Riflettere su errore e incertezza nella scienza significa interrogarsi sui suoi obiettivi e sui limiti delle aspettative che possiamo avere nei suoi confronti.
La scienza non è priva di valori, ma la sua oggettività emerge dall’efficacia dei suoi metodi, dalla convergenza dei risultati e dal confronto tra comunità scientifiche.
La conoscenza scientifica è influenzata dai valori sociali e culturali, e il suo progresso dipende da un confronto aperto tra punti di vista diversi.
La scienza deve bilanciare la necessità di essere inclusiva e democratica con il riconoscimento dell’expertise.
L’errore non è necessariamente un fallimento, ma parte integrante del metodo scientifico, che si basa sull’autocorrezione e sulla revisione continua delle conoscenze.
Errori e valori nella scienza
(alcune riflessioni a partire dal concetto di oggettività)
di Raffaella Campaner (Dipartimento di filosofia Università di Bologna)
(pubblicato su ilpunto.it il 7 aprile 2025)
Discutere di errore e incertezza in ambito scientifico significa anzitutto riflettere su quali sono gli scopi della scienza e cosa è appropriato e ragionevole aspettarsi da essa. Intuitivamente, ci preoccupa una scienza che si muove nell’ambito dell’incertezza, e provoca il nostro disappunto una scienza che sbaglia. Affidiamo alla conoscenza scientifica il compito di fornirci descrizioni corrette delle proprietà dei fenomeni, spiegazioni valide dei loro comportamenti, previsioni affidabili relative al loro evolvere. Le nostre aspettative, e i modi in cui le formuliamo, sono ragionevoli? Che cosa è legittimo attendersi dall’impresa scientifica e che cosa, invece, travalica i suoi scopi e le sue possibilità? Affrontare questi temi consente di fornire una cornice preliminare a qualunque riflessione su incertezza ed errore nella scienza.
La scienza è oggettiva?
Alla conoscenza scientifica è riconosciuta un’autorevolezza superiore a quella che viene riconosciuta ad altre forme di conoscenza. Se vogliamo sapere com’è fatto il mondo, quali strumenti è più appropriato adottare per raccoglierne le sfide e quali per intervenire sul corso degli eventi – se e quando ciò è possibile – è alle scienze che ci rivolgiamo. Ha senso, tuttavia, affermare che è corretto fidarsi della scienza perché la conoscenza scientifica è “oggettiva”? Che cosa si intende per “oggettività scientifica”?
L’equiparazione dell’oggettività a una totale assenza di valori è stata da tempo criticata in ambito filosofico: qualunque elaborazione di conoscenza, in quanto attività promossa da esseri umani, non può non essere legata a un qualche punto di vista, a uno dato insieme di conoscenze preliminari, a interessi rispetto a una certa indagine e ai suoi obiettivi. Riconoscere che la scienza ospita elementi valoriali nulla toglie, però, alla sua capacità di rappresentare la realtà. Si tratta piuttosto di declinare meglio la nozione di oggettività scientifica, delineandone diverse possibili angolature [1].
In primo luogo, la scienza può dirsi oggettiva nella misura in cui ci consente delle interazioni efficaci con il mondo esterno: l’efficacia della sperimentazione e delle azioni volte a controllare i fenomeni o a modificarne il corso – si pensi in medicina a tutto ciò che concerne la cura – costituisce una prova tangibile del rapporto diretto tra la conoscenza scientifica e il mondo. In una seconda accezione, l’oggettività può essere interpretata come convergenza: in molti casi, vari filoni di indagine, indipendenti l’uno dall’altro, conducono agli stessi risultati, o a risultati molto simili, indicando così un avvicinamento progressivo e non casuale alla realtà. Ulteriori modi di concepire l’oggettività hanno a che vedere con i processi di costruzione della conoscenza scientifica, fortemente sociali: la scienza è sempre frutto del lavoro congiunto di un gruppo di scienziati, che collaborano e si confrontano, adottando certi strumenti, tempistiche, e quadri di riferimento teorici.
Si può quindi parlare di oggettività procedurale, garantita dall’affidabilità di metodi condivisi, di oggettività come concordanza, enfatizzando il convergere delle posizioni tra gruppi di ricerca diversi, o di oggettività interattiva, raggiunta tramite dialoghi e dibattiti tra gli scienziati. La scienza si può pertanto concepire come oggettiva non perché perfettamente neutrale o asettica, ma perché i valori che – innegabilmente – si ritrovano nel discorso scientifico orientano la raccolta e l’utilizzo dell’evidenza, ma non si sostituiscono mai ad essa. La loro presenza non costituisce un elemento di debolezza della conoscenza scientifica: “i valori non sono né uniformi né uniformemente ‘cattivi’. La varietà di forme e di funzioni dei valori viene riconosciuta, e il ruolo di alcuni di essi viene considerato necessario allo sviluppo razionale della conoscenza scientifica” [2].
