso….se nuoti in mare o in vasca ….qui invece si parla di gesti completamente nuovi che non hanno un equivalente su roccia. poi altro tema la gente che scala solo in palestra direi che non c’è nulla di male il famoso fitness verticale.  Il mio punto era quanto le attività motorie( indoor vs outdor) siano divergenti . poi per il resto mi sembra ci sia un po’ di confusione sull’argomento……
     
     

  14. Io forse sono di vecchia scuola si arrampicava in palestra solo per allenarsi per le vie in parete Oggi palestra gradi alti ma in parete poi? Senza sicurezza vicina in parete poi i gradi calano e come calano

  15. L unica attività ludica e non che mi viene a paragone è il nuoto…nato sicuramente in laghi fiumi e mari ora ha una parte sportiva considerevole in piscine coperte. Prima natura ora artifizio e competizione.
    Nessuno si sconvolge per questo.
    Per l arrampicata su pannelli e resine metto da  parte i miei gusti personali che poco interessano c’è d aggiungere una componente di business molto forte e questa si è in competizione con la” vecchia “maniera di andar per crode. 
    A partire dalle strutture nate dal nulla ,passando per materiali e accessori fino a bar e ristorazione mi sembra ragionevole che sia la solita vecchia storia$$$.
    Ne tutta giusta ne tutta sbagliata. 

  16. Indubbiamente quello che si chiama Competition style nel boulder impone movimenti specifici che non si trovano pratica mai su roccia. Evidentemente hanno puntato proprio sulla.spettacolarizzazione della gara. Sulla lead diciamo che non è ancora così marcata la differenza con la roccia mancinismo vicini. Per quanto riguarda gli atleti permettimi di non essere d’accordo. I Top rock  climber ( ondra , megos ,buin, Sharma, rullodiaz,ghisolfi,  tranne Schubert non le fanno quasi più le gare e se le fanno arrivano dietro agli atleti. In campo femminile praticamente sovrapponibile ……

  17. @ 23 👍 
     
    @ 21
    .
    .
    Non volevo dire che i solitari o gli alpinisti estremi siano “sbagliati” , forse la mia è la valutazione di un mediocre.
    Certamente , prima di fare solitarie sul mio limite, come fa Honnold ci penserei una trentina di anni.
    .
    .
    @ 22
    .
    .
    Io trovo che la specializzazione si stia estremizzando : anche io come Benassi , trovo noiose le palestre al chiuso, ma ho la sensazione che presto i  lead climber e i boulderisti avranno pochi punti di contatto, ed i rock climber non ne avranno più nessuno con i primi due.
    .
    .
    Non so se vi è mai capitato di sentirvi “Out” a sentire parlare ragazzi tecnicamente fortissimi di stronzate , tipo “questa la faccio da due” , scoprire che magari hanno difficoltà ad armare una doppia o a fare un nodo diverso dai soliti, ma sul loro terreno , sono spaziali.

  18. @15 Non trovo che il divario tra le competizioni e la roccia sia “sempre più grande”. Le vie della categoria lead non sono molto differenti da quelle di 20 anni fa e i partecipanti alle gare poi sono gli stessi che fanno i 9b sulla roccia. Trovo cambiati invece i boulder, che si avvicinano sempre di più a degli spettacoli circensi. Quindi non mi è chiaro in che cosa consista la maggior differenza rispetto al passato.

  19. Si ma io ti ho fatto una domada . Visto che il solitario si è sbagliato. A quello in cordata cosa gli diciamo?
    Che si è sbagliato anche lui?
     

  20. 😅 
    Ma è OVVIO che i morti in cordata siamo più dei solitari 😂 !
    .
    .
    La base dei praticanti in cordata è mille volte quella dei soloist.
    E’ un po’ come prendere i piloti di moto che muoiono ogni anno in gare pazze come il Tourist Trophy dell’isola di Man e concludere che ci sono più morti fra i ciclisti amatoriali…🙈

  21. ….che, sicuramente, quelli in cordata , sono anche più dei solitari…

  22. Vogliamo dire che se quasi tutti i solitari hanno visto prematuramente l’erba dalla parte sbagliata, può essere che abbiano sistematicamente sbagliato le loro valutazioni, e che era meglio che si trovassero un socio di cordata.

    E a quelli che sono morti in cordata che gli vogliamo dire?

