L’alpinismo extraeuropeo – 3

L’alpinismo extraeuropeo – 3
di Gian Piero Motti (pubblicato in La storia dell’alpinismo) (GPM-SdA-42)

Il Fitz Roy, un castello di granito incrostato di ghiaccio
II Fitz Roy è una montagna superba e fantastica e già Ettore Castiglioni durante un contatto esplorativo prima della Seconda guerra mondiale ne aveva studiato una via di salita. La vetta fu raggiunta nel 1951 da una spedizione francese e furono Lionel Terray e Guido Magnone a riuscire nell’impresa finale. La scalata va considerata come una delle più straordinarie imprese dell’alpinismo di tutti i tempi, non solo per le fortissime difficoltà superate in arrampicata libera ed artificiale, degne della parete ovest del Petit Dru, ma soprattutto perché fu la prima volta che due alpinisti si trovavano di fronte a problemi di tale portata. Terray e Magnone dettero prova di un coraggio grandissimo e di una tenacia senza pari. Inoltre aprirono la strada alle spedizioni successive, le quali poi poterono guardare con occhio diverso ai problemi ancora insoluti. Va ricordato che durante la marcia d’approccio di questa spedizione, morì l’alpinista francese Jacques Poincenot, travolto dai flutti mentre attraversava un torrente impetuoso. Al suo nome fu appunto dedicata una delle affilatissime guglie che fanno da satelliti al Fitz Roy.

Fitz Roy

Il Fitz Roy è stato ancora salito lungo versanti diversi: nel 1965 i due argentini José Luis Fonrouge e Carlos Comesaña salirono il cosiddetto Supercouloir (in realtà Supercanaleta, NdR) in stile alpino, realizzando un’impresa di notevole ardimento. Il grande colatoio costituisce certamente la via più logica e facile di salita, ma data la pericolosità richiede una tattica particolare di salita: ottima scelta delle condizioni e velocità. Ed è appunto ciò che i due argentini seppero fare a perfezione. Altre vie furono aperte sui fianchi del Fitz Roy: una nel 1968 da una spedizione californiana guidata da Yvon Chouinard, tecnicamente un po’ più difficile della via originale e con decorso parallelo a quest’ultima ed un’altra nel 1972 che vinse il pilastro sud, realizzata da una spedizione angloamericana.

   Comunque, dal punto di vista tecnico, la più grande impresa realizzata sul Fitz Roy è la prima salita del formidabile pilastro est, certamente la più bella parete rocciosa del globo. Alto 1600 metri, tutto di granito rosso e compatto, è caratterizzato da un immenso diedro verticale che praticamente si innalza dalla base alla vetta. Al pilastro vi sono stati tentativi da parte di spedizioni di ogni nazionalità. Dapprima fu una spedizione marsigliese guidata da François Guillot ad innalzarsi per un buon tratto, ma poi dovette desistere per il cattivo tempo. Poi due spedizioni italiane, una monzese ed un’altra guidata da Armando Aste, non ebbero fortuna migliore. Infine fu una spedizione svizzera a portarsi fin quasi in vetta, lasciando attrezzata tutta la via di salita. Fu infine nel febbraio 1976 una spedizione italiana dei Ragni di Lecco guidata da Casimiro Ferrari a raggiungere la vetta: anche se gli italiani hanno potuto usufruire del materiale lasciato in parete dagli svizzeri (ai quali va attribuita una giusta parte di merito), la loro impresa si colloca comunque tra le maggiori realizzazioni alpinistiche di ogni tempo.

Percorrendo le date della storia alpinistica del Gruppo del Fitz Roy, nel 1962 dobbiamo segnalare la prima salita della Aiguille Poincenot 3040 m realizzata da Don Whillans e Frank Cochrane. Importante anche la prima salita della Aguja Saint Exupéry 2680 m realizzata nel febbraio 1968 da una spedizione italiana composta da alpinisti triestini: Gino Buscaini, Silvia Metzeltin, Lino Candot, Silvano Pirigoi e Walter Romano.