Scienza, valori, democrazia
Occuparsi di valori non significa occuparsi di qualcosa di estraneo alla razionalità, alla sistematicità, all’argomentazione rigorosa. Il dibattito teorico distingue tra valori conoscitivi (o cosiddetti epistemici) e non. I primi includono coerenza, precisione, semplicità, efficacia predittiva, …, mentre i secondi fanno riferimento a opinioni individuali, prospettive culturali, religiose, ecc. In termini generali, i valori esprimono ciò che si ritiene importante in un certo contesto e, quindi, ciò che influenza interpretazioni e azioni. Anziché insistere sulla ricostruzione di processi orientati al raggiungimento astratto di “Verità” e “Progresso”, è opportuno comprendere come i valori sociali e culturali mutino nel tempo, influenzando convinzioni, preferenze, strategie. Ma di chi sono i valori che giocano un ruolo nella scienza? Sono i valori di singoli individui, di gruppi di individui, o della società nel suo insieme ad avere un peso nella costruzione di conoscenza, anche scientifica? Di fronte a una qualche porzione di conoscenza scientifica, chiediamoci: quali erano le assunzioni e gli obiettivi degli scienziati che l’hanno prodotta? Quali metodi hanno usato? C’erano altre comunità epistemiche che vedevano le cose in modo diverso?
Idealmente, la scienza dovrebbe emergere da un processo democratico, che sappia valorizzare tutti i punti di vista validi, confrontando scuole di pensiero e metodologie, attraverso conferenze, convegni, pubblicazioni e dibattiti promossi sulle riviste e sui volumi accreditati entro il settore di riferimento, con procedure di referaggio cieco. È attraverso il dialogo trasparente e il rispetto delle diverse prospettive che la scienza cresce, esplicitando anche il pensiero delle minoranze e minimizzando i bias e le possibili distorsioni da parte di elementi socio-politici ed economici. Una scienza democratica dovrà evitare di assumere a priori la preminenza di una posizione sull’altra, e favorire invece il dialogo tra le parti, consapevole del ruolo dei contesti. “Il grado di integrazione, così come i livelli di accuratezza e di semplicità [della conoscenza scientifica ottenuta] varieranno in funzione tanto di ciò che è possibile quanto degli scopi per i quali ci prefiggiamo di utilizzare quella certa porzione di conoscenza” [3]. Le comunità scientifiche non cercano la verità simpliciter, bensì particolari “tipi di verità”, riferiti a certi ambiti disciplinari e certi oggetti di studio, e perseguiti per determinati obiettivi, diversi da caso a caso: “la verità non è opposta ai valori sociali, anzi, essa è un valore sociale […] Un resoconto sociale della conoscenza indica che gli obiettivi a cui punta l’ideale della scienza come attività immune da valori vengono raggiunti più facilmente proprio se il ruolo costruttivo dei valori viene riconosciuto, e la comunità viene strutturata in modo da consentire una loro considerazione critica” [4].
Riconoscere questi elementi non significa che non si possano distinguere all’interno dell’attività scientifica procedure e obiettivi adeguati e inadeguati; riconoscere l’esistenza di una pluralità di punti di vista non significa accettarli tutti. La scienza è chiamata a garantire la tolleranza e, per quanto possibile, l’interazione tra punti di vista differenti, promuovendo “l’integrazione di diversi sistemi per scopi specifici, la cooptazione di elementi benefici trasversali rispetto ai sistemi, e la competizione produttiva tra sistemi diversi” [5]. Questa prospettiva è ben lontana dal relativismo: non si tratta di una visione del tipo “qualunque posizione va bene (“anything goes”), bensì di un approccio del tipo “molte posizioni vanno bene” (“many things can go”), dove la riflessione sulla scienza viene esortata a considerare con attenzione non solo i risultati ottenuti, ma anche i processi che hanno portato ad essi
I valori di chi? La società e gli esperti
Difendere il carattere democratico della scienza ci interroga altresì sui suoi potenziali rischi: quanta diversità di visioni è ammissibile e auspicabile? Come possiamo evitare che, nel cercare di non escludere apporti rilevanti, si finisca per valorizzare contributi che non sono rigorosi, avvallando così approcci pseudo-scientifici e rischiando di alimentare, d’altro canto, un atteggiamento di sfiducia dei confronti delle scienze? Come garantire che la razionalità scientifica emerga dal confronto tra una pluralità di prospettive diverse che contribuiscono in modo equilibrato all’ottenimento di una conoscenza scientifica pienamente affidabile? L’antidoto fondamentale all’inclusione di posizioni scorrette è rintracciabile in un’attenta configurazione dei concetti di expertise e di esperto, e nel loro riconoscimento collettivo.
