Gli anni che cambiarono l’alpinismo – 3

Gli anni che cambiarono l’alpinismo – 3
di Enrico Camanni
(dall’aggiornamento a La storia dell’Alpinismo di Gian Piero Motti)

Monte Bianco, i grandi interpreti del ghiaccio
Dopo quasi duecento anni di alpinismo, pochi si illudono che resti ancora qualche significativo anfratto da esplorare sulle vecchie Alpi. Tutte le grandi pareti sono state salite in estate e in inverno, in cordata e in solitaria; le vie logiche, dunque classiche, registrano un considerevole incremento di ripetitori, con frequenti problemi di affollamento; le montagne più spettacolari e rinomate – le uniche che in fondo danno lustro agli alpinisti – sono state setacciate in lungo e in largo alla ricerca di qualche piccola perla sfuggita all’occhio attento dei cacciatori di «prime». Eppure, dopo la rivoluzione culturale che nella prima metà degli anni Settanta cancella dal gergo degli alpinisti progressisti la parola «eroe» e la parola «conquista», si presentano almeno tre prospettive per continuare la ricerca: il ghiaccio, l’arrampicata libera su roccia, lo sci estremo.

In arrampicata sul Supercouloir del Mon Blanc du Tacul. Foto da gulliver.it.

La prima prospettiva, come si è visto, è la conseguenza della nuova tecnica di progressione frontale con due piccozze, che evita il faticoso e lunghissimo lavoro di gradinamento e permette di superare – in tempi ridottissimi – pendenze impossibili con gli attrezzi tradizionali. Dopo la storica salita di Walter Cecchinel e Claude Jager sul couloir nord-est dei Drus nell’inverno 1973 – la rivelazione del nuovo verbo dei ghiacciatori -, sono i francesi a raccogliere e applicare per primi sulle Alpi la «piolet-traction», peraltro già conosciuta e raffinata dalla scuola anglosassone sul ghiaccio scozzese. Boivin e Gabarrou si impongono in pochi mesi come gli interpreti più brillanti e fantasiosi, dimostrando che non ci sono praticamente più limiti all’arrampicata su ghiaccio. Soprattutto il Supercouloir del Mont Blanc du Tacul, uno strettissimo colatoio verticale incastonato tra i pilastri di granito dove, soltanto in certe condizioni, si forma un serpente di ghiaccio aderente alla roccia, dimostra che si può reinventare l’alpinismo sotto forme nuove: basta aspettare che la natura offra la possibilità di salire là dove, in tanti decenni, nessuno si era mai accorto che ci potesse essere una via.

In Italia, a pochi anni di distanza, entra in scena un’altra cordata in grado di misurarsi con i grandi problemi delle cascate, dei seracchi, dei «couloir fantasma» che appaiono e scompaiono come in un sogno: è la cordata Grassi-Comino. Classe 1946 il primo, 1952 il secondo, entrambi piemontesi, formano una coppia geniale ed eterogenea. Gian Carlo Grassi ha già una lunga esperienza maturata nel gruppo di punta dell’alpinismo torinese, con importanti ripetizioni, vie nuove, invernali. Ha anche partecipato all’esplorazione delle pareti granitiche della Valle dell’Orco, la casalinga California italiana, ed è animato dalle trasgressive speranze del Nuovo Mattino.

È un arrampicatore entusiasta e instancabile, generoso, sempre pronto a partire. Gianni Comino, invece, è maturato alpinisticamente sulle Alpi Marittime e si è avvicinato gradualmente al Monte Bianco. In lui colpisce la «felice simbiosi – come ha scritto Gian Piero Motti – tra lo slancio emotivo e spirituale e la lucida freddezza, quasi da automa, nella realizzazione pratica». Dimostra il proprio talento eccezionale, nel 1978, con la prima solitaria del Supercouloir al Tacul e, l’anno seguente, con quella della via Fréhel-Dufour al Grand Pilier d’Angle, uscendo in vetta per l’itinerario di Boivin e Vallençant. Dunque Comino e Grassi sono completamente diversi, ma si stimano e decidono di arrampicare insieme, integrandosi a vicenda.