Cerro Torre

Il Cerro Torre, la vetta più bella e terribile
Ma la vetta più celebre della Patagonia è certamente il Cerro Torre. Posto più a sud del Fitz Roy, sul bordo destro dello Hielo Continental, il Cerro Torre si presenta come una guglia affilatissima, una superba costruzione granitica caratterizzata da un enorme «fungo» di ghiaccio e di neve che ne costituisce la vetta. Il Torre è una montagna incredibile, sembra quasi uscita da una fiaba e da un racconto per bambini, dove si narra di castelli di cristallo dalle torri arditissime che salgono a toccare il cielo. Ma per la sua particolare posizione il Cerro Torre è una montagna terribile, costantemente battuta dai venti del Pacifico e dalle bufere di neve. Da molti alpinisti fu definito impossibile da ogni versante. Fiancheggiato da due satelliti che gli sono pari in bellezza e difficoltà (il Cerro Adele e la Torre Egger), il Gruppo del Torre forse rappresenta ciò che di più arduo e difficile esiste alpinisticamente sul globo intero. E certamente è anche la rappresentazione estetica più affascinante ed irreale.

I primi tentativi furono condotti dagli italiani. Nel 1957 due spedizioni, una guidata da Walter Bonatti e Carlo Mauri e l’altra da Cesare Maestri e dall’italiano (stabilitosi in Argentina) Cesarino Fava, operarono su due opposti versanti della montagna. Furono soprattutto Bonatti e Mauri ad innalzarsi parecchio sul versante occidentale, caratterizzato da straordinarie costruzioni di ghiaccio che aderiscono per il gelo alle placche granitiche sottostanti. Essi raggiunsero un colle, detto poi «della Speranza», ma dovettero ritirarsi di fronte alla parete terminale, essendo privi di materiale adatto e non avendo a disposizione le corde necessarie per un assalto condotto a balzi successivi, l’unico modo che poteva dare qualche garanzia di successo.

Nel 1959 Cesare Maestri, per il quale il Cerro Torre rappresenterà una vera e propria ossessione, ritorna alla base della montagna con il fortissimo alpinista austriaco Toni Egger. Essi ritornano all’attacco sul versante est e si innalzano con l’aiuto di Cesarino Fava in un grande diedro posto a sinistra del Colle della Conquista che separa il Torre dalla Torre Egger.

Secondo il racconto di Maestri, la vetta fu raggiunta il 30 gennaio da lui ed Egger, dopo soli due giorni di salita dal Colle della Conquista. Le difficoltà superate furono enormi e più volte si dovettero usare i chiodi ad espansione per assicurarsi. Sempre secondo il resoconto di Maestri durante la discesa, tutta compiuta a corda doppia su chiodi ad espansione, Toni Egger fu travolto da una valanga e precipitò alla base della parete, senza essere poi rinvenuto dai compagni (i resti del suo corpo recentemente sono stati ritrovati da una spedizione alpinistica). Lo stesso Maestri fu trovato poi in stato di semi-incoscienza da Cesarino Fava all’attacco della parete.

Non vi sono purtroppo prove che possano documentare la reale effettuazione di quest’impresa e molti dubbi sono stati sollevati dagli alpinisti al proposito. Ci si chiede se i due effettivamente giunsero in vetta. Osservando attentamente la parete che si alza dal Colle della Conquista, pare impossibile che essa sia stata vinta in soli due giorni d’arrampicata. Non esistono fotografie che possano documentare la salita ed anche il racconto di Maestri si è rivelato più volte confuso e lacunoso nella narrazione della fase finale della salita. È tutta una faccenda piuttosto amara ed anche un po’ triste. Maestri si è sempre sentito profondamente toccato dalle insinuazioni mossegli contro. D’altronde nessuno impedisce agli altri di dubitare. Spiace piuttosto che Maestri abbia ceduto alle provocazioni e sia ritornato al Torre armato di perforatore meccanico per dimostrarne la scalabilità e per dichiarare a tutti di essere il più forte. È un peccato. In tal modo si è posto sullo stesso piano degli accusatori più maligni e non ha certo dimostrato di aver compiuto la prima salita della montagna, in quanto la seconda salita si è svolta lungo un’altra via e con ben altri mezzi tecnici! Per ora nessuna spedizione ha ripreso la via di Maestri ed Egger: solo quando ciò sarà compiuto, ogni dubbio in proposito probabilmente potrà essere fugato definitivamente (1).

