Biodiversità, da costo a valore

Il Sesto rapporto sul Capitale Naturale in Italia pone le basi per cambiare la concezione della biodiversità e considerarla non più elemento di costo per le Amministrazioni pubbliche, ma di valore.

Biodiversità, da costo a valore
di Jacopo Chiara
(pubblicato su piemonteparchi.it il 30 settembre 2025)

Recentemente è stato pubblicato il sesto Rapporto sullo stato del capitale naturale in Italia a cura del Comitato per il capitale naturale.
Questo documento, previsto da una specifica Legge nazionale ( art. 67 della Legge n. 221 del 2015 ), ha la finalità di informare i nostri rappresentanti politici sul ruolo ricoperto dal Capitale Naturale italiano rispetto al sistema socioeconomico del Paese.

Immagine Pixabay

Il capitale naturale è definito a livello internazionale come “l’intero stock di asset naturali – organismi viventi, aria, acqua, suolo e risorse geologiche – che contribuiscono a fornire beni e servizi di valore, diretto o indiretto, per l’uomo e che sono necessari per la sopravvivenza dell’ambiente stesso da cui sono generati”. La sua funzione è sostanziale perché contribuisce all’attuazione dei principi espressi dalla nostra Costituzione negli articoli 9 e 41 in materia di tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi.

La biodiversità nella finanza pubblica
La pubblicazione del Rapporto è l’occasione non solo per conoscere il quadro delle politiche nazionali sul tema, ma anche per riflettere su alcuni aspetti cruciali delle politiche di tutela della biodiversità, e in particolare sulla necessità di inserire il capitale naturale nelle attività e nei processi del mondo finanziario ed economico. A questo proposito, il Rapporto dedica un intero capitolo sulla fiscalità, sulla tassazione, sulla rendicontazione, sui mercati finanziari e sul bilancio di sostenibilità.

Le norme europee approvate e in corso di approvazione sono molteplici: anche in Italia si sta lavorando in tal senso, basti ricordare il c.d. “Ecorendiconto” allegato al Rendiconto Generale dello Stato, introdotto con la legge di riforma della contabilità e finanza pubblica (Legge 31 dicembre 2009, n. 196, art. 36, comma 6). Questo documento prevede di riportare “le risultanze delle spese relative ai Programmi aventi natura o contenuti ambientali” delle amministrazioni centrali al fine “di evidenziare le risorse impiegate per finalità di protezione dell’ambiente, riguardanti attività di tutela, conservazione, ripristino e utilizzo sostenibile delle risorse e del patrimonio naturale”, ma non basta.
E’ necessario, infatti, che i bilanci delle amministrazioni – prima di tutto pubbliche – inseriscano il capitale naturale nei propri asset di bilancio affinché finalmente venga considerato come elemento che produce valore. Questa sfida oggi può essere colta all’interno del percorso di riforma previsto dal PNRR, che consiste nell’introduzione di un sistema unico della contabilità economico-patrimoniale (principio accrual) per tutte le amministrazioni pubbliche italiane, con l’obiettivo di passare a un modello contabile più completo e trasparente.

Analogie con i beni culturali
In particolare, a differenza del modello “finanziario”, il sistema unico della contabilità economico-patrimoniale consente ad un Ente pubblico di valorizzare l’impiego delle risorse, nell’esercizio delle proprie funzioni istituzionali, per la produzione ed erogazione di una varietà di output nell’interesse di diversi possibili beneficiari (ad esempio: servizi in senso proprio, contribuzioni finanziarie, attività di regolazione e controllo, ecc.). Conseguentemente si possono considerare quali attività (nel senso tecnico-contabile del termine) risorse, controllate da un’amministrazione pubblica, in grado di avere un potenziale di servizio o di generare benefici economici, evidenziando gli effetti economici e patrimoniali correlati al loro valore intrinseco.

E’ necessario, quindi, iniziare un processo per individuare quale parte del capitale naturale abbia i requisiti imposti dalle regole della contabilità pubblica per essere inserito come voce di attività, in analogia con altre materie quali, ad esempio, i beni culturali che solo recentemente hanno acquisito un proprio standard europeo.

Il processo deve coinvolgere soggetti competenti su più livelli: nazionale (il Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica, il Ministero dell’economia e finanza, il Comitato per il capitale naturale, il Comitato per l’attuazione della strategia della biodiversità, la Ragioneria dello Stato) e regionale (le Regioni, il sistema degli Enti di gestione delle Aree naturali protette, il mondo della ricerca). In particolare, è importante costruire un percorso interistituzionale e multidisciplinare in cui le informazioni e le esperienze siano messe a fattor comune.

Un cambiamento culturale
Il processo però non è solo tecnico. E’ anche culturale. Bisogna cambiare la concezione del capitale naturale e considerarlo non solo più elemento di costo per le Amministrazioni pubbliche, ma “asset”, ovvero risorsa che genera valore.

In sintesi, l’inserimento nel bilancio di un’amministrazione pubblica e, in particolare, di una Regione, di questo nuovo asset consentirebbe di: 1. descrivere in maniera più completa il valore di alcuni servizi (in questo caso dei servizi ecosistemici), analizzando costi e benefici prodotti dalle scelte e dall’azione amministrativa; 2. valutare il ritorno dell’impiego delle risorse per garantire questi servizi come incrementi di valore delle attività, passando da una logica di spesa per servizi ad una logica di spesa per sviluppo-investimento; 3. fornire ai policy makers un quadro strategico delle attività che valorizzano il patrimonio dell’Ente per indirizzare meglio le scelte politiche.

Biodiversità, da costo a valore ultima modifica: 2025-11-22T05:46:00+01:00 da GognaBlog

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