Nel 1978 lasciano la prima firma d’avanguardia sull’Ypercouloir delle Grandes Jorasses, versante sud, dove superano tratti di cascata verticali o addirittura strapiombanti. Lo stesso anno, con Casarotto, inventano una via improbabile sulla parete nord dell’Aiguille Verte. Seguono, nel 1979, due seraccate da cui i ghiacciatori si erano sempre tenuti a debita distanza: quella del Col Maudit e, soprattutto, quella di sinistra della Poire, in piena parete della Brenva. Purtroppo, il 28 febbraio del 1980, Comino riparte per un progetto ancora più azzardato: lo spaventoso colatoio racchiuso tra gli speroni della Major e della Poire, sulla stessa Brenva. È una specie di roulette russa con le varie barriere sospese (esposte a levante) che sbarrano il cammino e possono precipitare da un momento all’altro, anche nel pieno rigore dell’inverno. Ormai nei pressi dell’uscita, il solitario alpinista monregalese viene colpito da una scarica e precipita.

Grassi continua, anzi intensifica, la sua attività di ricercatore, con una messe di vie nuove che probabilmente trova eguali soltanto nell’attività del francese Gabarrou. Lo si vede impegnato su ogni terreno, con una predilezione per i flussi ghiacciati: scopre centinaia di cascate nascoste nelle vallate piemontesi e decine di canalini («goulottes») ad alta quota, dal Gran Paradiso al Monte Rosa. Nel 1980, con Marco Bernardi e Renzo Luzi, raggiunge la vetta del Monte Bianco lungo il Supercouloir del Frêney, la cascata più alta d’Europa. Nel giugno del 1985, con lo stesso Luzi e Mauro Rossi, riesce a salire interamente in «piolet-traction» la grandiosa parete sud delle Grandes Jorasses, proprio dove batte il sole. Ma Grassi ama anche la roccia, senza riserve, aprendo decine di itinerari nei solitari valloni delle Alpi Graie o impegnandosi in progetti più eclatanti, come la nuova via sulla parete sud del Cervino inventata e risolta con Renato Casarotto.

Poi viaggia lontano, affronta le grandi pareti della Yosemite Valley, gli scivoli della Cordillera Bianca, le inedite goulottes della Patagonia, le straordinarie cascate canadesi e, nell’inverno 1985, l’interminabile cresta ovest dell’Everest con una spedizione francese. Arrampica ovunque con la stessa passione di ragazzo stupito, assetato di conoscenza. Non è capace di programmare scaltramente le proprie mosse, tanto meno di monetizzare la sua incredibile attività. Resta un naif un po’ inguaiato nella morsa del professionismo. Anche lui scompare troppo presto, il 1° aprile 1991, per il crollo di una cornice di neve sui Monti Sibillini. Non ha ancora compiuto i 45 anni.

Patrick Gabarrou potrebbe essere considerato l’alter ego transalpino di Grassi, se non fosse per la formazione ideologica più complessa e per la dichiarata ispirazione religiosa. Guida alpina tra le più sensibili e quotate della sua generazione, ha in parte ereditato il messaggio ideale di Gaston Rébuffat, sovrapponendovi però un’ambiziosa attività individuale che tende ad appannare l’ispirazione originaria.

Nato nel 1951 a Evreux dans l’Eure, quindi coetaneo di Boivin, collabora con Jean-Marc per poco più di una breve, feconda stagione. Poi le loro strade si dividono, ma Gabarrou continua una ricerca intensissima e personale, concentrata sul Monte Bianco, nel Vallese e nell’Oberland Bernese. Privilegia i severi itinerari di ghiaccio e di misto, dove ancora si possono spigolare nuove linee di salita, logiche e soprattutto estetiche; in circa vent’anni di attività praticamente ininterrotta dimostra che anche sulle Alpi Occidentali si può continuare a creare: basta saper guardare meglio. Sembra impossibile, ma nella primavera del 1986 ha già firmato ben 12 vie nuove alla vetta massima del Bianco, senza naturalmente considerare le innumerevoli «prime» sulle altre cime del massiccio.