Comunque negli anni successivi il Torre fu tentato più volte lungo differenti versanti, ma senza successo.

Importante fu il tentativo inglese del 1968 (Mick Burke, Dougal Haston, Peter Crew e Martin Boysen): il fortissimo gruppo di alpinisti cercò di aprire una nuova via lungo la cresta sud est del Torre, ma dopo seicento metri di durissima arrampicata essi dovettero desistere per il maltempo. Da segnalare anche il tentativo della spedizione italiana dei Ragni di Lecco guidata da Carlo Mauri nel 1970. Fu ripreso il tentativo di Bonatti e Mauri arrestatosi al Colle della Speranza, ma anche questa volta gli alpinisti non riuscirono a raggiungere la vetta. Ancora nel luglio 1970 (inverno patagonico) è di scena Cesare Maestri con una spedizione trentina diretta alla vergine Torre Egger. Sul posto vengono mutati i programmi e Maestri attacca nuovamente il Torre lungo lo spigolo sud est, già tentato dagli inglesi, alzandosi di poco oltre il limite raggiunto da essi. Cinque mesi più tardi Maestri ritorna ancora al Torre con una spedizione trentina, armato di un compressore meccanico alimentato da un motore a scoppio del peso di 60 chili! Maestri, praticando in tal modo innumerevoli fori nella liscia roccia granitica, riesce a raggiungere la vetta del Torre e a percorrere la via dello spigolo sud est con Ezio Alimenta e Carlo Claus.

Come è facile immaginare, la salita suscitò una comune eco di disapprovazione e critiche a non finire sui metodi impiegati. Nessuno voleva negare il valore di Maestri e dei suoi compagni e neanche gli sforzi bestiali e la fatica necessaria per innalzare il compressore lungo la parete. Ma era sul metodo stesso che le critiche venivano mosse. Comunque, come sempre, la questione di per sé è del tutto inutile: la scalata di Maestri resta soltanto la scalata di Maestri. Chi vorrà percorrere la stessa via con altri mezzi, ha strada aperta e potrà anche distruggere i chiodi ad espansione se questi si rivelassero inutili o superflui, come più volte sono apparsi agli alpinisti di una spedizione anglo-svizzera che ne ha tentato la ripetizione.

In stile differente e con mezzi del tutto tradizionali è stata invece la prima salita del versante ovest del Torre realizzata nel gennaio 1973 ancora dai Ragni di Lecco guidati da Casimiro Ferrari.

Il gruppo lecchese ha ripreso ancora il tentativo di Bonatti e Mauri e dal Colle della Speranza si è alzato direttamente lungo la verticale e strapiombante parete ovest, tutta incrostata di ghiaccio poroso, superando difficoltà di ordine veramente estremo. La spedizione dei Ragni ha dunque dimostrato che il Torre può essere salito in stile elegante, senza ricorrere a chiodi ad espansione. In questo senso l’impresa dei lecchesi è stata veramente magnifica ed è stata lodata da tutti gli ambienti alpinistici internazionali, che unanimemente ne hanno riconosciuto il grandissimo valore. La via è stata ripetuta nel 1976 per la prima volta da John Bragg, Jay Wilson e Dave Carman.

Molto importante anche la prima salita della Torre Egger, realizzata nel 1975 dagli americani John Bragg, Jay Wilson e Jim Donini. Certamente dal punto di vista tecnico quest’impresa va ricordata come una delle più difficili (se non la più difficile) di quelle realizzate in Patagonia, almeno nel Gruppo del Torre e del Fitz Roy. Le incrostazioni di ghiaccio hanno reso questa salita particolarmente ardua e severa e, va ricordato che i primi salitori non hanno fatto uso di chiodi ad espansione. Impresa di valore analogo, anche se leggermente inferiore, è stata nel 1976 la conquista del Cerro Standhardt (John Whittle e Brian Hall), l’ultima vetta importante del gruppo a non essere ancora stata scalata.

Ora probabilmente gli alpinisti rivolgeranno le loro attenzioni alla fantastica parete est del Cerro Torre, alta più di 2000 metri ed ancora inscalata (2). Comunque in Patagonia ancora molto resta da fare.