Questo processo comporta il coinvolgimento di laboratori, centri di ricerca, università, sedi editoriali, società scientifiche, riviste accreditate, …, in cui la comunità scientifica si identifica come tale e attraverso cui opera, definendo un nucleo di standard comuni e di luoghi (reali e virtuali) di condivisione e controllo dei risultati della ricerca. Senza assumere posizioni autoritarie, l’esperto nei diversi contesti deve poter esercitare la sua azione di scienziato competente ed autorevole, la cui voce ha un peso diverso rispetto a quella del non-esperto. In altri termini, il problema centrale consiste nel mantenere un equilibrio tra l’affermazione di una scienza democratica e il riconoscimento di cosa conta come expertise, come autentica competenza. La ricerca costante di tale equilibrio coinvolge tutti gli scienziati, il loro ruolo di fronte alla società e le relazioni tra loro: “L’impegno collettivo rispetto a dei valori conoscitivi incorpora un elemento di mutua fiducia. Gli scienziati si fidano dei risultati ottenuti da altri scienziati perché assumono che i loro colleghi scienziati condividano gli stessi valori nella ricerca di nuova conoscenza” [6].
Queste riflessioni portano a interrogarsi sulle responsabilità della scienza di fronte alla società: chi certifica chi è “l’esperto”? Chi dà garanzia di una “conoscenza certificata”? “La fiducia è creata da robustezza sociale, legittimità dell’esperto, e partecipazione sociale” [7]. Agli scienziati la società affida il compito di attivare e seguire procedure di verifica del proprio lavoro, attraverso controlli incrociati della qualità della produzione scientifica. Questi ultimi sono oggetto oggi di ulteriori dibattiti interni alla scienza, che periodicamente rivisita i metodi di valutazione della ricerca e i risultati della stessa. “Il vero problema non è se gli individui all’interno di un certo comitato scientifico siano mossi da qualche tipo di bias, ma come i bias siano distribuiti all’interno di un certo gruppo. In questo senso, il problema dei bias diviene un problema istituzionale, piuttosto che individuale. E, di conseguenza, i meccanismi che portano a risolvere il problema dei condizionamenti e delle distorsioni non dovranno concentrarsi sulla loro eliminazione a livello individuale, bensì puntare a designare istituzioni che portino gli effetti di bias individuali a neutralizzarsi l’un l’altro” [8]. In questo senso, “la fiducia personale viene sostituita dall’appello a una conoscenza certificata e alle istituzioni deputate a darne garanzia” [9].
Rispetto a possibili crisi di fiducia nella scienza, una migliore spiegazione della sua natura, delle sue dinamiche, della rivedibilità all’accrescersi dei dati può avere un effetto fortemente positivo. Quello che la riflessione teorica può far comprendere è, tra l’altro, che l’errore non è sempre un problema, e non è sempre segno di cattiva scienza, o di non-scienza. “La scienza è, dopo tutto, un lavoro in corso, che cambia a mano a mano che nuove scoperte portano a revisioni e risistemazioni di interpretazioni già accettate. La storia della scienza costituisce una narrativa potente di questa cultura dell’auto-correzione, ed è l’essenza della scienza cercare di compiere scoperte che cambino il modo di pensare degli scienziati” [10]. È per questo che portare alla luce tutto ciò che contribuisce a costruire conoscenza scientifica può contribuire in modo significativo a comprenderne correttamente non solo i progressi, ma anche gli errori – veri o presunti.
Bibliografia
(1) Heather E. Douglas, Rejecting the ideal of value-free science, in Harold Kincaid, John Duprè, Alison Wylie (a cura di), Value-Free Science? Ideals and Illusions. Oxford: Oxford University Press, 2007. Pag. 120-139.