In arrampicata sul Supercouloir del Mon Blanc du Tacul. Foto da gulliver.it.

Tra queste occorre almeno ricordare la direttissima alla parete nord dell’Aiguille du Pian e l’altra direttissima alla Nord dell’Aiguille Sans Nom (5-6-7 agosto 1978, con Philippe Silvy), che rimarrà una delle sue più belle realizzazioni, una grande classica. Ma anche il concetto di «classico» va perdendo i suoi connotati tradizionali, come il vecchio concetto di «bella stagione». Non ci sono più mesi buoni e mesi cattivi, l’inverno non fa più paura, gli alpinisti attendono semplicemente il momento favorevole e lo sfruttano al volo. Così, nelle quattro stagioni, troviamo Gabarrou destreggiarsi tra i colatoi più alti del Monte Bianco, lo seguiamo infilarsi senza timori reverenziali in mezzo ai leggendari piloni del Frêney e del Brouillard. Nel 1984, con François Marsigny, dipana il vertiginoso sistema di goulottes a destra del Pilone Centrale del Frêney (primavera: 20-21 aprile) e sale l’incredibile Cascata di Nôtre Dame (autunno: 14 e 15 ottobre), tra il Pilastro Rosso e il Pilastro Centrale del Brouillard.

Ma non basta: sempre nel frenetico 1984, scopre e supera in artificiale sulla Est del Grand Pilier d’Angle il diedro di Divine Providence, che diventerà un severo banco di prova per la generazione dei super arrampicatori in quota. E sulla buia Nord delle Grandes Jorasses, una delle pareti più ambite ed esplorate di tutte le Alpi, Patrick apre ben tre vie nuove tra il 1986 e il 1992. Nel frattempo, per continuare la serie delle pareti celebri, nel luglio del 1989 il francese sale il Naso di Zmutt sulla Nord del Cervino, a destra dell’itinerario di Piola e Steiner. Lo accompagna ancora una volta il fortissimo Marsigny.

Poi anche il ghiaccio, con gli anni Ottanta, tende a esaurire i suoi segreti. La pericolosa passione per i seracchi, raffreddatasi dopo la morte di Gianni Comino, ritrova un fugace cultore in François Damilano, che il 29 agosto 1989 scala i 70 metri strapiombanti del gran seracco del Mont Blanc du Tacul (versante nord), assicurato da Jean-Luc Vanacker. Il nuovo gioco, che si diffonde soprattutto sulle cascate, consiste nel tentare la salita in arrampicata «libera», cioè senza appendersi agli attrezzi per riposare o per piazzare le protezioni. Sulle Alpi sono i francesi i più entusiasti discepoli di questa disciplina, che trova la sua massima espressione – nel gennaio 1992 – sulle imponenti colate del circo glaciale del Fer à Cheval (Giffre-Alta Savoia). Damilano, con Philippe Pibarot, raggiunge per la prima volta al mondo il grado 7 (scala canadese) sui 150 metri allucinanti della cascata Massue. Quasi altrettanto riesce a fare Thierry Renault sui 500 metri della Lyre.

Dolomiti, i grandi interpreti della roccia
Mentre l’evoluzione sul ghiaccio ha trovato il terreno naturale nelle Alpi Occidentali, con ragguardevoli interpreti anche nelle Alpi Centrali (Merizzi, Miotti, Scherini, Fazzini, Maspes), le Dolomiti hanno recuperato il ruolo storico di laboratorio dell’arrampicata libera. Inoltre la cultura veneta, tradizionalmente conservatrice, ha ritardato la diffusione del chiodo a espansione e ha salvaguardato un’etica severa consentendo, fino alla soglia degli anni Novanta, lo sviluppo dell’arrampicata estrema lungo le linee naturali della roccia. Sul concetto di «estremo» occorre chiarezza: è ovvio che il posizionamento di uno «spit» (cioè di un chiodo a espansione) permette sempre di spingere l’arrampicata verso limiti superiori, perché si annullano, o comunque si ridimensionano, le conseguenze di un’eventuale caduta. Ma «estremo» non vuoi dire solo più difficile da un punto di vista oggettivo, perché la valutazione deve contemplare anche il grado di rischio, cioè la qualità e la distanza delle protezioni in parete. In altre parole, se oggettivamente un passaggio di settimo grado è uguale sia a un metro che a dieci metri dal chiodo, sia con un tassello super sicuro che con una lametta aleatoria, di fatto l’impegno cambia radicalmente e lo storico non può non tenerne conto nell’analisi dei fatti. Come ha ampiamente dimostrato Motti nella sua ricerca, la componente psicologica ha quasi sempre la precedenza su quella atletica e tecnica.