Torri del Paine

Le Torri del Paine, tre gigantesche «Cime di Lavaredo»
Un’altra meraviglia della Patagonia è il Gruppo delle Torri del Paine. Come tre gigantesche Cime di Lavaredo, le tre Torri del Paine si ergono di scatto in un settore pianeggiante ed abbastanza più clemente dal punto di vista meteorologico di quello del Fitz Roy. Di saldissima roccia granitica, il Gruppo del Paine è uno di quei paradisi dell’arrampicata che gli alpinisti sognano sempre nella loro vita. Anche qui le proporzioni sono immense: pareti e spigoli raggiungono sovente i 1000 ed anche i 1500 metri d’altezza!

I grandi problemi del Gruppo del Paine sono stati risolti da spedizioni italiane e britanniche, a partire dal 1957 fino ad oggi, ma restano ancora grandi problemi insoluti. Ora il gruppo è sovente visitato anche da spedizioni americane e giapponesi e non vanno dimenticati gli alpinisti locali argentini, i quali hanno costituito un nucleo di arrampicatori molto abili e preparati su ogni terreno. Anche se la posizione del Paine è leggermente migliore di quella del Torre e del Fitz Roy, tuttavia anche qui il vento impetuoso e le bufere rabbiose rendono la vita piuttosto dura alle spedizioni che operano su queste formidabili pareti di granito.

Volendo ricordare qualche data importante nella storia alpinistica del Paine, troviamo nel 1957-58 una spedizione italiana diretta da Guido Monzino e composta prevalentemente da guide valdostane. Fu vinta la Torre nord del Paine lungo un itinerario misto abbastanza impegnativo. Ma per giungere alle vittorie sulle grandi pareti di roccia dobbiamo arrivare al 1963, anno in cui nella zona operarono due spedizioni: una inglese, guidata dai «soliti» Don Whillans e Chris Bonington, e l’altra italiana, composta da alpinisti di notevole valore, come Armando Aste, Vasco Taldo, Josve Aiazzi, Nando Nusdeo. Fu vinta la Torre Centrale 2628 m lungo un itinerario di difficoltà estrema, con grande ricorso all’impiego dei chiodi e dei cunei di legno. Inizialmente vi fu un po’ di dissapore tra i due gruppi, ma poi al termine dell’impresa le cordate agirono in amicizia, anche se i primi a giungere in vetta furono gli inglesi. Durante tutta la spedizione il tempo fu pessimo, se si pensa che il gruppo inglese dovette restare per ben sei settimane bloccato nelle tende del campo base in attesa del bel tempo!

Molto importante è stata nel 1968 la prima salita della Fortezza 2820 m, la struttura più poderosa ed imponente di tutto il gruppo, realizzata da John Gregory, Gordon Hibber e Dave Nicol. La scalata fu di difficoltà estrema in arrampicata libera ed artificiale e fu ostacolata non poco dal vento e dal maltempo. Anche nel 1968 fu vinto lo Scudo da una spedizione italiana, guidata dai bergamaschi Mario Curnis e Mario Dotti.

Nel 1970-71 una spedizione inglese ha vinto il Cathedral Peak lungo un itinerario molto difficile (V e V+, A2). Infine nel 1974 è stata vinta la fantastica parete est della Torre Centrale da una spedizione sudafricana, composta da Paul Fatti, Mike Scott, Roger Fuggle, Art McGarr, Mervyn Pior e Richard Smithers.

Ancora più a sud, oltre lo stretto di Magellano, troviamo la Terra del Fuoco, certamente una delle regioni più affascinanti di tutto il globo, anche se il clima in questa regione non è certo dei migliori. Ormai nel regno dei ghiacci che si inabissano nelle scure acque dell’oceano, troviamo ancora molte vette alte intorno ai 2000 metri, la cui salita presenta difficoltà enormi, date le masse di neve instabili riportate dal vento e dalle bufere pressoché costanti. Tuttavia alcune spedizioni hanno operato in questa regione, incontrando però difficoltà ancora superiori a quelle della zona del Torre e del Fitz Roy.