(2) Phyllis Rooney, On values in science: Is the epistemic/non-epistemic distinction useful?, in David Hull, Micky Forbes e Katherine Okruhlik (a cura di) PSA 8 1992. East Lansing, Philosophy of Science Association, vol. 1, pp. 13-22, pag. 13.
(3) Helen E. Longino, Complexity and diversity all the way. Metascience 2005; 14: 185-194. Pag. 193.
(4) Helen E. Longino, How values can be good for science, in Peter K. Machamer e Gereon Wolters (a cura di), Science, values and objectivity. Pittsburgh: University of Pittsburgh Press, 2004. Pp. 127-142. Pag. 140.
(5) Hasok Chang, Is Water H2O? Evidence, Realism and Pluralism. Dordrecht: Springer, 2014. Pag. 253.
(6) Martin Carrier, Scientific knowledge and scientific expertise: epistemic and social conditions of their trustworthiness. Analyse & Kritik 2010; 2: 195-212. Pag. 201.
(7) ibid., pag. 195.
(8) Carlo Martini, Experts in science: a view from the trenches. Synthese 2014; 191: 3-15. Pag. 14.
(9) Martin Carrier, Scientific Knowledge and Scientific Expertise: Epistemic and Social Conditions of Their Trustworthiness. Analyse & Kritik 2010; 2: 195-212.
(10) H. Holden Thorp, Teach philosophy of science. Science 2024; 384: 141.
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Io personalmente mi sono rotto della ossessiva volontà, purtroppo dominante (e un po’ di tempo) nella società occidentale, di correre dietro alle cosiddette verità della scienza, anteponendole alle scelte politiche. Ribadisco la necessità di preservare la priorità della politica sulla scienza. La scienza, che viaggia per conto suo, al limite fornisce un sostegno alle scelte politiche, ma NON ci deve essere la priorità della scienza nelle scelte, altrimenti va a farsi benedire le democrazia. Stante queste mia convinzione, non appartengo alla religione della scienze che invece anima molti occidentali.
“Per riprendere (e correggere) l’osservazione di Matteo”
Mi sono decisamente espresso male, Batman, accetto e sottoscrivo la correzione e ne ringrazio il docente…non è un caso che qualcuno sia professore universitario e qualcun altro un umile ingegnere! 🙂
8.
L’onere della prova è di chi fa un’affermazione, non di chi la mette in dubbio in mancanza di prove.
Temo che Sheldrake (e non solo lui) abbia le idee non molto chiare sul significato di metodo scientifico.
Se queste dieci affermazioni sono “mai dimostrabili“, come fanno a essere “premesse” della “cosiddetta “scienza ufficiale”“, dato che la scienza ha nella falsificabilità un pilastro fondante? Non è un ossimoro?
E cosa sarebbe esattamente la “cosiddetta “scienza ufficiale”“? Chi la definisce come tale? In base a quali caratteristiche?
E chi sarebbe che difende “con forza” tali c.d. premesse?
A me pare che sia del tutto privo di significato assumere che esista qualcosa come la cosiddetta “scienza ufficiale” che riposerebbe le sue certezze sulle “dieci premesse mai dimostrabili”. Non credo che ci sia un solo ricercatore serio, in qualsiasi disciplina, disposto a prendere sul serio come un dogma indiscutibile l’insieme di quelle asserzioni. E abolirei volentieri da ogni riflessione su obiettivi e natura della ricerca e della conoscenza scientifica la nozione di verità. Per riprendere (e correggere) l’osservazione di Matteo, fino a prova contraria l’unica cosa seria da fare, circa l’affermazione che “le leggi della natura restano invariate”, non è di ritenerla vera, ma più modestamente di ritenerla un solido punto di partenza per costruire nuova conoscenza. Che, per esempio, è quanto hanno fatto, tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, quelli che hanno costruito le basi della geologia moderna.
Guido, esiste almeno un caso documentato in cui le leggi “indimostrate” si sono mai rivelate false?
Altrimenti l’unica cosa seria da fare è ritenerle vere.
Fino a prova contraria.