  23. Quanti solitari sono caduti?Vogliamo fare una lista?Quindi cosa vogliamo dire.  ?
    .
    .
    Vogliamo dire che se quasi tutti i solitari hanno visto prematuramente l’erba dalla parte sbagliata, può essere che abbiano sistematicamente sbagliato le loro valutazioni, e che era meglio che si trovassero un socio di cordata. 

  24. Ma infatti.basta polemiche. spostiamo l’attenzione sul presente. Che ne pensate del divario sempre più grande tra il mondo delle competizioni e il mondo dell’arrampicata sportiva su roccia?

    Non sono un esperto, quindi non posso dire molto. Personalmente di tirare prese di resina non me ne frega nulla. L’ho fatto ma molto di ripiego e mi sono reso conto che andarmi a rinchiudere in una stanza polverosa per tirare prese artificiali non fa per me. E quindi, con tutto il rispetto, ma delle gare non me ne frega nulla. Per quello che ho visto le trovo anche piuttosto noise.
     
     
     

  25. Ma infatti.basta polemiche. spostiamo l’attenzione sul presente. Che ne pensate del divario sempre più grande tra il mondo delle competizioni e il mondo dell’arrampicata sportiva su roccia?

  26. Gian Carlo Grassi e Gianni Comino, i due che hai menzionato, del resto, non sono morti di malattia , ne di suicidio, ma hanno consapevolmente accettato rischi sempre più alti , fino a che la natura ha fatto il suo corso.

    Non ho citato solo loro. E ho premesso che l’alpinismo E’ pericoloso.
    Ma pericoloso non vuol, dire eroico.
    Fare questo paragone è solo per fare polemica.

  27. E se domani Honnold cadesse , cosa diremmo ?

    Quanti solitari sono caduti?
    Vogliamo fare una lista?
    Quindi cosa vogliamo dire.
     

  28. Beh , in alpinismo non c’è il rischio “fine a se stesso” , ma sicuramente c’è l’accettazione di un rischio che l’AS semplicemente elimina.
    .
    Gian Carlo Grassi e Gianni Comino, i due che hai menzionato, del resto, non sono morti di malattia , ne di suicidio, ma hanno consapevolmente accettato rischi sempre più alti , fino a che la natura ha fatto il suo corso.
    .
    .
    Dopo essere diventato il primo uomo a salire by fair means tutti i quattordici ottomila, Reinhold Messner scriveva :”Sopravvissuto” , perché uscirne vivo era una lotteria.
    .
    .
    E se domani Honnold cadesse , cosa diremmo ?

  29. A mon avis, l’alpinisme et l’escalade sportive qui sont deux activités aux antipodes, ont tout de même un point commun : le plaisir de grimper !

  30. Attraverso l’esperienza della arrampicata intesa come sport e gioco, i giovani possono giungere anche all’alpinismo con una mentalità e un concetto della sicurezza che privilegia l’aspetto sportivo e tecnico a quello del rischio fine a se stesso, con il risultato che in montagna ci saranno forse meno eroi ma molti più ragazzi che tornano a casa.

    Non credo che in alpinismo il rischio sia fine a se stesso. Un affermazione del genere NON è onesta. Certo che l’alpinismo è rischioso, ma il rischio, è calcolato, altrimenti non avrebbe senso prepararsi tecnicamente e fisicamente. Non avrebbe senso studiarsi una carta, la parete, una relazione tecnica. Gli incidenti comunque accadono, ma non  avvengano perchè ci si  vuole suicidare, avvengono perchè si sbaglia e perchè la montagna è un luogo pericoloso. E non credo che se diventa più sportivo e meno classico, come si augurava Mellano gli incidenti sarebbero diminuti. Gli eroi poi con l’alpinismo non hanno nulla  a che fare. Sicuramente c’è stato un momento storico in cui l’alpinismo era definito eroico, ma certamente NON nel 1985,  di alpinismo eroico non se ne parlava più , era roba degli anni 30 e anche prima.
    Negli anni 80 c’era gente come Comino e Grassi che salivano i seracchi della Poire. Quindi un alpinismo molto pericoloso. Eppure non credo che Comino e Grassi praticassero un alpinismo “eroico” , avventuroso si, pericoloso si, ma non eroico.
    Non mi sembra che gente come G.P. Motti, Manera, Kosterlitz, poi Bonelli, Galante, Masa, Merizzi, Guerrini, pur rischiando, negli anni 80 abbiano praticato un alpinismo eroico. Non credo che i Sassisti della val di Mello rifiutando lo spit, abbiano praticato un alpinsmo eroico.
    Come sempre si cerca sempre di fare di tutta un erba un fascio, cercando di portare sempre l’acqua al proprio mulino. Con tutto il rispetto per Mellano ma qui non mi sembra sia stato oggettivo.