Nel 1955-56 una spedizione italiana diretta da padre Alberto M. De Agostini e composta da Carlo Mauri, Clemente Maffei, Luigi Barmasse e Camillo Pellissier conquista il difficilissimo Monte Sarmiento 2404 m, più volte tentato anche da altre spedizioni. Nel 1966 un’altra spedizione italiana guidata da Carlo Mauri opera nella Terra del Fuoco e conquista il Monte Buckland 1600 m: a fianco di Mauri troviamo Giuseppe Pirovano, Guido Machetto, Casimiro Ferrari, Cesare Giudici, Luigi Alippi. Come già si è detto non ci si lasci ingannare dalle basse quote di queste montagne. A parte le condizioni meteorologiche ed ambientali che rendono la salita dura tanto quanto un’impresa himalayana, non si dimentichi che i dislivelli sono notevoli, in quanto le pareti si alzano da quote bassissime, quasi al livello del mare, come accade anche per le montagne dell’Antartide.

Nord America
La lunga catena delle Montagne Rocciose, come nel Sudamerica la Cordillera Andina, si snoda con decorso parallelo alla costa del Pacifico per tutta la lunghezza del continente nordamericano. Nei territori più a nord troviamo le gigantesche montagne dell’Alaska, immensi colossi di ghiaccio, che culminano nelle due vette del Mount McKinley (Denali) 6178 m e del Monte Sant’Elia 5498 m. Gli immensi ghiacciai, le solitudini quasi polari, i grandi dislivelli delle pareti di ghiaccio e delle creste innevate, le difficoltà d’approccio rilevanti, hanno sempre attratto gli alpinisti verso le regioni montuose dell’Alaska, anche se le imprese sovente costituiscono un durissimo banco di prova per alpinisti di provata esperienza. Tuttavia l’Alaska costituisce un immenso terreno d’azione per l’alpinista desideroso di avventure veramente complete. Oggi il mezzo aereo ha notevolmente facilitato l’approccio alla base delle pareti e molte imprese hanno potuto essere compiute servendosi appunto di tal mezzo. Vengono così eliminate le lunghissime e faticose marce d’approccio lungo le valli glaciali e il corso dei ghiacciai stessi.

Mount McKinley (Denali)

Sul Mount McKinley, non troppo difficile per la via normale, sono state aperte vie assai impegnative e complesse lungo il versante sud, certamente una delle pareti più alte ed imponenti del mondo intero, alta più di 4000 metri e caratterizzata da ripidissimi pendii di ghiaccio alternati a fasce rocciose difficili. Nel 1961 una spedizione italiana guidata da Riccardo Cassin ha aperto un magnifico e difficile itinerario lungo la parete sud della montagna, dove esiste anche una via aperta da alpinisti americani ed una direttissima realizzata nel 1976 da Dougal Haston e Doug Scott. Ancora nel 1976 lo scalatore americano Charlie Porter è stato protagonista di una delle più grandi imprese solitarie di ogni epoca: infatti egli ha ripetuto da solo lo sperone Cassin in 36 ore d’arrampicata continua! Comunque tutta la zona intorno al McKinley, caratterizzata da splendide montagne che si elevano oltre i 5000 metri, è meta di numerose spedizioni americane, giapponesi ed europee, che vi aprono ogni anno vie di gran classe e di alta difficoltà.

Il Monte Sant’Elia, posto più a sud del McKinley, fu vinto, nel 1897, dalla spedizione del Duca degli Abruzzi lungo il versante nord. Anche rutta la regione attorno al Monte Logan 6050 m è ormai molto frequentata dagli alpinisti nordamericani, i quali ne hanno fatto uno dei loro campi d’azione preferiti. La stessa cosa si può dire per la lunghissima catena delle Montagne Rocciose canadesi e statunitensi: gli alpinisti americani hanno compiuto in questi ultimi vent’anni un’esplorazione costante e metodica, realizzando imprese di altissimo valore su pareti simili a quelle delle nostre Alpi, di roccia, di ghiaccio e di misto. Non vi è settore che non sia stato esplorato con attenzione: dallo splendido territorio canadese dei Monti Logan, caratterizzato da superbe pareti di granito alte più di 1000 metri, alla zona centrale del Grand Teton, alle pareti di ghiaccio della Columbia Britannica, all’alta Sierra californiana, ai Longs Peaks, alle pareti del Colorado, dove sono state aperte vie di estrema difficoltà, ai picchi di arenaria e di basalto del deserto dell’Arizona, del Nevada, del Nuovo Messico e dello Utah. La Yosemite Valley fa discorso a sé.