I tre protagonisti più significativi degli sviluppi dell’arrampicata dolomitica sono stati Heinz Mariacher, Maurizio Zanella (Manolo) e Maurizio Giordani, con il contributo determinante del cecoslovacco Igor Koller. La parete più corteggiata è stata la Sud della Marmolada, perché offriva le maggiori possibilità di sperimentazione. Una muraglia immensa, solare, di roccia compattissima, che in alcuni settori riproduce la conformazione calcarea delle falesie di bassa quota. Una parete su cui erano già passati i più bei nomi dell’alpinismo dolomitico del Ventennio, da Vinatzer a Micheluzzi, da Soldà a Castiglioni. Sui suoi eccezionali muri lavorati dall’acqua si è potuta spingere l’arrampicata a livelli crescenti, facendo tesoro della preparazione atletico-sportiva maturata sulle piccole pareti di fondovalle.

Il passo propedeutico verso l’arrampicata libera in montagna è stata la «liberazione», appunto, dei vecchi itinerari artificiali. È quanto ha fatto per esempio il «pioniere» austriaco Heinz Mariacher sulla Parete Rossa della Roda di Vael, «liberando» la via Buhl. È quanto farà Alberto Campanile nel 1980 sulla stessa parete, una delle più paurose e strapiombanti delle Dolomiti, collegando la via Maestri con la via del Concilio senza utilizzare i chiodi come mezzo di progressione.

Ma già si guarda alle vie nuove. Gli amici-rivali Mariacher e Manolo, all’alba degli anni Ottanta, si presentano come i più accreditati interpreti del cambiamento, perché praticano assiduamente il free-climbing ma, a

differenza di altri atleti, sanno estrapolare i formidabili strumenti dell’arrampicata protetta dalla cornice un po’ asettica delle palestre (allora si chiamavano ancora così) per trasferirli sulle grandi pareti; si parla di almeno due gradini oltre il tradizionale sesto grado UIAA e di un gradino oltre il rivoluzionario settimo grado, già toccato da Messner e da Casarotto. È chiaro che, se non avesse raggiunto quel livello tecnico e quella sicurezza di progressione in falesia, la nuova generazione non avrebbe potuto aspirare agli specchi proibiti delle Dolomiti.

Occorre fare ancora un piccolo passo indietro. Il primo ad aprire le danze è infatti «Mago» Manolo, sulla Cima della Madonna, in leggero anticipo sui tempi. Le Pale di San Martino sovrastano casa sua, presso Fiera di Primiero, e c’è una sfida sulla parete sud che Alessandro Gogna ha lasciato incompiuta dal 1973. Il ventenne Zanolla raggiunge l’ultimo chiodo di Gogna il 14 novembre 1978 e di lì compie il balzo in arrampicata libera che segnerà l’avvento della nuova era sui Monti Pallidi. È lo stesso suo predecessore a precisare: «La via dei Piazaroi è un capitolo essenziale. In posizioni assurde, barbaramente protetto, Manolo piantò qualche chiodo, al quale si aggrappò come un naufrago in quell’oceano giallo e verticale di pietra assurda (Alessandro Gogna, Sentieri verticali, Zanichelli, 1987)». Due mesi prima Zanella aveva salito con De Bortoli il diedro della parete nord est di Cima Immink: avaro come sempre nelle valutazioni, aveva detto soltanto che era paragonabile al diedro Mayerl sul Sass dla Crusc in totale arrampicata libera. Ma lui l’aveva superato in apertura, con soli 20 chiodi e un unico passaggio in artificiale! Nel frattempo i tedeschi Reinhard Schiestl e Ludwig Rieser avviavano il rinnovamento sulla Sud della Marmolada con la via Schwalbenschwanz (Coda di rondine), a destra della fessura Conforto: 750 metri in 8 ore e con soli 5 chiodi, settimo grado inferiore.