Forse il dualismo soggettivo-oggettivo è inutile o privo di significato. Per quanto riguarda la cosiddetta “scienza ufficiale” che non dovrebbe avere “dogmi”, vale la pena ricordare le dieci premesse mai dimostrabili citate dallo scienziato inglese Rupert Sheldrake: – la Natura si comporta come una macchina; – il complesso energia-materia è rimasto costante da sempre e per sempre; – le leggi della Natura restano invariate; – la materia non ha alcun genere di coscienza; – la Natura non ha alcuno scopo, né obiettivo; – tutta l’eredità biologica è trasmessa nella materia; – tutto ciò che è nella memoria è registrato come tracce materiali; – la mente è un prodotto soltanto del cervello; – i fenomeni psichici sono illusioni; – la medicina materiale meccanicista è l’unica che funziona veramente. (da: “Le illusioni della scienza”, Apogeo Urra, 2013). Spesso queste premesse indimostrate vengono difese con forza, anche alla faccia del metodo scientifico. Naturalmente ci sono eccezioni, e forse qualcosa sta cambiando, ma molto lentamente.
Matteo, definiamola “fiducia condizionata” alla successiva verifica sperimentale. Ma è evidente che se eseguo un certo esperimento (quindi avente per fine una nuova conoscenza) che parte da un dato x ottenuto da precedenti ricerche altrui, partirò da x senza ripetere le n variabili che gli altri ricercatori avevano testato ed escluso in precedenza. In quel senso mi “fido” dei loro dati. Naturalmente in questo procedimento resta la possibilità sempre aperta e sempre presente in scienza (per fortuna) di confutarli, se la mia verifica preliminare per poter poi progredire col mio esperimento mi porta a risultati non coerenti con i loro.
Non credo sia corretto parlare di fiducia Antonio.
Il metodo scientifico anzi prescinde dalla fiducia: significa descrivere quello che si è fatto, come lo si è fatto e cosa si è ottenuto, in maniera che chiunque (più o meno chiunque…) possa ripetere il tutto e trovare i medesimi risultati. A questo punto si cerca di dare una spiegazione a quello che è successo nell’esperimento (teoria) . Quindi per verificare se la teoria è valida, si pensa a un nuovo, differente esperimento dal risultato ignoto (o a uno finora non compreso) per vedere se la teoria che si è trovata è valida.
La fiducia è necessaria solo se prendi per buoni i risultati di un esperimento senza sottoporli a verifica prima di introdurli nel tuo ragionare successivo…il che purtroppo può accadere in presenza di dati o esperimenti complicati, costosi o di difficile ottenimento
Marco, riguardo alla prima frase che tu citi, il significato che io ci vedo è “esiste un sistema di valori comuni, fondato sulla continua verifica sperimentale dei dati empirici e sulla progressiva costruzione di un sistema epistemologico coerente con i dati così ottenuti, che conseguentemente porta coloro che aderiscono a tale sistema a fidarsi reciprocamente, senza lasciarsi andare a interpretazioni relativistiche”. Questo nulla togliendo (anzi!) alla possibilità che successive verifiche sperimentali confutino i dati precedentemente ottenuti. Però la fiducia mi pare un atteggiamento indispensabile a priori.
“La scienza può essere oggettiva? Come i droni russi o le bombe israeliane. Dipende dai punti di vista.”
Non capisco cosa vuoi dire, Bruno.
Per prima cosa dovresti definire cosa intendi con i termini scienza e oggettivo.
Comunque a me pare che i droni russi e le bombe israeliane siano fatti piuttosto oggettivi ed indubitabili…se siano poi giustificati, morali, accettabili o meno e quanto lo siano dipende dai punti di vista
La scienza si basa sulla continua verifica dei risultati e, diversamente dalla filosofia, un unico evento contrario dimostrato, o una contraddizione nel modello matematico, annulla tutto cio’ che e’ stato costruito sino allora. Le teorie e i risultati sono ampiamente verificati sia da metodi specifici , sia dalla comunita’ scientifica. Il metodo e rigoroso, e si basa su esperimenti e/o su modelli matematici coerenti. La frase “Gli scienziati si fidano dei risultati ottenuti da altri scienziati perché assumono che i loro colleghi scienziati condividano gli stessi valori nella ricerca di nuova conoscenza” puo’ andare bene per la filosofia ma non certo per la scienza dove oltretutto esiste una competizione che e’ fondamentale per verificare le affermazioni. Forse mi sfugge qualcosa ma trovo la frase assolutamente errata. I bias cognitivi si scoprono ed si isolano grazie la metodo scientifico, e non vodo come realizzare cio’ che e’ espresso in questa frase: “bensì puntare a designare istituzioni che portino gli effetti di bias individuali a neutralizzarsi l’un l’altro”… sarebbe interessante che l’autrice facesse qualche esempio concreto, quel tanto che basta per avvicinarsi un po’ alla scienza.
La scienza può essere oggettiva? Come i droni russi o le bombe israeliane. Dipende dai punti di vista.