  31. @5

    A voler leggere tra le righe la storia dell’alpinismo, però, non risulta poi tanto vero che gli alpinisti siano tutti dei candidi angioletti non competitivi. La sempre conclamata mancanza di agonismo nell’alpinismo è una falsità bella e buona; certo, la variabilità delle situazioni ambientali e le condizioni del terreno rendono difficile la competizione diretta (ma eccezioni non tanto rare si sono verificate nel corso della «conquista» delle montagne e delle «vie nuove»), ciò non toglie che un fiero spirito agonistico abbia animato i protagonisti delle imprese di ogni epoca.

    Sao scrivere, è già qualcosa, quando imparerai a leggere sarai al top

  32. 6@Expo:
    La bontà del vino non necessariamente è data dal grado°
    Ciao

  33. Faccio una premessa : amo stare nella natura , e in montagna sono uno di quelli che andranno avanti a fare cose facili per il piacere di stare lì e sentirmi vivo…Non sono , ne sono mai stato un’ aquila ad arrampicare , e non sono mai stato pervaso da grande indole agonistica : più che mettermi un pettorale e battere Carlo e Gigetto , mi interessa battere me stesso..
    .Ciò detto , riconosco grande buon senso in ciò che dice l’autore Mellano :“Il concetto sportivo della ripetizione del tentativo per il superamento delle difficoltà ha imposto norme precise per l’incolumità dei praticanti. La prima regola, quindi, per l’arrampicata sportiva è la garanzia della sicurezza nel corso della azione. La gratificazione è data dal risultato raggiunto grazie all’abilità e alla preparazione e non al coraggio e allo sprezzo del pericolo dimostrati.”.
    .
    L’AS ha “emancipato” l’alpinismo dalla morte e dal grave rischio , e qualcuno come me ancora non lo ha capito , perchè ancora annaspo quando ho paura di volare.L’AS ha “razionalizzato”, perfezionato e schematizzato tutta una serie di movimenti , procedure , allenamenti , epurando il movimento dal rischio , e fanno delle cose incredibili..
    .
    Ovvio che l’alpinismo esiste ancora , ed è bellissimo , ma è evidentemente un’altra cosa.

  34. @ 4
    L’imbarazzo dovrebbe essere tutto tuo, che ti permetti di pontificare in modo negativo su chi preferisce l’alpinismo o l’arrampicata libera, in ambiente naturale, all’arrampicata su plastica in palestra. 

  35. Mellano, angustiato dallo stopposo ambiente alpinistico, ha guardato avanti, per il caiano medio, troppo avanti.
    A Torino l’ultimo che ha detto qualcosa di nuovo. Gli altri sbarcano ancora il lunario con il nuovo mattino: imbarazzanti.
     

  36. Nessun alpinista è stato maltrattato ne vivisezionato nel raggiungere gli odierni spazi A.S.in atto.
    Tantomeno per osservare da vicino il presunto sacro Graal.

  37. Indubbiamente il mondo delle competizioni si è quasi completamente reso indipendente dall’ arrampicata sportiva su roccia( vedi cosa dicono Sharma,ondra,megos)…questo non significa che un atleta da podio oggi non diventi un top rock climber domani…ma fintanto che compete su resina si deve dedicare solo a quello se vuole avere più chance …..per esperienza personale durante il COVID per continuare a scalare facemmo in modo di risultare atleti e per curiosità io e il mio socio di scalata facemmo anche una gare. Arrivammo ultimi. All’epoca scalavano sull8b……glia litri ragazzi non. Scalavano… Sad but the true….per quanto riguarda il CAI vedo che la situazione è molto a macchia di leopardo…alcune sezioni sono molto attive e dedicate con corsi di arrampicata sportiva …altre sezioni con istruttori un po’ nostalgici fanno ancora confusione …..e poi chiaramente mancano figure professionali dedicate…a qui su entra in temi spinosi….a cui sinceramente non ho interesse…..

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