Gli anni Ottanta iniziano di prepotenza. Manolo, con Piero Valmassoi, firma il suo capolavoro sulla parete est del Sass Maor, arrampicando per 13 ore sui 1200 metri di Supermatita, con difficoltà continue di settimo grado, 7 chiodi e qualche blocchetto da incastro. Nel settembre del 1980 Heinz Mariacher e Luisa Iovane – l’atleta veneziana che diventerà una delle prime arrampicatrici sportive del mondo – portano a termine Abrakadabra, sulla Marmolada d’Ombretta, dove con 15 chiodi superano difficoltà fino al settimo grado superiore. Non lontano, nell’agosto 1981, arriva la leggendaria Weg durch den Fisch (la via attraverso il Pesce), che supera una curiosa e compattissima concavità a forma, appunto, di pesce. Mariacher ha già provato a salire le immani placche tra la via dell’Ideale e la Conforto, ma sono i cecoslovacchi Igor Koller e Jndřich Šustr a risolvere il problema in tre giorni.

In arrampicata sulla via Supermatita al Sass Maor. Foto: rifugiovelodellamadonna.it

La via, dalle protezioni spaventosamente aleatorie, con artificiale obbligatorio su gancetti appoggiati alle gocce del calcare, sarà ripetuta soltanto nel 1984 da Mariacher, Manolo, Iovane e Pederiva. Scriverà Mariacher su Alp: «… c’è un passaggio in libera eccezionalmente difficile (VII+) con un chiodo molto cattivo come unica sicurezza lontano sette metri, tanto che viene da pensare che Sustr, di appena diciassette anni, non fosse del tutto a posto quando è passato per primo». Proprio sul Pesce, Giordani esprimerà la sua classe firmando la prima ascensione invernale dal 16 al 20 marzo 1986 (con Paolo Cipriani e Franco Zenatti) e la prima solitaria il 3 agosto 1990. Ma lo stesso Mariacher, con Bruno Pederiva, consegnerà la via alla storia dell’arrampicata libera il 15 e 16 luglio 1987, dichiarando difficoltà oltre l’ottavo grado.

Intanto nel 1982, dopo vari tentativi, Mariacher e la Jovane eseguono con chiodi normali e rigorosissima etica il loro capolavoro sulla Marmolada di Rocca: Moderne Zeiten (Tempi moderni). Ne esce una linea elegante su roccia indimenticabile, tra la via di Gogna e quella di Vinatzer, destinata a entrare nel novero delle grandi classiche del futuro. Poi, mentre Mariano Frizzera, Graziano Maffei e Paolo Leoni continuano la loro intensissima e longeva attività di ricerca secondo i canoni tradizionali dell’arrampicata mista (libera e artificiale), mentre Aldo Leviti e Francesco Mich concepiscono la Hyperscotoni sulla Cima Scotoni dove sfioreranno l’ottavo grado (giugno 1985), il roveretano Maurizio Giordani da fondo alle sue realizzazioni in Marmolada. Eccone alcune, dai nomi emblematici: via dell’Irreale tra il Pesce e la Conforto (1983, VII e A3, con Franco Zenatti); via Futura tra la Gogna e la Vinatzer (1985, VII+, con Rosanna Manfrini); via Fortuna a sinistra del Pesce (1985, VII+ e AO, con Zenatti).