Protagonisti il più delle volte sono alpinisti provenienti dalla scuola dello Yosemite, ma vi sono anche eccellenti arrampicatori in Canada e negli altri territori degli Stati Uniti. È chiaro comunque che l’impulso verso l’esplorazione delle catene più interne, remote e selvagge è sempre partito da uomini come Layton Kor, Yvon Chouinard, Fred Beckey, Royal Robbins, Warren Harding, i grandi protagonisti dell’alpinismo californiano. Comunque ancora moltissimo resta da fare. Non si creda che i gruppi montuosi americani siano di facile accesso come le Alpi: alcune catene montuose possono essere avvicinate solo da vere e proprie spedizioni organizzate, le quali vengono a trovarsi in immensi territori pressoché disabitati, ancora ricchi di fauna ormai rara o scomparsa altrove, alla scoperta di pareti formidabili, il più delle volte granitiche, che sovente impegnano gli arrampicatori per più giorni su difficoltà di carattere decisamente estremo. Abituati alle ristrette dimensioni alpine, bisogna aver dunque ben presente l’immensità del territorio nordamericano.

Evidenti motivi di spazio non ci permettono di analizzare a fondo l’interessante evoluzione dell’alpinismo in Nordamerica. Come non ci permettono uno studio accurato dell’alpinismo in zone come la Groenlandia, l’Antartide, la Terra di Baffin, la Norvegia, dove recentemente molte spedizioni hanno realizzato imprese di notevole valore su pareti magnifiche e del tutto sconosciute. Comunque i lettori interessati possono trovare ampia documentazione sul già citato libro Le grandi pareti di Doug Scott, edito da II Castello, Milano.

D’altronde più volte durante la trattazione si è detto che si sarebbe data più importanza alle motivazioni ed alla ricerca delle cause piuttosto che alla cronaca nuda e sterile.

Yosemite Valley

La Yosemite Valley, «paradiso» dell’arrampicata
Posta nella Sierra californiana, la Yosemite Valley è uno degli angoli più pittoreschi e suggestivi del Nordamerica. Caratterizzata da immense pareti di granito levigato dall’azione glaciale, ricca di cascate che precipitano per centinaia di metri lungo le balze rocciose, verdissima e ventosa, illuminata dal violento sole californiano che le dona una luce fantastica e cruda, questa valle è uno dei « paradisi » preferiti dagli arrampicatori di tutto il Nordamerica. Dapprima la valle destò gli interessi dei turisti, anche perché John Muir dedicò gran parte della sua esistenza alla lotta per la difesa delle bellezze naturali che la valle custodiva e che erano seriamente minacciate dalle speculazioni più varie. Tutti gli alpinisti d’America considerano Muir come una specie di padre spirituale e tengono in grandissima considerazione il pensiero di quest’uomo di fine Ottocento.

L’alpinismo, invece, nella Yosemite Valley è un fatto piuttosto recente. La struttura granitica delle pareti del Yosemite richiede all’alpinista una perfetta conoscenza delle tecniche di progressione artificiale. La roccia levigatissima e compatta il più delle volte risulta incisa da esili fessure che possono essere salite solo con l’impiego di molti chiodi. L’alpinismo in questa valle è un fatto a sé. A differenza delle Alpi o di altre catene montuose del globo, dove i fattori ambientali giocano un ruolo primario, in Yosemite praticamente non esistono problemi dati dalla quota, dalle basse temperature e dal cattivo tempo. Le angosce di questo genere sono pressoché assenti dall’animo dell’alpinista che opera in Yosemite e ciò gli permette di esaltare enormemente il fattore tecnico ed estetico dell’arrampicata.

Anche la dimensione tempo perde molto del suo valore, in quanto generalmente queste imprese vengono affrontate con abbondanti scorte di acqua e di cibo. Il problema maggiore resta comunque quello della sete. In queste condizioni estremamente favorevoli, arrampicare diviene un momento senza spazio e senza tempo, una sorta di splendido gioco con la roccia. La lunga permanenza in parete porta ad un distacco pressoché totale dalla vita abitudinaria e concede di entrare in armonia con gli elementi più semplici e puri della natura circostante.