L’evoluzione permette di azzardare un nuovo salto di qualità, anche se il terreno va ormai restringendosi a vista d’occhio; così l’ottavo grado superiore viene dichiarato da Giordani e Manfrini nell’agosto 1985 di ritorno da Athena (una variante di 225 metri alla via Olimpo nel cuore della parete di Punta Rocca), mentre Koller trova ancora una striscia arrampicabile tra il Pesce e l’Irreale: la via Italia. Poi per Giordani è la volta di Andromeda (1987) e dello Specchio di Sara (1988), i due itinerari più difficili. Sullo Specchio di Sara il roveretano ipotizza difficoltà di nono grado inferiore con quattro punti di aiuto; la via gli richiede una progressione esasperante e un pauroso volo di trenta metri. Andromeda sarà liberata totalmente dall’altoatesino Roland Mittersteiner nel 1990: difficoltà fino al nono grado superiore, con il passaggio chiave lontano dieci metri dall’ultimo punto di assicurazione! Dirà al ritorno Mittersteiner: «Quando siamo scesi in corda doppia per la via del Pesce, nei passaggi chiave di questo itinerario mi sono stupito per l’abbondanza degli appigli» (Alp n. 72). Anche i nuovi miti cadono in fretta.

Ma nel frattempo, lontano dalla Marmolada, Soro Dorotei e Paolo Sperandio hanno aperto un severo itinerario di 900 metri sulla parete nord-nord-ovest del Pelmo, nell’estate 1985, e la stagione seguente Marcello Cominetti e Marco Fanchini hanno risolto il problema del Pilastro di Destra del Sass dla Crusc. Ci avevano già provato in molti. Neanche sulle Dolomiti le possibilità sembrano così in crisi se il fortissimo Lorenzo Massarotto di Villa di Conte (Padova), il più degno e fecondo continuatore della severa tradizione classica, firma ben quattro vie nuove soltanto sulla Nord dell’Agner: nel 1987, con Giovanni Rebeschini, l’immensa parete gli riserva difficoltà fino al settimo grado su uno sviluppo di quasi 1700 metri.

Per Massarotto è implicita la negazione del chiodo a espansione, ma la sua etica va oltre: «Per il mio alpinismo uso metodi pionieristici, cioè mi rifaccio al sistema secondo il quale uomini come Rebitsch, Vinatzer, Soldà, Carlesso e Cassin affrontavano le grandi pareti. Loro non avevano dadi, friend e ricetrasmittenti. E quando io dico che in una mia via ho usato soltanto quattro chiodi, non intendo dire che ho usato quattro chiodi, dieci dadi e tre stopper. Intendo dire che ho usato quattro chiodi e basta (La Rivista del CAI, 1985)». Questi, secondo l’alpinista veneto, sono gli unici presupposti per l’evoluzione e ancora una volta puristi e «artificialisti» dissentono sul concetto di progresso in alpinismo.

Heinz Mariacher non è chiaramente in accordo con le tesi di Massarotto quando, nel 1986, partorisce il «sacrilegio» del Sasso delle Undici. Si tratta di «un esperimento per vedere se lo spit dal basso possa rappresentare uno stile accettabile sulle pareti alpine. Per questo ho scelto una parete che non avesse una tradizione alpina: la parete est del Sasso delle Undici era totalmente “integra” e non avrei potuto infrangere regole del gioco preesistenti. Nonostante la protezione con gli spit, l’impegno psicologico è stato pari a quello delle mie altre vie in montagna.

Non ho rischiato la vita, ma ho superato passaggi al mio limite su una parete alta 300 metri. Anche chiodare dal “cliff-hanger” è stata spesso un’azione al limite del volo. Alla fine Tempi modernissimi è stata più avventura che free-climbing e mi ha portato alla convinzione che questo stile potrebbe far rinascere l’arrampicata alpina a nuova vita (Alp n. 27)». Ma alla fine, onestamente, Mariacher ammette: «Tempi modernissimi di sicuro non è il grande passo in avanti che avevo sempre sognato. Sono sempre convinto che questo passo sarebbe da fare nello stile di Tempi moderni».

A ogni stagione si fanno sempre più sentire i benefici atletici (e psicologici) dell’arrampicata sportiva. Anche in Dolomiti fa la sua comparsa la scala francese delle difficoltà, a conferma che i tempi stanno di nuovo cambiando. Talvolta l’evoluzione tecnica si accompagna ancora alla scoperta di nuovi terreni, come accade a Gigi Dal Pozzo e Maurizio Dall’Omo, nel 1988, setacciando il gruppo delle Marmarole: scoprono linee bellissime, roccia fantastica e difficoltà fino al 7a. Dal Pozzo, uno dei più intraprendenti arrampicatori bellunesi, aveva già superato la soglia del 7b l’anno precedente, sulla parete ovest della Torre d’Alleghe (via Dulcis in fundo) e ripeterà l’esperienza nel 1992 sulla parete ovest del Mulaz (Magia nera).

Ma occorre attendere l’estate del 1990 per i risultati più significativi. Il formidabile sloveno Franček Knez si dedica alle Tre Cime di Lavaredo, dove inventa la via Killer alla Cima Piccolissima e la via Vigore della mente alla Cima Grande, a sinistra dello storico itinerario di Comici. Le difficoltà sono rispettivamente VIII+ e IX- della scala UIAA; lo accompagnano Dani Tič, Andreja e Martin Hrastnik. Ma gli altoatesini Christoph Hainz e Osvald Celva fanno ancora meglio, raggiungendo il IX grado sulla sfruttatissima parete sud-ovest della Cima Scotoni: la loro via, aperta senza spit, si chiama Zauberlehrling e corre per 700 metri tra la Dibona e la Hyperscotoni. Viene giudicata ancora più difficile del leggendario itinerario dei fratelli cecoslovacchi Miroslav e Michal Coubal alla Cima Grande di Lavaredo (IX-). Hainz è ormai uno dei più preparati arrampicatori-alpinisti degli anni Novanta e si riconferma nel 1991, in compagnia di Valentin Pardeller, con un grande itinerario di 27 lunghezze di corda sul pilastro della Punta Tissi, in Civetta: difficoltà fino all’ottavo grado.

Mittersteiner si rivela invece uno dei massimi specialisti dell’arrampicata estrema, liberando in Marmolada la nuova via Fram di Igor Koller e superando con Celva difficoltà straordinarie di 7c (nono grado superiore). D’altra parte, su questo genere di itinerari sempre più costretti che – con l’ausilio di alcuni spit e con logica discutibile – percorrono le poche strisce ancora sfruttabili della grande parete, il confine tra alpinismo e arrampicata è ogni giorno più labile: lo dimostrano i due affermati arrampicatori sportivi Pietro Dal Prà e Alessandro Lamberti, con la prima invernale della stessa Fram nel febbraio 1993. Completa invece il 1992 la bella realizzazione di Alfredo Bertinelli e Massimo Da Pozzo, che dichiarano difficoltà di 7b sulla Tofana di Mezzo e dedicano la nuova via agli Agenti di scorta dei giudici Falcone e Borsellino. Lo stesso Da Pozzo e Dal Prà si occupano dell’invernale a distanza di pochi mesi.

L’estate 1993 segna l’avvento delle massime difficoltà nello storico gruppo del Civetta: sulla parete est della Torre Trieste, con un bivacco, Gigi Dal Pozzo e Maurizio Fontana tirano su diritto tra la via Zigaraga di Mariacher e la Giordano-Scarabelli, su muri compattissimi; ne risulta un tratto di 7c nel primo tiro, con tre soli spit di protezione e 4 di sosta sui 350 metri dell’intero itinerario. Manolo, da parte sua, cerca e trova la profanazione sulla parete sud-est del Sass Maor, nelle Pale di San Martino. Si cala dall’alto in più riprese e, con il trapano, traccia Nurejev, una via sportiva a sinistra della Biasin, più o meno come si fa in falesia. La sua ripetizione dal basso, in arrampicata libera, evoca il feticcio dell’8a, ma intanto sulle Dolomiti si è forse già chiusa un’altra epoca.

Gli anni che cambiarono l’alpinismo – 3 ultima modifica: 2025-10-16T05:47:00+02:00 da GognaBlog

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1 commento su “Gli anni che cambiarono l’alpinismo – 3”

  1. Mi è sempre interessata la storia dell’alpinismo. L’articolo mi è quindi molto piaciuto. Parecchie notizie non le conoscevo. Mi sorprende che un articolo che parla di alpinismo, che credo sia al centro degli interessi dei frequentatori di GognaBlog, non generi nessun commento mentre il Tornello della val Gardena ne ha ottenuti 83.

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