Anche se alcune salite furono compiute prima del secondo conflitto mondiale, è soltanto dopo la guerra che si cominciarono ad affrontare le grandi pareti della valle. Il protagonista assoluto di questa prima fase importantissima fu John Salathé, magnifico arrampicatore, colui che aprì il cammino a tutte le realizzazioni future. Salathé fu anche ideatore di nuovi modelli di chiodi, ma soprattutto è importante perché fu il primo ad affrontare le muraglie granitiche del Sentinel Rock, dell’Half Dome e della Lost Arrow, una stupefacente torre monolitica alta alcune centinaia di metri. Dopo Salathé vengono alla ribalta uomini come Allen Steck (suo compagno in numerose ascensioni) e Marck Powell.

Ma il periodo d’oro del Yosemite inizia quando due personalità contrastanti iniziano la loro attività nella valle: Royal Robbins e Warren Harding. Robbins, che è considerato uno dei migliori alpinisti del mondo, è sempre stato un difensore del purismo. Harding, personalità vulcanica, anarchico insofferente di ogni limitazione, invece ha fatto ampio uso di mezzi artificiali e di chiodi ad espansione. Attorno a questi due personaggi, si è radunato un folto gruppo di arrampicatori estremamente dotati fisicamente ed intellettualmente.

La prima salita del Capitan lungo la via del Nose realizzata nel 1958 da un gruppo guidato da Warren Harding aprì la via ad una lunga serie di realizzazioni spettacolari, dove la tecnica assumeva un ruolo predominante. Le salite venivano compiute a balzi successivi, lasciando le corde fisse in parete per le risalite. Il numero dei chiodi era ingente. Ma poi si fece strada a poco a poco una nuova tendenza, che cercava di percorrere le stesse vie in tecnica alpina ed in un sol tratto. In questa fase, accanto a Harding e Robbins, troviamo Chuch Pratt, Yvon Chouinard, considerato come il «profeta» dell’alpinismo californiano, Ed Cooper, Jim Baldwin, Steve Roper, Layton Kor, Tom Frost, T.M. Herbert, Don Lauria, Dennis Hennek, arrampicatori raffinatissimi, autori delle prime ascensioni delle grandi vie del Capitan e dell’Half Dome. Ora che ormai poco resta da fare, a meno di ricorrere ad un fortissimo uso di chiodi ad espansione, l’ultima generazione sta aprendo un nuovo corso, cercando di ripetere in arrampicata semi-libera le grandi vie aperte in artificiale precedentemente (3).

Si parla così di «super-libera» e gli alpinisti europei che hanno arrampicato in Yosemite hanno testimoniato il fantastico livello tecnico raggiunto dagli arrampicatori locali, ottenuto a prezzo di un duro allenamento atletico e di una preparazione mentale che si serve delle discipline orientali di meditazione. A poco a poco si cerca di ridurre l’uso dei chiodi, giudicato responsabile di rovinare alla lunga le fessure, servendosi unicamente dei « nuts », i famosi blocchetti d’alluminio da incastrare ad arte nelle fessure. Anche l’arrampicata solitaria trova modo di esprimersi in realizzazioni audacissime e stupefacenti. È il momento di Jim Bridwell, di Henry Barber, di Galen Rowell, di Steve Sutton, di Hugh Burton e soprattutto di Charlie Porter e Jim Dunn, autori di straordinarie salite solitarie sulle pareti del Yosemite.

Oggi molti giovani europei guardano al Yosemite come ad una meta da raggiungere, un esempio da imitare. Certo, la proposta di « vita in parete » che giunge dalla California è dolce e allettante. Ma non bisogna dimenticare che le Alpi non sono il Yosemite e che la severità ambientale della catena alpina non permette alle alte quote l’applicazione di questa filosofia.

Note
(1) Ancora oggi l’enigma non è stato completamente risolto.
(2) Il problema è stato risolto dagli jugoslavi nel gennaio del 1986.
(3) Nel 1988 l’americano Todd Skinner riuscirà a salire in completa arrampicata libera la leggendaria via Salathé al Capitan. Ne! 1993 l’americana Lynn Hill (una donna!) supererà per prima nello stesso stile la storica via del Nose.

L’alpinismo extraeuropeo – 3 ultima modifica: 2025-07-16T05:01:00+02:00 da GognaBlog

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